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Spesso si ritiene, un
po’ frettolosamente per la verità, che dal punto di vista artistico il
Rinascimento ha la sua data di nascita agli inizi del ‘400.
Si tende a far iniziare, quella che sarà sul piano culturale perlomeno,
una delle epoche più interessanti, in particolare in Italia, con il
famoso concorso indetto a Firenze da un’associazione di mercanti di
stoffe, per abbellire il portale nord del Battistero di San Giovanni,
sito nella stessa città.
Com’è noto nel concorso s’imporranno figure di rilievo come Lorenzo
Ghiberti e Filippo Brunelleschi.
Costoro insieme ad una affollata schiera di artisti straordinari(
Masaccio, Donatello, Jacopo Della Quercia, I Della Robbia ecc.), saranno
determinanti per cambiare, ovviamente migliorandola ed arricchendola con
Opere di rara bellezza, non soltanto la città di Firenze.
Ma la tecnica acquisita da questi artisti eccellenti, ha origini ben più
lontane che risiedono da un lato, nella antica cultura classica, nei
confronti della quale il Rinascimento ritrovava notevoli interessi.
D’altro canto la fonte o meglio la mediazione tra la cultura classica
antica e le innovazioni rivoluzionarie del rinascimento andranno
ritrovate soprattutto nella lezione di Giotto, il quale avrebbe avuto il
merito di recuperare da quell’arte Classica, i metodi della
rappresentazione prospettica, plasmandoli però in ambito moderno e
realistico, in cui il “vero” e quel rinnovato senso di “umanizzazione”
avrebbero avuto un ruolo decisivo dopo secoli di dominazione di un’arte
che potremmo definire per questione di sintesi, Simbolica (leggasi tutta
la tradizione Paleocristiana, Bizantina, Romanica e Gotica).
Una pittura, quella di Giotto, “semplice”, da un certo punto di vista e
chiara e soprattutto fruibile da chiunque, quindi per tutti, colti e
analfabeti.
Ciò che emerge immediatamente, dalla lettura delle opere, questo
straordinario artista, come dicevamo, è quel senso di “Umanità” e di
pace e dove il dolore e la sofferenza, quando sono presenti, non hanno
mai un tono tragico.
Fra le sue opere più interessanti da questo punto di vista, gli
affreschi padovani nella cappella degli Scrovegni (riportati
ultimamente, agli antichi splendori, dopo secoli d’abbandono) hanno un
posto di rilievo.
L’ opera fu
commissionata al pittore, da un ricchissimo uomo d’affari, tale Enrico
Scrovegni, col pretesto di poter restituire almeno maggiore dignità alla
propria famiglia, che in passato si era macchiata del peccato di aver
praticato lo strozzinaggio.
Giotto realizzò gli affreschi in un tempo davvero eccezionale, se si
pensa alla complessità dell’opera, circa due anni ed esattamente fra il
1303 e il 1305.
Sulle pareti laterali e su quella di fondo sono narrate le storie della
vita Vergine Maria e di suo figlio Gesù suddivise in riquadri.
Nella fascia che corre in basso si trovano, dipinti in forma di monito,
con sembianze umane, che alludono ai vizi a cui l’uomo deve sfuggire e
alle virtù, cui l’uomo dovrà impegnarsi di perseguire, per guadagnarsi
la vita eterna.
Sulla parete di fondo infine, vi è dipinto il Giudizio Universale, che
Michelangelo sicuramente non disdegnerà di citare, nel suo affresco
capolavoro all’interno la Cappella Sistina in Roma, due secoli dopo.
Tra questi riquadri incorniciati dai marmi finti, realizzati dal pittore
stesso, spicca “Il compianto del Cristo morto”.
Qui Cristo è stato
appena rimosso dalla croce, come narrano i Vangeli, da Giuseppe
d’Arimatea e Nicodemo (alla nostra destra) ed assistito nell’essere
deposto per terra dalla madre, dalla Maddalena, da San Giovanni e le pie
donne.
In questa composizione è evidente tutta la grandezza dell’artista, noto
oramai per aver già affrescato tra gli altri, l’interno della Basilica
superiore di San Francesco d’Assisi.
La sua pittura è nuova e fresca e in grado di annullare in un sol colpo
quella dei suoi predecessori e contemporanei, dai quali egli “scrosta”
quella patina di distacco e finzione, proponendoci invece, un racconto
concreto, fatto di verità.
Ogni personaggio di questa storia è completo e non può essere confuso
con nessun’altro, poiché qui ognuno ha assunto una propria inimitabile,
giammai stereotipata, psicologia:
Giovanni che benché posto rispetto a noi di profilo rompe e dilata lo
spazio spalancando le braccia in segno di disperazione;
Maddalena che dolcemente accarezza i piedi del Cristo giacente, ancora
incredula di quanto è successo;
Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea in rassegnata presa d’atto di quanto è
successo mentre fissano inermi il Cristo, in un silenzio potremmo dire,
“assordante” di dolore;
la Madonna (madre e donna), il suo abbraccio struggente dolcemente
lascia cadere il capo riverso del figlio sulle proprie ginocchia. Ella
non si rassegna nel vederlo morto, è ancora speranzosa di riportarlo in
vita con baci e carezze, quelle che solo una madre sa dare…
E che dire del ritmico, dolorante carillon di Angeli disperati come
bambini, che hanno perduto per sempre il papà.
Inoltre il cerchio compositivo fatto di varia umanità e che attornia il
Cristo morto, coinvolge anche noi, spettatori, che ci sentiamo
catapultati all’interno dell’opera, come ulteriori presenze del dipinto,
oltre che testimoni dell’avvenimento.
E noi restiamo attoniti e attratti davanti a tale composizione poiché
quelle figure ci rassomigliano, sembrano fatte della nostra stessa
essenza, ne avvertiamo il respiro, i singhiozzi, il dolore e la pacifica
(non c’è odio nell’opera) disperazione.
Per saperne di più:
www.cappelladegliscrovegni.it
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