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Cosi' sprofonda un impero: nella distruzione delle citta' in fiamme,
nella tragedia del popolo trascinato al fondo, nella serie di fughe o
suicidi dei cortigiani, nell'auto-rogo dell'imperatore suicida, il piu'
dannoso kamikaze della storia. Il racconto degli ultimi dodici giorni di
Hitler nel bunker sotto la Kanzlei, pur attento ai dati storici, e' piu'
paradigmatico che storico. Vale dunque per oggi e per domani, questa
lezione del passato.
La potenza violenta culmina, o s'inabissa, nella follia isterica del suo
principale autore, e nella mortale impotenza dei suoi complici servili,
lasciando dietro di se' la strage del loro popolo, insieme a tante altre
vittime.
Il film e' un atto dell'autocoscienza tedesca, come ha dichiarato lo
sceneggiatore: "E' giunto il momento per i registi tedeschi di avere il
coraggio di portare sulla scena gli eventi piu' cupi e traumatici della
nostra storia". E' un contributo alla radioterapia delle metastasi
naziste nel corpo tedesco.
*
Questo momento di radicale autocoscienza non e' ancora giunto per il
cinema italiano. C'e' un grande film sul consenso complice degli
italiani al fascismo?
C'e' un grande film sui crimini di guerra italiani, dei nostri ufficiali
e soldati, in Jugoslavia, Albania, Grecia? C'e' un grande film sul
razzismo fascista tollerato ieri, per poter rinnegare quello leghista di
oggi? C'e' un grande film sulle violenze coloniali e razziste degli
"italiani brava gente" nella conquista e nel dominio coloniale, in
Libia, in Etiopia? Buoni libri di storia ce n'e', ma grandi film no.
Si', un film sulla resistenza libica guidata da Omar al-Muktar e
ferocemente stroncata dai militari italiani obbedienti al generale
Graziani, c'e', ma non e' italiano: The Lion of Desert (Il leone del
deserto), diretto da Moustapha Akkad, film che non ha mai avuto una
adeguata distribuzione in Italia per una sorta di autocensura
dell'industria culturale italiana nel cinema, che manca l'occasione di
un dibattito pubblico sui crimini del colonialismo italiano. Anche la
cultura della sinistra non riesce a fare i conti con il passato
coloniale italiano, non ha il coraggio di un tale esame di coscienza
nazionale, necessario antidoto al nazionalismo e al razzismo che oggi
tornano a infettare la salute civile italiana. Si da' rilievo (il libro
di Pansa), fondatamente, agli aspetti violenti della Resistenza, ma
sarebbe un rilievo piu' onesto se mettesse in luce che l'ubbidienza alle
guerre fasciste fu la complicita' nazionale italiana con la violenza. Il
Presidente Ciampi ha elogiato i combattenti e caduti di El Alamein,
nella guerra fascista aggressiva, ma non ha elogiato i resistenti alla
nostra violenza coloniale e bellica, come Omar al-Muktar, il Leone del
deserto, oltraggiato e impiccato dai soldati di Graziani.
*
Torniamo a La caduta, di Oliver Hirschbiegel. Due sono gli scenari: il
sotterraneo cemento aspro del bunker, e le vie di Berlino, martellate
dalle cannonate russe. Tra i vivi sotto terra, le facce di Hitler e
Goebbels sembrano staccate da un antico affresco dell'inferno nel
Giudizio finale: sono le facce deformi dei dannati e dei diavoli. Ma ci
sono anche i volti freschi e puliti di Junge Traudl, la segretaria di
Hitler, ignara del peggio, e soprattutto dei sei bambini di Goebbels,
che cantano, allegri e divertiti, incuriositi dal diversivo.
C'e' anche il bel viso di Eva Braun, che rappresenta la fedelta' bella e
ambigua della Germania obbediente, fedele al crimine per essere fedele
all'uomo criminale. Al rimbombo dei passi vicini della disfatta,
organizza una festa obbligatoria e balla sfrenata sul tavolo, fin quando
lo permette la bomba successiva. Eva Braun e' la versione forzatamente
allegra della stessa cecita' isterica che esplode cupa in Hitler alle
notizie che le possibilita' di lotta sono finite.
Il Fuehrer barcolla nella psiche, come nel fisico curvo e tremante, tra
allucinazioni di potenza invincibile, attese irreali di capovolgimento
dellasituazione disperata ("Appena avro' risolto l'attuale
situazione..."), consapevolezza della fine, crisi furibonde e isteriche
contro i suoi generali inetti e vigliacchi e contro il popolo tedesco,
indegno di vivere senza di lui. Per lui, la fine dell'impero e' la fine
personale e - estrema folle identificazione - fine della nazione e della
storia: "Non possiamo farci scrupoli per i cosiddetti civili". "Se
perdiamo la guerra non ha senso che il popolo tedesco sopravviva".
