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La nonviolenza e' il
buon uso del conflitto. Non e' l'astensione, la neutralita' assente. Non
e' assolutamente l'indifferenza tra l'aggressore e l'aggredito; ne' il
semplice non-fare-violenza (la gandhiana "a-himsa"). La nonviolenza sta
nel conflitto, non lo elude, non lo nasconde, anzi lo mette in luce
quando e' pericolosamente occultato. Di piu', solleva e apre il
conflitto, quando c'e' un'ingiustizia, una violenza tacita e statica,
incarnata nelle strutture sociali. Se l'ingiustizia non e' resa
visibile, non puo' essere combattuta e tolta.
La scelta e l'azione nonviolenta sono soprattutto il gandhiano "satyagraha":
un'azione e una lotta condotte con la
"forza-che-viene-dallo-stare-attaccati-alla-verita'", cioe' a quel tanto
di verita' che abbiamo potuto ricevere e conoscere, senza presumere di
possederla e tanto meno di imporla. Per Gandhi la verita' e' l'unita'
profonda di tutti gli esseri, dunque e' falsita' e male ogni offesa al
piu' piccolo degli esseri; la verita' e' dunque cio' che ci unisce, ci
trascende e ci anima intimamente; la verita' e' la forza buona e viva
della vita, piu' forte di ogni violenza e di ogni male.
La verita' per Gandhi non e' questa o quella concezione di Dio, questa o
quella religione, o filosofia, o sapienza. Ogni conoscenza di verita' e'
valida, ed e' anche fallibile e correggibile. La verita' stessa e' cio'
che chiamiamo Dio: in quanto immanente e trascendente ogni nostra
conoscenza, intima in noi e superiore a noi, sempre cercata, sentita, e
mai posseduta, essa e' Dio.
***
La nonviolenza sta dentro il conflitto e lo gestisce con la forza della
sincerita', in modo tale da condurlo ad essere un atto di vita e di
verita'.
Sta nel conflitto per trasformarlo da mortale in vitale, da eliminatorio
in costruttivo.
Il conflitto, in se stesso, non significa scontro violento. Nonostante
la confusione del linguaggio corrente, non e' sinonimo di guerra. Il
conflitto nasce da una differenza. L'incapacita' di accettarla porta
alla violenza, che vuole sradicare la differenza. L'intelligenza della
vita, invece, riconosce la differenza e il conflitto come "un'occasione
di verita'" (Gandhi).
Il conflitto puo' essere gestito in modo distruttivo (al limite,
eliminare il nemico o l'avversario per eliminare il conflitto stesso,
perche' non si ha la forza di reggerlo); oppure puo' essere gestito in
modo costruttivo: cioe' lavorando per trasformarlo e condurlo verso un
risultato il piu' possibile positivo per entrambi i contendenti.
Questo lavoro e' una forza creativa. La violenza distrugge pezzi di
realta', perche' e' debolezza di fronte alle sfide della realta' ricca,
varia, e alle sue differenze e tensioni. La nonviolenza custodisce ogni
realta', perche' poggia sulla vera forza. Essa confida che anche il
malvagio, trattato con franchezza e coraggio anziche' con la violenza
legittimata, possa ritrovare la propria verita' umana, nella giustizia e
nel rispetto universali. In ogni caso, la nonviolenza risparmia dolori e
vergogne all'umanita', perche' non
oppone alla violenza nuova violenza, ma la piu' profonda e positiva
resistenza. Ogni popolo consapevole di cio' puo' rendersi capace di
difendersi senza i mezzi militari, con la difesa popolare nonviolenta,
la quale non e' solo un auspicio, ma anche una esperienza storica.
1
***
Nei limiti di questa comunicazione, vorrei accennare a qualche argomento
che puo' sostenere la seguente tesi: la nonviolenza e' l'umanesimo
adeguato all'era storica attuale, che e' l'era del rischio nucleare ed
ecologico. In questo senso "la nonviolenza e' il varco attuale della
storia" (Aldo Capitini), cioe' l'unico passaggio verso un futuro
possibile.
Quel rischio totale rivela l'impossibilita' morale e la totale
non-convenienza di ogni gestione violenta dei conflitti, specialmente se
e' gestione organizzata, istituzionale, metodica, come sono le strutture
della guerra, dell'economia di sfruttamento e di enorme diseguaglianza,
le operazioni culturali e mediatiche di inganno e manipolazione delle
menti allo scopo di dominarle.
