agli incroci dei venti

 
 

Storie di questo mondo

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La donna invisibile

di Silvia Golfera

 
     
 

Eppure quella sensazione di essere trasparente l’aveva perseguitava fin da bambina.
Più tardi, dopo il fatto, per quanto si intestardisse a frugare nei ricordi, non riusciva a rintracciare una sola occasione in cui sua madre l’avesse guardata in viso. Ma non era possibile che le cose fossero andate proprio così. Vagava avanti e indietro nella memoria, senza pace. Eppure mai che incontrasse gli occhi di sua madre, che intuiva chiari come un mattino d’inverno, o scuri, come una pozza di melma. A volte da bambina, attraverso una fessura nella porta dello studio, ne spiava la schiena ricurva sulla macchina da scrivere, le spalle magre e irregolari. La vedeva appoggiare il mento sul dorso della mano, la testa reclinata in un gesto di sconfitta. Immaginava il suo sguardo perso oltre la finestra, fra i rami inquieti degli alberi del parco pubblico, su cui dava il retro della casa. L’attanagliava allora la malinconia. Avrebbe voluto accarezzare quei capelli neri sempre spettinati, che non le permetteva di toccare. E già avvertiva fra le dita il loro ruvido calore. Ma non osava. Sapeva di non essere in grado di consolarla, e si allontanava, per non farsi scoprire. Nascosta in qualche angolo lontano della casa, lasciava sbollire quel senso di umiliante fragilità che l’angustiava.
Quando poi le parlava aveva quell’odiosa abitudine di fare sempre qualcos’altro: cuciva, o stirava, o rispondeva al telefono. E lei doveva insistere e insistere, per ottenere un’udienza distratta e impaziente. Neppure suo padre sembrava attribuirle una piena esistenza.
-Cosa vuole, la bambina?- chiedeva alla moglie, quando lei s’intestardiva, petulante, e avvertiva di ispirare a quella tranquilla coppia, tutta immersa nelle proprie faccende, una potente, inesauribile noia.
Certo sua madre non era la donna posata che si sforzava di apparire. Intuiva sotto quell’accanito distacco un ribollio inquieto che la condannava a un agire perpetuo, febbrile, insoddisfatto. “Neanche oggi sono riuscita a combinare niente di buono” la sentiva lamentarsi al telefono col suo editore, la voce piena d’angoscia, ma non rassegnata. Chissà perché, quando pensava a lei, le veniva in mente un mare gonfio a vela, che il vento sbatte di qua e di là. E lei stessa la minuscola scialuppa che ci sta sopra. Neanche nella morte sua madre aveva trovato pace, con quella piega cupa e dolorosa rimasta scolpita fra le sopracciglia.
Di questo avrebbe voluto parlare al giudice che l’aveva interrogata. Perché quello che era stato dopo era solo nebbia, e sabbia che si sgretola al tatto, che nessuna parola riusciva a comporre, a ordinare, a evocare.
Era stato un tumore allo stomaco a portarsi via sua madre. Stesa nella cassa, nel riverbero dell’imbottitura di raso bianco, voluto dal padre, era rimasta a lungo a spiarla. Gli occhi per sempre chiusi. Fu allora che le parole si spensero, come una piccola fiamma annegata dalla cera sciolta.
Per due giorni la vegliò, quasi ignorando quel flusso continuo di parenti, amici, autorità cittadine. Aveva osservato per ore il suo naso sottile gonfiarsi impercettibilmente e le labbra scomparire nello spento chiarore del viso. Le sembrava che sotto le palpebre qualcosa di molle fermentasse e per un attimo lottò con l’irresistibile desiderio di aprirle.
La mano vagò sulla fronte fredda, senza distendere quella fitta rete di rughe che il dolore vi aveva intessuto. Appoggiava il palmo sulla fronte di pietra, e non la riconosceva. Neanche quel cadavere riconosceva più.
-Perché continua a parlarci di sua madre? Ci racconti piuttosto di quel 27 novembre. Come si sentiva quel giorno?-insisteva ogni volta il magistrato.
Ma subito un dolore freddo la rendeva inconsistente e vuota. Vuota la testa. Inerte la bocca.
Inconsistente lo era stata sempre, per questo nessuno la guardava.
