agli incroci dei venti: società

 
 
 
 

 La caduta. Riflessioni su un film.
di Enrico Peyretti
 

 
 

Cosi' sprofonda un impero: nella distruzione delle citta' in fiamme, nella tragedia del popolo trascinato al fondo, nella serie di fughe o suicidi dei cortigiani, nell'auto-rogo dell'imperatore suicida, il piu' dannoso kamikaze della storia. Il racconto degli ultimi dodici giorni di Hitler nel bunker sotto la Kanzlei, pur attento ai dati storici, e' piu' paradigmatico che storico. Vale dunque per oggi e per domani, questa lezione del passato.
La potenza violenta culmina, o s'inabissa, nella follia isterica del suo principale autore, e nella mortale impotenza dei suoi complici servili, lasciando dietro di se' la strage del loro popolo, insieme a tante altre vittime.
Il film e' un atto dell'autocoscienza tedesca, come ha dichiarato lo sceneggiatore: "E' giunto il momento per i registi tedeschi di avere il coraggio di portare sulla scena gli eventi piu' cupi e traumatici della nostra storia". E' un contributo alla radioterapia delle metastasi naziste nel corpo tedesco.

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Questo momento di radicale autocoscienza non e' ancora giunto per il cinema italiano. C'e' un grande film sul consenso complice degli italiani al fascismo?
C'e' un grande film sui crimini di guerra italiani, dei nostri ufficiali e soldati, in Jugoslavia, Albania, Grecia? C'e' un grande film sul razzismo fascista tollerato ieri, per poter rinnegare quello leghista di oggi? C'e' un grande film sulle violenze coloniali e razziste degli "italiani brava gente" nella conquista e nel dominio coloniale, in Libia, in Etiopia? Buoni libri di storia ce n'e', ma grandi film no.
Si', un film sulla resistenza libica guidata da Omar al-Muktar e ferocemente stroncata dai militari italiani obbedienti al generale Graziani, c'e', ma non e' italiano: The Lion of Desert (Il leone del deserto), diretto da Moustapha Akkad, film che non ha mai avuto una adeguata distribuzione in Italia per una sorta di autocensura dell'industria culturale italiana nel cinema, che manca l'occasione di un dibattito pubblico sui crimini del colonialismo italiano. Anche la cultura della sinistra non riesce a fare i conti con il passato coloniale italiano, non ha il coraggio di un tale esame di coscienza nazionale, necessario antidoto al nazionalismo e al razzismo che oggi tornano a infettare la salute civile italiana. Si da' rilievo (il libro di Pansa), fondatamente, agli aspetti violenti della Resistenza, ma sarebbe un rilievo piu' onesto se mettesse in luce che l'ubbidienza alle guerre fasciste fu la complicita' nazionale italiana con la violenza. Il Presidente Ciampi ha elogiato i combattenti e caduti di El Alamein, nella guerra fascista aggressiva, ma non ha elogiato i resistenti alla nostra violenza coloniale e bellica, come Omar al-Muktar, il Leone del deserto, oltraggiato e impiccato dai soldati di Graziani.