***
L'opzione nonviolenta ha una dimensione filosofica, culturale,
religiosa, politica. Propone immagini interpretative della realta', e
programmi di comportamenti e di azione.
In un certo senso, la nonviolenza c'e' sempre stata (e' "antica come le
montagne", dice Gandhi), ma, nel nostro tempo, dopo il Novecento, ha
avuto una evoluzione di grande importanza.
La scelta di pace nonviolenta, per secoli, e' stata una scelta
individuale nei rapporti interpersonali diretti, e' stata una
responsabilita' del principe nei rapporti politici, e' stata una
speranza di chi rivolgeva esortazioni morali agli individui, ma non e'
stata un programma organico storico e politico.
Il Novecento, il secolo piu' violento e minaccioso della storia, ha
visto anche una grande maturazione della nonviolenza attiva e politica.
Da Buddha a Gesu' a Erasmo a Gandhi c'e' un cammino, nella riscoperta e
sviluppo di tesori antichi.
Da impegno morale individuale (spesso senza speranza di togliere o
ridurre la violenza dei poteri pubblici), la nonviolenza e' diventata
teoria e prassi, studio scientifico del conflitto umano, nei suoi vari
tipi e livelli; prassi sociale che, mentre e' guidata dalla teoria,
offre a sua volta alla teoria un materiale sperimentale continuamente
arricchito; teoria che si articola sul piano etico-filosofico, sul piano
sociologico-storico, sul piano psicologico-pedagogico, sul piano delle
dinamiche e degli strumenti dell'azione.
E' vero che, come dice Gandhi, "La nonviolenza non va predicata, ma
praticata"2
ma e' vero pure che, come scrive nel 1928 Simone Weil, "La pace non
verra' fondata dall'amore, ma dal pensiero", perche' "l'amore fa la
guerra altrettanto bene che la pace"3.
***
Gandhi e' stato detto "il Galileo del conflitto", il fondatore di una
nuova scienza conoscitiva e pratica, personale e politica, diretta a
trasformare il conflitto umano da mortale a vitale, da nemico della vita
e produttore di morte, a compositore di ricchezza di vita e di maggiore
verita' esistenziale, nell'armonia superiore delle differenze.
Gandhi ha messo a frutto una "rivoluzione copernicana".
Nella precedente (ma tuttora persistente) visione "tolemaica", al centro
del sistema c'e' la necessita' di respingere e controllare la violenza
altrui, usando altra violenza, la propria. Questa visuale da' luogo alla
"ideologia della vittoria"4
sull'altro, della sopraffazione giustificata dal diritto; da' luogo alla
morte inflitta alla vita pericolosa (mors tua vita mea), o semplicemente
ingombrante. In questa visuale la violenza e' giustificata e
razionalizzata, illusoriamente regolata e istituzionalizzata, ma non
rifiutata e non superata5,
bensi' accresciuta fino al pericolo totale per l'esistenza della specie
umana.
Nella visuale "copernicana", invece, il punto centrale e' la necessita'
e ricerca di liberare nell'umanita' la forza nonviolenta, di fare
emergere e nascere, dall'uomo "edito" che noi siamo, l'"uomo inedito" (Ernst
Bloch, Ernesto Balducci), finora nascosto e implicito, inespresso: un
tipo di uomo piu' cooperativo che competitivo.
Si puo' puntare in questa direzione, sospinti dalla stessa necessita' di
sfuggire alla massima distruttivita' prodotta dalla logica della
violenza, se non chiudiamo del tutto l'avventura umana negli schemi
dominanti del suo passato, ma leggiamo, con intelligenza attiva e
amorosa, le sue possibilita' inespresse.
E' tuttora "tolemaico" chi non ha imparato la lezione di Hiroshima. E'
"copernicano" chi da quella lezione ha tratto le conseguenze, imparando
che il destino umano e' unico per tutti i popoli, che la minaccia di
morte e' indivisibile, come e' indivisibile il bisogno e il diritto di
vivere, come sono indivisibili la giustizia e la liberta'.
La nuova scienza del conflitto impegna ad un lavoro di pensiero,
ricerca, sperimentazione, in tutti i campi del sapere e dell'agire
umano.
***
Gandhi, come pure chi prosegue i suoi "esperimenti con la verita'",
appare a molti quasi solo come un profeta religioso, che immagina e
addita un mondo altro e diverso dall'unico reale. Uno studioso di Gandhi
come Jean-Marie Muller constata in Gandhi il primato della ragione sulla
religione e afferma che e' proprio la ragione che conduce Gandhi alla
scoperta dell'esigenza di nonviolenza6.