Persino gli insegnanti, anche quei pochissimi che aveva amato fino al batticuore, ogni volta arrestavano lo sguardo proprio nella fila davanti alla sua, o già oltre. O sulla ragazza a fianco, o appena sull’orlo del suo banco, come se lei fosse solo ombra. E se durante una lezione si accennava a un’opera di sua madre, cosa inevitabile perché anche nella loro antologia ne era riportato qualche brano, nessuno la chiamava in causa. Quasi fosse indecente collegarla alla sua insignificante persona.
In effetti era stata una studentessa mediocre, che trascinava la sua mediocrità da un ordine di scuola all’altro. Una mediocrità acquattata nelle aule squallide, nei visi spenti degli altri. Ma che neanche il bell’ingresso, dal soffitto a cassettoni, del prestigioso liceo dove l’avevano iscritta, era riuscito a stemperare. Diligente senza entusiasmo, si sapeva inadeguata e banale.
-Fa tutto quello che le si dice, ma è come se niente l’interessasse davvero. Non si sa come motivarla- lamentavano i professori, al primo colloquio annuale. Dopo di ché suo padre non si faceva più vedere.
L’unico che avesse messo gli occhi su di lei, almeno all’inizio, era stato suo marito:
-Come sei bella Anna!-le diceva, senza osare toccarla-Così bella che sembri scolpita nel marmo-. E questa sensazione nuova, che l’attraversava come un’onda in tempesta, di entrare finalmente nell’orizzonte di qualcuno, le aveva dato per la prima volta l’illusione di esistere. Solo per questo l’aveva sposato. –È un uomo così noioso, questo tuo Piero!-aveva commentato la madre, alla vigilia delle nozze, dopo una cena in famiglia -Ma forse è la persona giusta per te.
Anna non sapeva che tipo d’uomo potesse fare per lei. Ma già il giorno della cerimonia la tormentava un senso d’irrimediabile pena, congelata, con fatica, sotto un freddo sorriso. Piero la deluse subito.
Dopo il matrimonio il suo lavoro d’ingegnere lo teneva lontano da casa e quando tornava, a tarda sera, esausto e innervosito, lasciava vagare uno sguardo distratto, che la trafiggeva, come una ferita inguaribile. Cenavano in silenzio, il viso nel piatto. E mentre la donna sparecchiava, insieme fumavano una sigaretta. A volte lei allungava una mano sul tavolo e lui gliela afferrava. Una stretta rassegnata, che la faceva soffrire. Appena il tempo di accoppiarsi veloci, sotto le coperte, la stanza nel buio, prima di perdersi nel sonno.
Quando si accorse di essere incinta, la invase un senso di rovina e di smacco.
Aveva fantasticato la gravidanza come qualcosa di eroico, di assoluto, che le avrebbe strappato finalmente di dosso quella ruggine che la rendeva opaca. Ma ora si sentiva intaccata da qualcosa di vischioso, quasi l’avesse schizzata del fango. Non l’aveva neanche immaginato che quegli amplessi sbiaditi e frettolosi potessero produrre qualcosa.
-Sei sicura che è quello che vuoi?- aveva sospirato sua madre, già ammalata, quando glielo aveva comunicato. Controllava intanto un calice controluce, per scoprirvi invisibili ombre.
Era tornata a casa in preda ad una nausea cupa. Tutto la disgustava, a cominciare da quel qualcosa che non sapeva definire, né in quale parte del corpo collocare.
Ma poi la madre le aveva telefonato e aveva colto, nella sua voce, un po’ di apprensione per lei. -Mi raccomando, non andare troppo in giro. Riposati. Manda la donna a fare la spesa. Bisogna che dica a tuo marito di starti più vicino.
Non ce n’era bisogno. Piero sembrava aver riacquistato un nuovo, pacato vigore, così come si era riacceso l’antico interesse per lei. Anna gli scopriva a volte un sorriso incantato, che trapelava appena. –Non ho mai visto il signor Piero così felice- diceva la donna, mentre sprimacciava i cuscini del soggiorno.
Faceva il possibile Piero per rincasare presto, a costo di penose noie sul lavoro. Durante il giorno poi, la chiamava continuamente, tre, quattro volte, per sapere di ‘loro’.
Anna se ne stava svogliatamente stesa sul divano, le gambe sollevate, da bere e delle riviste a portata di mano. Finalmente una piccola corte le ronzava attorno, l’accudiva, l’ascoltava, stava in ansia per lei. Non più un’ombra che si aggirava a stento nella vita di altri. Possedeva uno scettro con cui avrebbe regnato, almeno sulla vita di suo figlio. Lui sarebbe stato suo, non avrebbe avuto occhi che per lei.
