agli incroci dei venti: società

 
 
 
 

 Educare oggi: un bilancio sempre in rosso

di Sergio Tardetti
 

 
 

Il termine dell’anno scolastico, un altro anno trascorso all’insegna della precarietà e dell’arte di sopravvivere, è ormai prossimo. Già si intravede il momento della rendicontazione, dei calcoli che sanciranno promozioni e bocciature, eufemisticamente tradotte in non promozioni, con l’intento di attenuarne il senso e la portata. Una rendicontazione a volte ragionieristica, un bel bilancio con le sue colonne degli attivi e passivi, un puro calcolo aritmetico che assume, in certi tristissimi contesti, l’aspetto di una vera e propria resa dei conti. E’ senza dubbio un momento topico nell’attività di un insegnante, da affrontare con serenità ed equanimità, con la mente sgombra da pre-giudizi che, inevitabilmente, hanno preso corpo e consistenza nel corso di un intero anno scolastico. E’ proprio in questi momenti che entrano in gioco sentimenti indesiderati e impropri, come il risentimento, covato nei confronti di una classe che non si è assuefatta ai nostri voleri, che spesso ci ha evitato con assenze strategiche, che ha cercato in mille modi di sottrarsi a quelli che noi siamo stati abituati, da sempre, a considerare i primi doveri di uno scolaro: puntualità, assiduità e impegno, oltre, naturalmente, ad una certa dose di buone maniere. Altri di noi sono invece assillati da dubbi e considerazioni completamente diversi, tra i quali spicca il dubbio sommo: sarò in grado di giudicare? che, spesso, è accompagnato da un altro interrogativo, altrettanto inquietante: sono stato in grado di educare? Personalmente convinto che dubitare sia la più sana e sensata delle attività mentali, cartesiano da sempre, non vivo questo interrogativo con angoscia, quanto piuttosto come un utile e perfino necessario stimolo, per rivedere logiche e parametri che solo una certa pigrizia mentale ed un certo adagiarsi sulle situazioni esistenti tendono a far ritenere immutabili. Il fatto è che si opera, noi insegnanti, in un campo di estrema delicatezza, quello dell’educazione, parola desueta, più facilmente sostituibile con il termine formazione, che confina e spesso sconfina in informazione. Quel preside del liceo sperimentale “Marilyn Monroe” nel bel film “Bianca” di Nanni Moretti, che ricorda al suo insegnante che “compito della scuola è quello di informare, non di formare” sembra appartenere ormai al mondo reale della scuola attuale, piuttosto che al mondo virtuale della finzione cinematografica. Educare, oggi, sta perdendo sempre più la sua connotazione primaria, per acquisire aspetti e sfumature che diventano via via preponderanti e fanno perdere di vista le intenzioni originarie. Invece che “tirare fuori” siamo tutti spasmodicamente impegnati in un’azione diametralmente opposta, quella del “mettere dentro”; a nulla sembrano valere i richiami di Morin a costruire una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena. Forse la partita, attualmente, si gioca sul confronto, ormai prossimo al conflitto, tra sostenitori di teste ben fatte e fautori di teste ben piene. Sulla carta, stando almeno alle dichiarazioni spontanee di moltissimi colleghi, sembrerebbe prevalere l’idea di indirizzare l’educazione – formazione verso lo sviluppo di teste ben fatte. E’ difficile, se non impossibile, incontrare insegnanti che proclamano apertamente di appartenere al partito delle teste ben piene; i pochi, colti in flagrante a professare idee riconducibili al paradigma degli “imbottatori”, ammettono candidamente tra il sorpreso e lo smarrito che, sì, simpatizzano per questo partito, ma non lo hanno votato. Alcuni giungono ad indossare l’abito, in verità poco adatto alla loro taglia, di “cauti sperimentatori”, adducendo come prova il fatto di avere introdotto nella loro prassi didattica l’uso del computer e di Internet. Poveretti! Essersi esposti al rischio di cadere nel ridicolo, surclassati da allievi ben più tecnologici, praticamente nati con il mouse in mano, e senza neanche un riconoscimento formale delle proprie fatiche (pochissime e del tutto virtuali) e delle numerose magre figure, inevitabili a causa delle troppo modeste e troppo poco padroneggiate competenze in materia. La maggioranza, come sempre “silenziosa” per definizione, fa chiaramente intendere, anche senza interloquire, da che parte è schierata. Perché, allora, le cose sembrano