Gandhi e' un profeta religioso e un rinnovatore della politica, e' un
sapiente dei piu' grandi ed e' uno dei maggiori scienziati sociali.
Di fatto, tanto in Gandhi quanto in Aldo Capitini (il filosofo italiano
della nonviolenza, pensatore di grande originalita', purtroppo ancora
poco conosciuto fuori d'Italia), religione e politica sono in profonda
relazione reciproca.
Gandhi scrive: "La mia devozione alla Verita' mi ha condotto alla
politica; e posso dire, senza alcuna esitazione, anche se con assoluta
umilta', che coloro che affermano che la religione non ha nulla a che
fare con la politica non sanno che cosa significa religione"
7.
Aldo Capitini scrive: "Per essere veramente religiosi bisogna passare
per la vita pubblica. Si puo' anche essere stiliti o eremiti per
riordinare la propria vita interiore, ma poi bisogna fare vita pubblica,
e solo su questa sorge la vita religiosa che porta aperture e aggiunta"
8.
In questi maestri della nonviolenza, non e' necessario separare
religione e politica, come nelle nostre societa', perche' per loro la
religione non e' anzitutto istituzione, non e' una potenza sociale, ma
un'animazione e ispirazione interiore, che orienta gli animi, nel
rispetto di tutte le coscienze, senza conflitti istituzionali, a
dedicarsi al bene di tutti nella politica.
***
Questo atteggiamento dei maestri rappresenta una indicazione per tutte
le religioni: tanto per quelle diffuse in societa' a maggiore
uniformita' religiosa, col rischio di ridurre la liberta' di coscienza,
quanto per quelle presenti nelle societa' pluralistiche, che devono
essere tenute distinte dalle istituzioni politiche per rispettarne il
pluralismo.
In effetti, la cultura della nonviolenza puo' ricevere un forte
contributo spirituale dalle religioni, e, a sua volta, essa contribuisce
alla purificazione e alla genuinita' delle religioni.
Il rapporto delle religioni con la ricerca di nonviolenza e' almeno
duplice.
Le religioni producono sia violenza che nonviolenza. In quanto sono
tensione, ricerca, relazione con un assoluto, esse sono tentate di
intransigenza, di totalitarismo, di esclusivismo, di imposizione
violenta.
Ma proprio il rapporto, vissuto piu' seriamente e interiormente, con
l'assoluto che ci trascende, con cui non possiamo identificarci, fa
sentire alle persone religiose che noi siamo tutti relativi. Allora, il
senso autentico della relazione religiosa ci rende umili, miti,
nonviolenti. Il significato migliore delle religioni esige che esse si
facciano, tutte, sempre piu' chiaramente nonviolente.
Un'opinione ritiene che le religioni monoteiste in quanto tali, e non
solo per loro colpe storiche, siano portate all'intolleranza. Eppure,
proprio il monoteismo fonda la piu' forte coscienza dell'unita' di tutta
intera la famiglia umana, nell'uguale dignita'.
Le religioni hanno un riferimento alla verita'. Alcune hanno piu' forte
il senso di una verita' ricevuta, rivelata. In ogni caso, la verita'
conosciuta e' sempre da penetrare meglio, e soprattutto da vivere
fedelmente. La verita' non e' mai posseduta ma sempre cercata, ricevuta,
invocata, e sempre veduta solo parzialmente e imperfettamente. Essa, per
quanto ci e' data, non risiede tanto nelle menti e nelle definizioni
intellettuali (peraltro utili alla vita buona, ma sempre perfezionabili)
quanto negli atti pratici della vita autentica. I nostri diversi
approcci e interpretazioni della verita' devono essere intesi come in
relazione tra loro, pur nelle differenze, e non in una opposizione
escludente. Ovviamente, la verita' non si puo' diffondere o inculcare
con la forza, ad essa estranea.
Soprattutto, le religioni hanno oggi il compito di comprendere che la
verita' che possiamo conoscere, sotto diversi punti di vista, non ci
"arma" mai gli uni contro gli altri (come ha fatto chi, nella storia, ha
pensato con arroganza di imporla ad altri come "verita' armata").