Nell’ultimo periodo della gravidanza sognava spesso di essere una grossa bolla fluttuante in un punto indefinito del cielo. La terra così lontana che quasi non si scorgeva più. Non riusciva a ricordare la sua casa, il suo indirizzo. Poi all’improvviso si disintegrava in una miriade d’invisibili goccioline, svanite nel vuoto.
Si svegliava di soprassalto, invasa dall’angoscia, e subito portava le mani sul ventre gonfio e tirato. Il marito le faceva scivolare un braccio sotto la nuca e la tirava a sé:-Cosa succede? Hai fatto sobbalzare tutto il letto... È normale che tu sia agitata. Fra poco saremo in tre.
Invece sembrava che il bambino non volesse saperne di nascere. Il termine della gravidanza scaduto da un pezzo, ma lui non mandava segnali. Alla fine i medici decisero di ricoverarla ugualmente. Cercarono d’indurle le doglie. In sei dovettero premerle sul ventre per ore, e lacerarla, per stanare quel frammento di carne viva che si agitava convulso, i piccoli pugni in aria, ingolfato da un pianto rabbioso. Glielo appoggiarono al seno. Ma lui non voleva saperne e puntava il cranio come un ariete alla carica. Lei era sfinita, piena solo di ribrezzo. Tuttavia aveva tentato di afferrare quel piccolissimo volto di prugna e di fissarlo negli occhi. Lui s’inferociva e serrava le palpebre:-Portatelo via, sono stanca…portatelo via.
I primi giorni dopo il parto trascorsero in una sorta di nebbia. Solo uno strano rullio di carrelli e di passi persi nella lontananza. Un’eco di singhiozzi sfilacciati e convulsi che l’agitavano. Facce indecifrabili a vagarle attorno. Ogni tanto qualcuno, o qualcosa, a stringerle una mano, a sfiorarle la fronte:
-Anna, andrà tutto bene. Ora sei stanca-. Voci che calavano da altri luoghi, perse nell’aria.
Quando la riportarono a casa lei stava sul sedile di dietro. Accanto la cesta con il bambino, addormentato a pancia in giù. Una piccola testa ricoperta da una peluria irta e nera, i capelli di sua madre, un profilo da gnomo.
Suo marito, al volante, si girava indietro sollecito o la fissava attraverso lo specchietto.
-Che meraviglia il nostro Paolo. Sei stata bravissima.
L’auto avanzava nel traffico, lungo le vetrine, i marciapiedi affollati, i viali dai grandi alberi che già buttavano le prime escrescenze verdognole. Non riconosceva nulla. Attraversava una città straniera. La gente, affondata nei cappotti, scivolava via, come in una vecchia, sbiadita pellicola.
-Non ti devi preoccupare. Il dottore ha detto che capita a molte donne nella tua condizione e che non ti devi affaticare. Ti ho trovato una dada per i primi tempi.
A casa li accolse infatti una giovane donna, alta e scura, i capelli crespi raccolti sulla nuca. Aveva un sorriso imbarazzato mentre si presentava. -Mi chiamo Tania- disse, abbassando lo sguardo, mentre stringeva la mano inerte di Anna. Aggiunse poi:-Che splendido bambino!
S’impossessò della cesta con le sue braccia forti, quasi strappandola dalle mani del padre, con una sorta di timidezza imperiosa. E sparì nella stanza che le avevano destinato.
-Dovrà essere cambiato, avrà fame- disse, portandoselo via.
Nei primi mesi Piero si era dato molto da fare. Si alzava di notte, per la poppata, assieme alla dada, si occupava dell’organizzazione di casa. Mentre la sera usciva con Anna, al ristorante, al cinema, a teatro. Quando la vedeva più in forma, invitava anche qualche amico. Lei si sentiva lusingata, a volte quasi felice, nonostante quello sgradevole vuoto nella testa. Le sembrava che la gravidanza, il bambino, la nuova premura di Piero, non riguardassero veramente lei. Continuavano i sogni tormentosi, che si ripetevano uguali, e la lasciavano spossata. Si smarriva in aeroporti sconosciuti, né documenti, né memoria, solo la vaga, incerta sensazione che un marito e un figlio l’attendessero da qualche parte. Oppure perdeva la valigia e doveva assolutamente chiamare la polizia. Ma i telefoni mimetizzati fra i rami di un albero, nel cerchione di un’auto, erano irrimediabilmente guasti. Per tutta la giornata un pesante malessere ad avvelenarle l’anima.
