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Giotto: il pittore che “umanizzò la pittura”

di Luigi Impieri

 
 

Spesso si ritiene, un po’ frettolosamente per la verità, che dal punto di vista artistico il Rinascimento ha la sua data di nascita agli inizi del ‘400.

Si tende a far iniziare, quella che sarà sul piano culturale perlomeno, una delle epoche più interessanti, in particolare in Italia, con il famoso concorso indetto a Firenze da un’associazione di mercanti di stoffe, per abbellire il portale nord del Battistero di San Giovanni, sito nella stessa città.

Com’è noto nel concorso s’imporranno figure di rilievo come Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi.

Costoro insieme ad una affollata schiera di artisti straordinari( Masaccio, Donatello, Jacopo Della Quercia, I Della Robbia ecc.), saranno determinanti per cambiare, ovviamente migliorandola ed arricchendola con Opere di rara bellezza, non soltanto la città di Firenze.

Ma la tecnica acquisita da questi artisti eccellenti, ha origini ben più lontane che risiedono da un lato, nella antica cultura classica, nei confronti della quale il Rinascimento ritrovava notevoli interessi.

D’altro canto la fonte o meglio la mediazione tra la cultura classica antica e le innovazioni rivoluzionarie del rinascimento andranno ritrovate soprattutto nella lezione di Giotto, il quale avrebbe avuto il merito di recuperare da quell’arte Classica, i metodi della rappresentazione prospettica, plasmandoli però in ambito moderno e realistico, in cui il “vero” e quel rinnovato senso di “umanizzazione” avrebbero avuto un ruolo decisivo dopo secoli di dominazione di un’arte che potremmo definire per questione di sintesi, Simbolica (leggasi tutta la tradizione Paleocristiana, Bizantina, Romanica e Gotica).

Una pittura, quella di Giotto, “semplice”, da un certo punto di vista e chiara e soprattutto fruibile da chiunque, quindi per tutti, colti e analfabeti.

Ciò che emerge immediatamente, dalla lettura delle opere, questo straordinario artista, come dicevamo, è quel senso di “Umanità” e di pace e dove il dolore e la sofferenza, quando sono presenti, non hanno mai un tono tragico.

Fra le sue opere più interessanti da questo punto di vista, gli affreschi padovani nella cappella degli Scrovegni (riportati ultimamente, agli antichi splendori, dopo secoli d’abbandono) hanno un posto di rilievo.

Padova, Cappella degli Scrovegni.

L’ opera fu commissionata al pittore, da un ricchissimo uomo d’affari, tale Enrico Scrovegni, col pretesto di poter restituire almeno maggiore dignità alla propria famiglia, che in passato si era macchiata del peccato di aver praticato lo strozzinaggio.

Giotto realizzò gli affreschi in un tempo davvero eccezionale, se si pensa alla complessità dell’opera, circa due anni ed esattamente fra il 1303 e il 1305.

Sulle pareti laterali e su quella di fondo sono narrate le storie della vita Vergine Maria e di suo figlio Gesù suddivise in riquadri.

Nella fascia che corre in basso si trovano, dipinti in forma di monito, con sembianze umane, che alludono ai vizi a cui l’uomo deve sfuggire e alle virtù, cui l’uomo dovrà impegnarsi di perseguire, per guadagnarsi la vita eterna.

Sulla parete di fondo infine, vi è dipinto il Giudizio Universale, che Michelangelo sicuramente non disdegnerà di citare, nel suo affresco capolavoro all’interno la Cappella Sistina in Roma, due secoli dopo.

Tra questi riquadri incorniciati dai marmi finti, realizzati dal pittore stesso, spicca “Il compianto del Cristo morto”.

Giotto, Il compianto del Cristo morto. Padova - Cappella degli Scrovegni

Qui Cristo è stato appena rimosso dalla croce, come narrano i Vangeli, da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo (alla nostra destra) ed assistito nell’essere deposto per terra dalla madre, dalla Maddalena, da San Giovanni e le pie donne.

In questa composizione è evidente tutta la grandezza dell’artista, noto oramai per aver già affrescato tra gli altri, l’interno della Basilica superiore di San Francesco d’Assisi.

La sua pittura è nuova e fresca e in grado di annullare in un sol colpo quella dei suoi predecessori e contemporanei, dai quali egli “scrosta” quella patina di distacco e finzione, proponendoci invece, un racconto concreto, fatto di verità.

Ogni personaggio di questa storia è completo e non può essere confuso con nessun’altro, poiché qui ognuno ha assunto una propria inimitabile, giammai stereotipata, psicologia:
Giovanni che benché posto rispetto a noi di profilo rompe e dilata lo spazio spalancando le braccia in segno di disperazione;
Maddalena che dolcemente accarezza i piedi del Cristo giacente, ancora incredula di quanto è successo;
Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea in rassegnata presa d’atto di quanto è successo mentre fissano inermi il Cristo, in un silenzio potremmo dire, “assordante” di dolore;
la Madonna (madre e donna), il suo abbraccio struggente dolcemente lascia cadere il capo riverso del figlio sulle proprie ginocchia. Ella non si rassegna nel vederlo morto, è ancora speranzosa di riportarlo in vita con baci e carezze, quelle che solo una madre sa dare…

E che dire del ritmico, dolorante carillon di Angeli disperati come bambini, che hanno perduto per sempre il papà.

Inoltre il cerchio compositivo fatto di varia umanità e che attornia il Cristo morto, coinvolge anche noi, spettatori, che ci sentiamo catapultati all’interno dell’opera, come ulteriori presenze del dipinto, oltre che testimoni dell’avvenimento.

E noi restiamo attoniti e attratti davanti a tale composizione poiché quelle figure ci rassomigliano, sembrano fatte della nostra stessa essenza, ne avvertiamo il respiro, i singhiozzi, il dolore e la pacifica (non c’è odio nell’opera) disperazione.

Per saperne di più: www.cappelladegliscrovegni.it

 

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03/07/2005

 

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Luigi Impieri

 
 

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