Invece, la verita' proprio ci "disarma", nel senso che ci rende piu'
miti ed umili, impegnati continuamente ad imparare dall'ascolto
reciproco, e a vivere una vita piu' giusta. La forza della verita' non
e' offensiva, ma consiste nell'agire profondamente in noi, in quanto la
cerchiamo e le siamo fedeli, col renderci piu' veri, piu' forti nel
resistere al male e nel vivere il bene, per gli altri e con gli altri.
Una grande novita' positiva del nostro tempo, nonostante ritardi e
fenomeni contrari, e' il dialogo tra le religioni, che fino a ieri si
ignoravano, si escludevano, o addirittura si combattevano. Questo
dialogo, questa "fecondazione reciproca" (Raimon Panikkar), puo' portare
un importante contributo alla cultura della nonviolenza, al superamento
delle violenze culturali.
***
La scienza nonviolenta del conflitto studia anche i meccanismi oggettivi
e le dinamiche dei conflitti umani. La buona volonta' individuale e'
necessaria, ma non e' sufficiente a superare le dinamiche violente.
Uomini buoni in strutture cattive fanno cose cattive, con volonta'
buona. I sistemi che incarnano violenza devono venire smascherati con la
critica razionale e morale e affrontati con la lotta politica
nonviolenta.
Il principio etico dell'azione nonviolenta e', in generale, il "rispetto
per la vita" (Albert Schweitzer). In particolare, nel mondo di oggi,
l'imperativo morale per la liberazione dalla distruttivita' e' stato
bene espresso da Hans Jonas: "Agisci in modo che le conseguenze della
tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita
umana sulla terra"9.
Ernesto Balducci scrive, in termini simili: "Agisci in modo che, nella
massima della tua azione, il genere umano trovi le ragioni e le garanzie
della propria sopravvivenza"10.
Nella politica, sia come azione sia come riflessione, la nonviolenza
introduce l'esigenza di liberazione progressiva da ogni vecchia e nuova
violenza. Il pensiero di Hannah Arendt mostra che potere politico
autentico e violenza si escludono a vicenda. Dove c'e' il potere di
agire insieme nella polis, non c'e' violenza. Dove c'e' violenza, manca
il potere politico. Il potere deve essere pensato in modo nuovo, non
come dominio di alcuni sugli altri, ma come possibilita' e capacita' di
ciascuno, riconosciuta, sviluppata e liberata in tutti. E' questa la
prospettiva del "potere di tutti", indicata da Aldo Capitini11:
la possibilita' di orientarsi liberamente e agire insieme attorno ai
problemi di tutti.
L'obiettivo moderno dello stato di diritto e della democrazia e'
importante e irrinunciabile, ma occorre vedere la contraddizione
profonda tra l'essenza della democrazia e la guerra. La democrazia e'
fondata sull'umanesimo dei diritti umani, che sono universali, di ogni
persona, e non solo dei cittadini di uno stato particolare. La guerra
offende i diritti umani in modo totale. Non puo' dire di difenderli,
mentre li offende. L'uso della guerra - specialmente se eretto a metodo,
come oggi tragicamente avviene di nuovo - e la politica securitaria, che
esaspera l'esigenza di sicurezza per rafforzare il potere, distruggono
anche la democrazia interna.
La realizzazione della democrazia implica l'abolizione della guerra.
La politica e' pace, oppure non e' politica. Essa va ripensata, piu'
avanti della democrazia formale (le "regole del gioco"), per vedere che
essa consiste nella costruzione della pace, percio' nella soluzione
nonviolenta dei conflitti, non solo interni, ma anche esterni allo
stato. Al contrario della disastrosa concezione di Carl Schmitt, la
politica e' pace, altrimenti non costruisce la polis umana, ma la nega.
***
Norberto Bobbio ha scritto: "Esiste una grande filosofia della
guerra..., non esiste una grande filosofia della pace"12.
E' cosi' soltanto in apparenza. Cio' e' vero nella filosofia dei libri e
delle accademie, nel pensiero vicino alle classi dirigenti che hanno
esercitato il potere duro.
Ma c'e' un pensiero antico e contemporaneo, in tutte le culture, un
pensiero in crescita, che osserva e interpreta le quotidiane esperienze
di con/vivenza di base tra gli esseri umani, ovunque. Questa, anche se
non appare tecnicamente come filosofia, e' una sapienza vissuta e
riflesa, che oggi va sviluppando anche la propria espressione politica e
l'argomentazione razionale e valoriale. Gandhi, con una osservazione
meditata, mostra come,
sotto il fracasso delle guerre e delle sopraffazioni, nella vicenda
umana continua c'e' piu' pace che guerra13.