Succedeva che il bambino le passasse del tutto di mente e trascorrevano due, forse tre giorni, in cui quasi non l’aveva visto.
Quando infine dovette tornare a tempo pieno al lavoro, Piero si raccomandò alla bambinaia per la cura del piccolo, e la dieta, e il sonno, e le passeggiate all’aria aperta. Ma soprattutto non disturbasse Anna, che ancora non s’era ripresa dal parto. Quando rientrava, la sera, prima di tutto passava a vedere Paolo e s’informava sull’andamento del giorno. Ma in genere era sempre occupato a sbrogliare quanto s’era accumulato, in ufficio, durante la sua assenza.
Per fortuna Tania se la cavava da sola, scandendo regolarmente cambi, poppate, passeggiate, sonnellini. Anna, in disparte finché il marito era stato più presente, si aggirava ora incerta e timorosa attorno alla culla, le mani che pendevano vuote. Restava a lungo a fissare il bambino, nell’attesa di uno sguardo e di un sorriso. Ma Paolo non guardava, e non sorrideva a nessuno, a lei meno che a tutti.
–Sono tua madre-gli sussurrava, quando erano soli-Ti ho tenuto a lungo nella mia pancia, ti ricordi?-. E accostava sempre di più il viso a quello di lui, che prendeva ad agitarsi, e arrovesciava il capo pur di evitarla e iniziava a strillare. Accorreva Tania, che ignorando la presenza di Anna, faceva subito penombra nella stanza e iniziava a cullarlo, a cullarlo, finché il bimbo non tramutava il pianto in sbadiglio, e si addormentava.
Anna restava avvilita e imbarazzata: -Volevo prenderlo in braccio-diceva, col tono di scusarsi. -I bambini hanno bisogno di tranquillità!- sentenziava Tania, senza sollevare il capo.
Anna era rifiorita in quei mesi. Il riposo, dopo lo strapazzo, le molte cure che dedicava a se stessa, le avevano donato una lucentezza diafana, che metteva in risalto gli occhi fermi, dall’espressione assente, e la linea decisa delle labbra sottili. Trascorreva ore davanti allo specchio, in camera sua, immobile, a cercare qualcosa che non trovava mai. Il marito la sorprendeva così e lei si accorgeva della sua presenza quando già le passava le mani sui lunghi capelli setosi, dai riflessi rossastri, sfiorandole il collo con le labbra. Allora si girava e lentamente si piegava a sbottonargli i pantaloni, a cercare il suo pene da succhiare.
La casa sempre silenziosa. Né la domestica, né Tania sembravano farle caso. Sua madre stava morendo, ma non se la sentiva di andarla a trovare. Eppure la sua morte l’aveva lasciata attonita e indolenzita, come se pezzi della sua carne se ne fossero andati con lei.
Paolo inavvertitamente cresceva. Aveva iniziato a camminare, ma usciva poco dalla sua stanza. Tuttavia seguiva Tania docilmente, quando lo portava fuori. Non piangeva, non urlava, nessuna particolare inclinazione se non quella di trastullarsi a lungo con le sue mani o con la punta di un indumento. Ancora non parlava. Il padre s’inquietava per questo e lo spronava. ‘Tania’ ‘papà’ e ‘mela’ le uniche parole che riusciva a strappargli, distinte e pulite come perle. La baby-sitter aveva spiegato che al parco, dove lo portava tutti i pomeriggi di sole, incontravano spesso una bambina con una mela. La bambina iniziava a morderla, poi la faceva rotolare verso Paolo. Lui non l’afferrava mai, se la lasciava ruzzolare fra i piedi. Era Tania a rimandarla indietro. Il bimbo incantato, quasi rapito dal gioco.
Una sera in cui era esausto, Piero tirò fuori l’idea di far visitare il bambino da qualche specialista. Ne parlò fra un pensiero e l’altro.
-Ma che ti salta in mente? Il bambino sta benissimo, non ha niente di strano!- si allertò Anna.
-Sei sicura? Ha quasi due anni e dice solo tre parole. Sembra non badare a niente. Non sorride.
-A te, che non ci sei mai e lo trascuri. A me sorride tantissimo.
-Non mi pare. Lui vuole solo la sua dada. Forse abbiamo sbagliato a tenerla così a lungo.
-Non vorrai dare la colpa a me, spero?! Io non la volevo neanche. Sei stato tu a impormela.
Non ne parlarono più, ma Anna si era fatta irrequieta. Spiava suo figlio e la dada, seduti sul tappeto a guardare le figure di un album, con sospettosa apprensione.