Goebbels gli fa eco: "Non provo compassione per il popolo tedesco: ci ha
detto si', ora deve lasciarsi tagliare la gola". Dice ancora Hitler: "La
vita non permette debolezze. La pieta' e' contro natura". "Se il popolo
tedesco soccombesse non verserei una lacrima". Eppure, quando prende
commiato da Speer, una lacrima scende dal suo occhio. Niente e' totale,
neppure la crudelta' hitleriana. Sfocato, su una parete di fondo, c'e'
anche un quadro della Madonna col Bambino. Hitler e' gentile coi suoi
ospiti, quanto feroce col mondo. Persino Goebbels piange, quando Hitler
gli ordina di andare via, perche' non ha mai disobbedito al suo Fuehrer.
Anche lui farnetica: "Risorgeremo
al di sopra di tutti, puri e immacolati".
Chi verra' dopo non dovra' poter toccare nemmeno le ossa del Fuehrer
vinto, che non accettera' mai la resa. Il fuoco che predispone per se',
dopo il veleno fulminante e la ben studiata "esplosione del cranio", e'
simbolo del nulla che egli vede al di fuori di se'. Tutto e' travolto
con lui, anche il bel cane, anche il fiore eroico nel buio cortile. La
morte sembra vincere su tutto, sul senso violato del limite, sul futuro,
che sono i bimbi, il popolo.
Un'altra orrenda fedelta' infernale e' quella degli alti ufficiali,
incapaci di imporre la realta' al capo folle, schiavi del giuramento ad
una tale persona e non ad un valore. Salvo alcuni pochi, che tentano
almeno una via di umanita' nella cura delle vittime, essi scioglieranno
le fila sparpagliandosi
tra il suicidio (anche a tavola, con l'intera famiglia) e la fuga.
Il culmine drammatico del racconto e' quando la moglie di Goebbels,
prima di morire col marito, uccide con metodo e calma i suoi sei
bambini, perche' "Dopo Hitler non meritera' vivere". "Se l'ideale del
nazismo muore non ci sara' un futuro". Il marito l'attende fuori dalla
stanza. Lei rifiuta la mano che lui le tende, e va a giocare un
solitario. In questa donna e' rappresentato il giudizio della morte
sulla vita: la morte e' nella madre, la vita nella vivacita' soppressa
dei bambini. Il passato vuole spegnere il futuro. Hitler l'aveva
decorata come "la piu' eroica madre del Reich".
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Il
film di Oliver Hirschbiegel non e' solo una tragedia tedesca: il tema e'
quello classico, della tensione fra la tracotanza che squilibra e la
giustizia che quasi fatalmente e al caro prezzo di una distesa di morte,
riequilibra le cose; e' un ultimo nuovo racconto della tragedia
universale di ieri e di domani, se non la sapremo disinnescare con la
presa di responsabilita'.
Riconoscere questa tragedia nel presente, attorno e addosso a noi, non
e' facile come vederla nel passato.
Il futuro di quella Germania impazzita, che fucila e impicca come
disertori i civili che non combattono, e dunque il futuro anche dell'umanita'
oltre l'impazzimento della violenza, e' rappresentato in un altro
bambino, nelle vie infuocate di Berlino. Il bimbo dapprima combatte
contro i panzer russi, sfiora la morte, e' decorato da un Hitler ridotto
a rottame, nell'angusto cortile del bunker, infine torna dai genitori, e
quando anche loro saranno agganciati dalla morte, raggiunge per caso e
prende per mano Junge, la giovane segretaria, e con lei evade
dall'inferno e dalla guerra. Junge rappresenta la parte di Germania
ignara, coinvolta, ma capace di ripensare. Lei e' protagonista della
prima scena notturna, buia, e dell'ultima, luminosa, nella campagna,
sulle vie e i ponti bombardati ma ancora percorribili a piedi o in bici.
Il futuro negato da Hitler, esiste. Tanti anni dopo, carica di tempo,
Junge si riconoscera' nella memoria della coetanea Sophie Scholl, volto
della Germania libera e coraggiosa, la Rosa Bianca piu' forte della
morte. Ho qui sette fili d'erba, che raccolsi sulla tomba di Sophie e
Hans, a Monaco, l'8 agosto 2003. Quell'erba nasce ancora. Il fuoco
cadaverico di tutti i Fuehrer della storia non la raggiunge.
Enrico Peyretti
La nonviolenza
e' in cammino n. 983 del 6 luglio 2005
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