Le
filosofie del dialogo e dell'alterita', sviluppate nel Novecento,
contribuiscono a fondare e chiarire il pensiero della pace
14.
La convivenza degli umani in societa' ha bisogno non solo di limitare e
controllare il potere pubblico (grande tradizione del
costituzionalismo), ma di vedere con chiarezza il valore inviolabile di
ogni persona. Questo valore da' fondamento al diritto di ognuno alla
pace e alla giustizia, e toglie ogni diritto statale alla guerra
(Statuto delle Nazioni Unite, art. 2, non contraddetto dagli artt. 47 e
51).
Il pensiero della politica e' spinto dall'esigenza di nonviolenza a
superare il realismo stretto e soffocante di Machiavelli e di Hobbes.
Machiavelli non e' tanto il "fondatore della scienza politica" (cosi'
definito comunemente, anche da Raymond Aron) quanto il fondatore "della
scienza politica del dispotismo" e delle relative tecniche15.
Per Hobbes, la pace tra gli uomini e' possibile solo se imposta da un
potere superiore. Ma questa e' soltanto la "pace d'impero"16.
Un tale pessimismo antropologico rinuncia a sviluppare nelle persone e
nelle societa' le capacita' di convivenza libera e giusta, nella
dignita'. Non si tratta, certamente, di giocare una stupida lotteria tra
pessimismo e ottimismo, ma di intendere l'ottimismo come lo intende
Dietrich Bonhoeffer (che rileggiamo a 60 anni dal suo martirio), quando
scrive agli amici le sue riflessioni "dopo dieci anni" di nazismo in
Germania: "la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto
fallisca, ... volonta' di futuro, anche quando dovesse condurre cento
volte all'errore, ... salute della vita"17.
L'ottimismo serio non e' attesa del meglio, ma lavoro per il meglio.
***
L'educazione e la pedagogia, secondo l'esigenza di nonviolenza, vogliono
aiutare il bambino (e chiunque) a scoprire in se stesso il
riconoscimento e l'identificazione con l'altro, il quale ha un valore
uguale al nostro, attraverso la differenza. Tale riconoscimento e'
espresso, in tutte le sapienze umane, dalla universale "regola d'oro".
La psicologia ci insegna che la maggiore possibile felicita' umana si
realizza nelle buone relazioni con gli altri. La buona relazione
reciproca si cerca e si costruisce, da parte di ciascuno, con una tenace
offerta di fiducia e di valorizzazione dell'altro. Il "ben vivere", pur
nei limiti della nostra esistenza, viene dal riconoscere e seguire quel
"codice del bene", nascosto in noi, sotto gli erramenti umani18.
La scoperta che il "vita tua vita mea" e' piu' vero e felice del "mors
tua vita mea" ci introduce in quel sapiente universalismo spirituale e
pratico19
che puo' dare un'anima umana al nostro mondo oggi materialmente ma
iniquamente unificato, minacciato dalla incapacita' di accettare le
diversita'.
L'eterna domanda se la natura umana sia piuttosto violenta o
nonviolenta, incontra risposte contrastanti, perche' contrastanti sono
le esperienze e i casi umani. Ma, se vediamo che la nostra natura non e'
fissa e immutabile, ma soprattutto in/definita, aperta, plasmabile,
orientata dalla cultura dell'ambiente umano in cui viviamo, allora
ritroviamo la possibilita' di sviluppare le nostre capacita' di positiva
pacifica "con/vivenza", di organizzare sistemi del vivere insieme senza
violenza e offesa.
***
La pace e' anche un'arte: arte come espressione sensibile di sentimenti,
immagini e significati riconcilianti, ma anche come capacita'
artigianale di invenzioni fuori dagli schemi ripetuti e dal "pensiero
unico": "Un altro mondo e' possibile". Senza questa inventiva, l'umanita'
e' tarpata e chiusa, condannata a ripetere i suoi errori e dolori.
Qualche esempio: superare l'idea rigida di "confine" territoriale e di
assolutezza statale; oltrepassare l'idea di giustizia retributiva verso
esperienze di giustizia ricostruttiva (Commissione Verita' e
Riconciliazione in Sudafrica); pratiche di economia solidale, libera dal
dogma dell'avidita' umana.