–Paolo, dov’è la mamma?- gli chiedeva, battendo le mani. Il bambino alzava la testa, catturato dalla voce, ma non la girava verso di lei. –Paolo, guardami! La mamma è qui!- ma lui tornava alle figure, rinunciando a cercarla.
Adesso, alle passeggiate quotidiane, voleva partecipare anche Anna. Tania spingeva il passeggino, lei dietro, assorta davanti alle vetrine. Ma al parco non aveva mai pace, finendo spesso col litigare con la ragazza. –Non lasciarlo sull’erba umida…guarda che si mette le mani in bocca…attenzione! Non hai visto che si avvicina a un cane?
-Se non le piace come tengo il bambino, può anche licenziarmi!- sbottava Tania, sbuffando d’impazienza. Allora Anna si arrendeva. L’idea di trovarsi sola con quel figlio la terrorizzava. Aveva la sensazione che quel piccolo essere impenetrabile potesse incenerirla, risucchiarla in un vuoto senza ritorno.
Un pomeriggio freddo di nebbia, in cui non erano potute uscire, mentre vagava da una stanza all’altra per sfuggire alla voce di Tania che intonava canzoncine e rideva e gorgogliava come una bambina, squillò il telefono. Era la segretaria di un noto psichiatra, che chiedeva di spostare un appuntamento.
-Deve esserci un errore. Non abbiamo richiesto alcuna visita- rispose Anna, con sforzo. Temeva che la voce si potesse spezzare.
-Scusi, lei è madre di Paolo…
-Si.
-Qui risulta che suo marito ha preso un appuntamento per sabato prossimo, alle dieci di mattina. Il Professore si scusa, ma è impegnato a un congresso. Tuttavia potrebbe vedere il bambino domani pomeriggio, alle diciotto.
-Io…ne parlerò con mio marito. La farò richiamare.
-D’accordo. Arrivederla.
Rimase col ricevitore in mano, senza riattaccare. Sentiva che un gesto qualsiasi poteva sgretolarla. Immobile, la voce sommessa di Tania, interrotta da gridolini e risa che non erano sue. Era il bambino che cantava con lei. Riattaccò per raggiungerli, ma rimase a osservare la nebbia, che assediava la finestra. Si intravedevano appena i rami morti del viale. I rumori della strada salivano a stento come eco di un’altra vita.
Quando entrò nella camera entrambi tacquero di colpo. Paolo fece sparire dentro le maniche del maglioncino giallo le mani, che prima agitava al ritmo della canzone, e prese a succhiarsene una. Tania con un sorriso strano, che le faceva paura.
-Faccio io il bagno al bambino, così ti lascio un po’ libera- e prese in braccio Paolo, che non protestò e si lasciò portare via.
Nella vasca piena di schiuma Paolo cercava di affondare i suoi pesciolini di gomma. Li spingeva sul fondo dove li tratteneva un po’, convinto di esserci riuscito. Ma come tirava via la mano, quelli, irrimediabilmente, rimbalzavano a galla. Si accaniva soprattutto contro quello rosso. Con pazienza, ogni volta, lo ricacciava giù.
Anna gli si era inginocchiata a fianco e teneva il viso appoggiato al bordo della vasca. Ogni tanto allungava la mano ad accarezzarlo. Lui non ci badava.
- Paolo, di’ mamma. Mam-ma…mamm-maa…
Il bambino continuava il suo gioco, le piccole spalle massicce e il capo, che si era fatto biondo, inclinati sull’acqua.
Anna intonò una vecchia canzone, che cantava da bambina. -Ti ricordi di un ragazzo che cantava…e soltanto nel buio giocava…Ti piace? Cantala con me, dai, coraggio… Ti ricordi di un ragazzo che cantava…e soltanto nel buio giocava
Ma le parole si confondevano, non riuscire ad andare avanti, la voce opaca. ‘Ecco perché nessuno mi guarda. Io non ho voce’ pensò. Ricordò che una volta suo figlio nuotava immerso dentro di lei. Ricordò quella meravigliosa sensazione di esistere che aveva provato allora.
La sua mano si appoggiò sulla testa del bambino, spingendolo lentamente sott’acqua.
-Facciamo il gioco dei pesciolini? Sei tu ora il pesce rosso-.
Lui non fece resistenza. Le bastò tenerlo fermo per un po’. Ci fu solo un piccolo guizzo. Fu facile bloccarlo sul fondo. Quando tirò via la mano il viso del bambino emerse appena, a pelo d’acqua. Le sembrò allora che qualcosa, dentro di lei, si sciogliesse e finalmente assaporò una specie di pace. Rimase lì accovacciata, accanto alla vasca, in attesa di niente.
golferasi@yahoo.it

 

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13/06/05

 

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