viaggiare in direzione diametralmente opposta? Perché le teste ben fatte finiscono, nonostante le buone intenzioni e i proclami sbandierati ai quattro venti, per essere minoranza del tutto marginale rispetto a quelle ben piene? E ben piene di cosa, poi? A questo punto del discorso, come dal cilindro di un prestigiatore di avanspettacolo, i cauti sperimentatori tirano fuori un coniglio, in effetti piuttosto spelacchiato e male in arnese: lo chiamano il portfolio delle competenze. Questa quintessenza delle panacee, destinato a guarire tutti i mali cronici che affliggono la formazione, è tra gli oggetti più misteriosi che siano mai atterrati sul pianeta scuola, provenendo da un universo alieno, quello dell’azienda. Ricordo, personalmente, già negli anni ottanta, alcuni disperati e deludenti tentativi di dare soluzione ad un’equazione assolutamente impossibile ed improponibile quale “scuola = azienda”. Non è evidente l’inutilità di uno sforzo di stabilire termini di paragone tra due mondi, quello della produzione e quello dell’educazione, che a tutto deve pensare tranne che ad essere redditizio? Il bilancio dell’educazione è sempre necessariamente in rosso, si investe sempre molto di più di quanto si ricava, è una attività senza scopo di lucro e dalla quale è assurdo pretendere un rapporto deficit/PIL sotto il tre per cento. L’educazione non può essere racchiusa dentro i parametri di Maastricht, richiede investimenti costanti e generalmente crescenti e il cosiddetto ROI (return of investment) è quanto di più incerto e insoddisfacente si conosca. E’ qui che si arresta il blaterare dei cauti sperimentatori: le casse, comprese quelle affettive, sono vuote, non ce n’è per nessuno. La grande cattedrale della riforma viene eretta in un deserto di proposte e di volontà, sopraffatte ed annichilite per l’assenza di utopie possibili che segnino il cammino da percorrere, incoraggino i più scettici e i più reticenti a seguire un percorso irto di difficoltà e di incertezze ma, in fondo (ma proprio in fondo!), non privo di soddisfazioni Il portfolio ci indica di cosa riempire le teste, anche se queste indicazioni vengono fornite con modalità per niente condivise e tutte quante ancora da sperimentare e verificare. E’ su questo che attualmente sta confluendo la gran parte degli investimenti, di tempo e denaro, accrescendo continuamente la rilevanza e i costi di quello che dovrebbe essere unicamente uno strumento, in sé né buono né cattivo. Del resto, come potremmo attribuire ad uno strumento, utile quanto vogliamo ma pur sempre uno strumento, una qualche valenza etica? Un martello, una pinza, un attrezzo evoluto come un computer, possono considerarsi in sé buoni o cattivi? Credo che un qualche giudizio morale possa associarsi ad uno strumento esclusivamente sulla base dell’uso che se ne fa e, soprattutto, con riferimento a chi lo usa. Usare bene o male il portfolio ne fa un buono o un cattivo strumento, il che comporta la necessità di spostare l’attenzione dallo strumento all’utilizzatore dello stesso. Insomma, siamo alla solita storia, con la solita conclusione: investire risorse sui docenti, utilizzatori più o meno consapevoli e più o meno competenti di strumenti didattici, tra cui va annoverato anche il portfolio, può senza dubbio risultare molto più redditizio che non continuare ad investire in strumenti, tecnologicamente avanzati o meno, attraverso i quali si ritiene, probabilmente in buona fede, di ridare ossigeno ad una didattica asfittica. In tutto il mare di indicazioni metodologiche ed operative, di norme e codicilli, di cui sembra vivere il nostro sistema scolastico, raramente, direi quasi mai, mi è capitato di incontrare la parola “empatia”, vero motore di ogni rapporto educativo. Senza lo stabilirsi di una relazione empatica, senza la costruzione di una dimensione affettiva, dentro la quale interagiscano docente e discente, il resto sono parole vuote, destinate a disperdersi nel deserto, affollato di buoni propositi, del portfolio. Su questo, credo, su come cioè ridare ai docenti autorevolezza e capacità di ascoltare e farsi ascoltare, si deve investire, se si vuole porre realmente, e non a parole, il discente al centro del processo educativo e se veramente si vuole ridare un senso alla parola “educare”.


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11/06/05

 
 
 

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