Questi sono atti dell'arte della pace, fino - speriamo per il futuro - a
neutralizzare le malefiche arti belliche. "Un giorno gli uomini si
vergogneranno di avere fabbricato le armi", ha detto Ernesto Balducci.
Noi gia' ora ci vergogniamo totalmente, e percio' fabbrichiamo - non
importa con quanta fatica - le varie arti della pace nonviolenta.
La pace non puo' essere soltanto un "contratto" (pax, pactum) instabile,
perche' fondato su equilibri di forze opposte (se non avverse). Simone
Weil mostra che, prima di ogni "contratto sociale", c'e' un felice
"obbligo" umano reciproco, che ci assicura e ci libera insieme, piu'
ancora che legarci20,
ed e' il fondamento comune, che ci offriamo a vicenda, dei diritti di
ognuno e di tutti.
La pace puo' venire istituita solo dalla rinuncia alla violenza, dalla
liberazione progressiva dalla propria violenza - Gewaltfreheit - prima
che dalla violenza altrui.
La pace e' un cammino continuo, personale, sociale, storico, attraverso
alcuni passi: la a-himsa; la in/dipendenza interiore dai meccanismi
dell'inimicizia; il coraggio e la forza del satyagraha; la testimonianza
sempre sicura, anche in caso di sconfitta, data a chi continuera' il
cammino nella nonviolenza.
La nonviolenza e' piu' realistica della violenza21.
La cultura e la politica di guerra obbediscono alla convinzione fanatica
e stolta di poter togliere il male per mezzo del male, e producono piu'
pesanti effetti irreversibili. In realta', l'etica della responsabilita'
in relazione a tutte le conseguenze dei nostri atti, prevedibili o
imprevedibili, si realizza nella ricerca della pace nonviolenta.
Note
1. Si puo' trovare in rete la
bibliografia storica sulle lotte nonviolente "Difesa senza
guerra", da me curata.
2.
Mohandas K. Gandhi,
Nonviolence in Peace and War, Navajivan Publishing House, Ahmedabad
1948, I, 129.
3.
Simone Weil, Oeuvres completes, vol. I, t. II, Gallimard, Paris
1988, p. 48, cit. in Jean-Marie Muller, Simone Weil, l'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, p. 27.
4. Cfr
Enrico Peyretti, Dov'e' la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli
editori, Nogarine (Verona) 2005.
5.
Cfr Ernesto Balducci, La
terra del tramonto, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole (Firenze)
1992.
6.
Jean-Marie Muller, Il principio
nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa 2004, pp. 250-252.
7.
Mohandas K. Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, p. 31.
8.
Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p.
385.
9. Hans
Jonas, Il principio responsabilita'. Un'etica per la civilta'
tecnologica, Einaudi, Torino 1990, p. 16.
10.
Ernesto Balducci, La terra del
tramonto, op. cit., p. 183.
11.
Aldo Capitini, Il potere di tutti,
con un saggio introduttivo di
Norberto Bobbio, La Nuova Italia, Firenze 1969.
12.
Norberto Bobbio, Il problema
della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 163 (e
edizioni successive).
13.
Mohandas K. Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza, op. cit., pp. 62-65.
14. Cfr, per esempio,
Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella editrice, Assisi 2004, specialmente nelle pp. 163-176.
15. Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, op. cit., p. 128.
16.
Norberto Bobbio, Il problema
della guerra e le vie della pace, op. cit.,
pp. 178-180.
17.
Dietrich Bonhoeffer, Dieci
anni dopo, in Idem, Resistenza e resa, edizione italiana a cura di
Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Milano 1989, pp. 72-73.
18.
Vedi Roberto Mancini, Il
silenzio, via verso la vita (ma il titolo piu' proprio e' Il codice
nascosto. Silenzio e verita'), Edizioni Qiqaion, Bose 2002, capitolo V,
pp. 173-221.
19.
Nel campo della ricerca
di orientamenti etici universali si possono indicare le opere di
Pier Cesare Bori, di Hans Kueng, di Raimon Panikkar, e
altri.
20.
Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei
doveri verso l'essere umano, Leonardo, Milano 1996.
21.
Cfr Jean-Marie Muller,
Il principio nonviolenza, op. cit., p. 302. Cfr anche Ernesto
Balducci - Lodovico Grassi, La pace, realismo di un'utopia, Principato,
Milano 1985.
Pubblicato in:
La
nonviolenza e' in cammino. 939 del 24 maggio 2005
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