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Torniamo a La caduta, di Oliver Hirschbiegel. Due sono gli scenari: il sotterraneo cemento aspro del bunker, e le vie di Berlino, martellate dalle cannonate russe. Tra i vivi sotto terra, le facce di Hitler e Goebbels sembrano staccate da un antico affresco dell'inferno nel Giudizio finale: sono le facce deformi dei dannati e dei diavoli. Ma ci sono anche i volti freschi e puliti di Junge Traudl, la segretaria di Hitler, ignara del peggio, e soprattutto dei sei bambini di Goebbels, che cantano, allegri e divertiti, incuriositi dal diversivo.
C'e' anche il bel viso di Eva Braun, che rappresenta la fedelta' bella e ambigua della Germania obbediente, fedele al crimine per essere fedele all'uomo criminale. Al rimbombo dei passi vicini della disfatta, organizza una festa obbligatoria e balla sfrenata sul tavolo, fin quando lo permette la bomba successiva. Eva Braun e' la versione forzatamente allegra della stessa cecita' isterica che esplode cupa in Hitler alle notizie che le possibilita' di lotta sono finite.
Il Fuehrer barcolla nella psiche, come nel fisico curvo e tremante, tra allucinazioni di potenza invincibile, attese irreali di capovolgimento dellasituazione disperata ("Appena avro' risolto l'attuale situazione..."), consapevolezza della fine, crisi furibonde e isteriche contro i suoi generali inetti e vigliacchi e contro il popolo tedesco, indegno di vivere senza di lui. Per lui, la fine dell'impero e' la fine personale e - estrema folle identificazione - fine della nazione e della storia: "Non possiamo farci scrupoli per i cosiddetti civili". "Se perdiamo la guerra non ha senso che il popolo tedesco sopravviva". Goebbels gli fa eco: "Non provo compassione per il popolo tedesco: ci ha detto si', ora deve lasciarsi tagliare la gola". Dice ancora Hitler: "La vita non permette debolezze. La pieta' e' contro natura". "Se il popolo tedesco soccombesse non verserei una lacrima". Eppure, quando prende commiato da Speer, una lacrima scende dal suo occhio. Niente e' totale, neppure la crudelta' hitleriana. Sfocato, su una parete di fondo, c'e' anche un quadro della Madonna col Bambino. Hitler e' gentile coi suoi ospiti, quanto feroce col mondo. Persino Goebbels piange, quando Hitler gli ordina di andare via, perche' non ha mai disobbedito al suo Fuehrer. Anche lui farnetica: "Risorgeremo
al di sopra di tutti, puri e immacolati".
Chi verra' dopo non dovra' poter toccare nemmeno le ossa del Fuehrer vinto, che non accettera' mai la resa. Il fuoco che predispone per se', dopo il veleno fulminante e la ben studiata "esplosione del cranio", e' simbolo del nulla che egli vede al di fuori di se'. Tutto e' travolto con lui, anche il bel cane, anche il fiore eroico nel buio cortile. La morte sembra vincere su tutto, sul senso violato del limite, sul futuro, che sono i bimbi, il popolo.
Un'altra orrenda fedelta' infernale e' quella degli alti ufficiali, incapaci di imporre la realta' al capo folle, schiavi del giuramento ad una tale persona e non ad un valore. Salvo alcuni pochi, che tentano almeno una via di umanita' nella cura delle vittime, essi scioglieranno le fila sparpagliandosi
tra il suicidio (anche a tavola, con l'intera famiglia) e la fuga.
Il culmine drammatico del racconto e' quando la moglie di Goebbels, prima di morire col marito, uccide con metodo e calma i suoi sei bambini, perche' "Dopo Hitler non meritera' vivere". "Se l'ideale del nazismo muore non ci sara' un futuro". Il marito l'attende fuori dalla stanza. Lei rifiuta la mano che lui le tende, e va a giocare un solitario. In questa donna e' rappresentato il giudizio della morte sulla vita: la morte e' nella madre, la vita nella vivacita' soppressa dei bambini. Il passato vuole spegnere il futuro. Hitler l'aveva decorata come "la piu' eroica madre del Reich".

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Il film di Oliver Hirschbiegel non e' solo una tragedia tedesca: il tema e' quello classico, della tensione fra la tracotanza che squilibra e la giustizia che quasi fatalmente e al caro prezzo di una distesa di morte, riequilibra le cose; e' un ultimo nuovo racconto della tragedia universale di ieri e di domani, se non la sapremo disinnescare con la presa di responsabilita'.
Riconoscere questa tragedia nel presente, attorno e addosso a noi, non e' facile come vederla nel passato.
Il futuro di quella Germania impazzita, che fucila e impicca come disertori i civili che non combattono, e dunque il futuro anche dell'umanita' oltre l'impazzimento della violenza, e' rappresentato in un altro bambino, nelle vie infuocate di Berlino. Il bimbo dapprima combatte contro i panzer russi, sfiora la morte, e' decorato da un Hitler ridotto a rottame, nell'angusto cortile del bunker, infine torna dai genitori, e quando anche loro saranno agganciati dalla morte, raggiunge per caso e prende per mano Junge, la giovane segretaria, e con lei evade dall'inferno e dalla guerra. Junge rappresenta la parte di Germania ignara, coinvolta, ma capace di ripensare. Lei e' protagonista della prima scena notturna, buia, e dell'ultima, luminosa, nella campagna, sulle vie e i ponti bombardati ma ancora percorribili a piedi o in bici.
Il futuro negato da Hitler, esiste. Tanti anni dopo, carica di tempo, Junge si riconoscera' nella memoria della coetanea Sophie Scholl, volto della Germania libera e coraggiosa, la Rosa Bianca piu' forte della morte. Ho qui sette fili d'erba, che raccolsi sulla tomba di Sophie e Hans, a Monaco, l'8 agosto 2003. Quell'erba nasce ancora. Il fuoco cadaverico di tutti i Fuehrer della storia non la raggiunge.

Enrico Peyretti

La nonviolenza e' in cammino n. 983 del 6 luglio 2005

 

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11/07/2005

 
 
 

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