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Il primo febbraio
scorso il re Gyanendra del Nepal ha assunto tutto il potere. Con un
colpo di Stato, un po' nascosto tra i monti himalaiani e un
po' celato nelle pieghe di un palazzo già misterioso, che ha reso
illegittimo il pluralismo parlamentare nato nel 1990.
Il sistema Panchayat era stato smantellato dal re Mahendra, ucciso
insieme a buona parte della sua famiglia nel giugno 1999 da un suo
figlio, a sua volta morto in circostanze a dir poco fumose. Gyanendra si
è trovato re di un Paese in grande crescita sociale e culturale, senza
però avere le necessarie competenze per governarlo.
Parallelamente lo scontro con i ribelli maoisti si è rafforzato, e le
scelte di militarizzare il Paese non hanno fatto altro che aumentare la
violenza.
La ribellione maoista, più di nome che di fatto, ha fatto presa nelle
campagne un po' per la situazione di povertà della popolazione, molto
però per via del ricatto che essi hanno messo in piedi. Si è creata,
distante dagli occhi dei media di Katmandu, una forma di estorsione di
forza combattiva, a detta di commentatori interni ed esterni, che ha
portato ad una polarizzazione del Paese: da un lato Katmandu, con il suo
fermento culturale, il gran numero di turisti e di istituzioni
straniere; dall'altro i villaggi della campagna, poveri ricattati, sia
dai maoisti sia dall'esercito.
Di questi ultimi giorni è la notizia di un autobus di lavoratori esploso
su una mina che ha causato la morte di 38 persone, civili. Sul
sito dei maoisti si possono leggere le scuse dei rappresentati della
guerrilla. Scuse che, per come sono articolate, lasciano trapelare una
scarsa competenza in fatto di strategia di combattimento e conoscenza
delle armi.
Come la storia del mondo ha ormai insegnato, e peccato che chi ha ruoli
e posizioni chiave nelle decisioni politiche ed amministrative se lo
scordi assai sovente, la violenza non può essere vinta, ma nemmeno
contrastata, con altra violenza. Il Nepal sta diventando un caso
paradigmatico di questa chiara visione. Il re Gyanendra ha estremizzato
le posizioni e così hanno fatto i maoisti, con la conseguenza che la
popolazione è presa in una morsa di violenza e scontri.
Uno dei più importanti giornalisti del Nepal, Kanak Mani Dixit,
direttore
della rivista Himal South Asian e
fondatore della Himal
Association, scrive che "la soluzione politica è l'unica possibile.
Rendere illegittimo il pluralismo politico con la scusa di combattere i
maoisti è falso. I nepalesi che avevano 12 anni nel 1990, quando terminò
il regime Panchayat, oggi ne hanno 27 e non conoscono altro sistema
politico diverso dal pluralismo
parlamentare. Cittadini di tutte le età hanno trovato la loro voce e
anche
solo per questa ragione il Nepal non può essere convertito in uno stato
di
polizia dove sono negati i diritti di base".
Ma Gyanendra ha pensato bene di andare oltre. Il 7 marzo ha fatto
arrestare Kanak, che è forse l'anima critica più forte ed autorevole.
Benché sia stato subito rilasciato, la pressione sui giornalisti è
aumentata molto, con varie forme: chiusura di radio e testate, limiti
alle pubblicazioni on-line, divieto di accesso a zone "calde" del Paese,
obbligo ad assistere ad umilianti conferenze stampa dei portavoce della
casa reale. Fino a martedì 7 giugno, con l'arresto di una ventina di
giornalisti, rilasciati due giorni dopo.
La mancanza di informazione è ciò che di peggio può succedere al Paese:
le popolazioni dei villaggi sono vittime senza testimoni di violenze sia
maoiste sia governative. "I cittadini non sono mai stati così esposti ad
una
mancanza di informazione onesta", dice Kanak Dixit. E il Nepal non è mai
stato così vicino al 1960, quando il re Mahendra imbavagliò il Paese con
un colpo di stato. Che Gyanendra stia tornando indietro?
10 giugno 2005
Stefano Boffetta
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