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Niente a che vedere con ciò che ha fatto grande l’America
 

Editoriale apparso su The New York Times il 5 giugno 2005
libera traduzione di Arianna Ballotta

 
     
 

Ora che l’amministrazione Bush ha detto chiaramente quanto si senta offesa dalle affermazioni di Amnesty International, che ha definito il campo di prigionia di Guantanamo Bay “il gulag dei nostri tempi” [vedi rapporto A.I. 2005], ci auguriamo vivamente che faccia qualcosa per affrontare i problemi di cui già altri prima di Amnesty International avevano parlato.

Ciò che Guantanamo rappresenta - condizioni durissime di detenzione a tempo indefinito in assenza di accuse formali o procedimenti legali - può o meno portare la mente alle tante colonie penali del regime stalinista dell’ex Unione Sovietica, ma di certo nulla ha a che vedere con nessuna delle nozioni americane di giustizia o applicazione della legge.

Il nostro collega Thomas L. Friedman qualche giorno fa ha proposto la soluzione giusta. La cosa migliore che Washington può fare per arginare questa vergogna che colpisce il nostro Paese è chiudere [il campo]. E’ propaganda per i nemici dell’America, è imbarazzo per i nostri alleati, è un dannoso ripudio del sistema di giustizia americano, nonché un validissimo strumento di reclutamento per gli islamici radicali, fra cui futuri terroristi.

Se è possibile presentare formali accuse, in base alle leggi americane, nei confronti dei 500 e più detenuti che ancora si trovano a Guantanamo, allora che tali accuse vengano mosse in fretta nell’ambito di tribunali americani. Se, come sostiene l’amministrazione [Bush], alcuni dei detenuti sono membri attivi e pericolosi di gruppi che tramano al fine di commettere atti terroristici contro gli Stati Uniti d’America, allora devono essere mosse nei loro confronti accuse precise secondo i termini di legge. Se ci sono detenuti nei confronti dei quali nessuna accusa può essere mossa, allora che vengano rilasciati e messi in condizione di tornare a casa loro o di andare in un altro Paese, ma l’amministrazione [Bush] non dovrà mandarli in Paesi dove vigono dittature compiacenti e dove le autorità locali potrebbero sottoporli a torture, come accaduto recentemente in Uzbekistan, Siria ed Egitto.

Ciò che rende appropriata la metafora del gulag usata da Amnesty è che Guantanamo non è che l’anello di una catena quasi sconosciuta di campi di detenzione fra cui troviamo anche Abu Ghraib in Iraq, il carcere militare di Bagram [Bagram Air Base] in Afghanistan e altre prigioni in luoghi segreti gestiti dalle agenzie di intelligence. In ognuna di queste carceri sono stati segnalati abusi, torture e omicidi. Non si tratta di incidenti isolati, bensì di una prassi ben diffusa nel sistema detentivo a livello mondiale priva del rischio di incappare in responsabilità legali. I prigionieri vengono trasferiti da campo a campo. E così anche gli ufficiali che dirigono i campi. E anche, forse non casualmente, alcuni specifici metodi di maltrattamento.

In oltre due secoli di pace e guerra, gli Stati Uniti hanno sviluppato un sistema legale altamente efficiente, seppur lontano dall’essere perfetto, giustamente ammirato dal mondo intero. Il sistema parallelo che resta nell’ombra creato dall’amministrazione Bush all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre, ha dimostrato la sua inferiorità sotto ogni punto di vista. Sembra non aver dato risultati in merito alla scoperta di prove e alla persecuzione dei più pericolosi terroristi, mentre è molto effettivo nel danneggiare la reputazione dell’America riguardo a giustizia, equo trattamento dei colpevoli e trattamento umano degli innocenti.

E’ ora di tornare ai princìpi basilari di giustizia che tanto bene hanno fatto all’America anche nei momenti più difficili del passato. Chiudere Guantanamo è soltanto un primo passo, ma un passo cruciale che darebbe immediatamente i suoi frutti in tutto il mondo, non soltanto ristabilendo la reputazione degli Stati Uniti, bensì anche rafforzando la sua sicurezza nel mondo.


Fonte : Editoriale, The New York Times

 

 

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13/06/05

 

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