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Se questa
LETTERA è così in ritardo nei confronti della sua abituale cadenza
mensile, non è perché io sia stato malato (come qualche amico affettuoso
ha temuto) né perché sia stato assente dall’Italia e neppure perché
fossi schiacciato dai miei fortunatamente ancora molti impegni di vario
tipo: è perché la vicenda del referendum mi ha a lungo depresso e anzi -
per usare l’aggettivo più signifi-cante- "intossicato". Non riuscivo a
esprimere "in positivo" - come sempre cerco di fare con LETTERA - questa
mia profondissima amarezza, a trasformare in medicamento i veleni di
un’esperienza desolante. Ho sul groppone i ricordi dei referendum sul
divorzio e sull’aborto; come alcuni di voi sanno (e come, del resto, ho
scritto nei miei libri) debbo a quell’appassionata, anche se dolente,
attiva partecipazione la stroncatura della mia carriera giornalistica in
un momento assai positivo, ma non me ne pento. Debbo anche, alle scelte
operate allora, la perdita di alcune amicizie, della benevolenza di
alcune persone per me assai importanti, a cominciare da quel papa Paolo
VI che ho molto amato. Ne ho sofferto, ma lo rifarei, così pressante mi
apparve allora (e mi sembra adesso) il grido di persone sofferenti. Ma
questa volta - e, ne sono certo, non perché sono tanto più vecchio . il
dolore è stato maggiore. Mi è sembrato di muovermi in un ambiente
popolato soprattutto da arroganti e da millantatori, da ignoranti, da
giocondi irresponsabili e da furbastri di lungo corso; ai margini,
silenziosa, umiliata e quasi disperata, una gran massa di onesti uomini
e oneste donne, in cerca di difficili verità e attenti a una dignità
negata da molti sedicenti maestri.
Non riuscendo a scrivere su questo argomento, che pure mi pareva di non
poter lasciare senza commenti, ho traccheggiato sino ad oggi. Adesso,
tuttavia, un amico mi ha fatto avere la copia di un articolo scritto da
Giuseppe De Rita e pubblicato dal "Corriere della Sera" il 13 giugno
scorso.
E ho trovato, mi sembra, il mio interprete.
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Giuseppe De Rita è troppo noto a quella parte del pubblico italiano che
legge i giornali o assiste ai dibattiti televisivi perché io debba dire
chi è; ma voglio almeno dire che siamo amici dall’epoca del Concilio e
delle sue speranze; con gli anni i nostri mestieri e le diverse opzioni
politiche ci hanno un po’ (talvolta più di "un po’") divisi, ma certo ci
vogliamo ancora bene. È stato quindi con grande interesse che ho letto
l’articolo e, con gioia, ho scoperto che conteneva parole che potevano
esprimere i miei sentimenti, sia pure tenendoli a briglia corta e, per
così dire, "pacificandoli".
Ecco il testo:
Quei tre
errori (anzi furbizie)
Questa mia riflessione vuole esprimere il disagio che mi ha accompagnato
per tutta la durata della campagna referendaria. Un disagio che a volte
mi ha fortemente tentato all’esternazione polemica, tradendo l’impegno a
star zitto che tre mesi fa avevo espresso anche su queste colonne; un
disagio causato dall’accavallarsi di posizioni strumentalmente faziose,
nel proporre come verità assolute posizioni parziali e di improbabile
verifica; un disagio sconfortato dal constatare che persone sempre
stimate hanno scritto, forzando i toni, termini e parole di cui fare
l’elenco mi umilierebbe.
Se qualcuno voleva una zuffa becera, ce l’ha imposta. Mi sono in questo
periodo spesso domandato se un tale disagio fosse da attribuire alla
propensione al non-protagonismo che accompagna il mio sereno
invecchiare; o se fosse invece da attribuire a una regressione psichica
verso il protagonismo a tutti i costi che ha colpito la reverenda classe
dei nostri opinion makers, politici, religiosi, giornalisti, scienziati
che fossero. Naturalmente è intuitivo (e da perdonare) che io sia
portato a dar le colpe agli altri e non a me; ma se guardo con più
freddezza a quanto è successo credo che il calor bianco cui ci si è
gioiosamente lasciati andare è attribuibile a tre errori/ furbizie delle
tre grandi parti in causa.
C’è stato anzitutto un errore/furbizia della leadership referendaria,
che ha posto agli elettori non un quesito secco e monotematico ma un
caleidoscopio di referendum, su otto temi di diversa natura: sul valore
filosofico, teologico, biologico dell’embrione; sulla salute e sulla
dignità delle donne; sul primato del soggettivo individuale diritto ad
avere comunque un figlio anche senza sapere chi gli è padre; sulla
libertà della scienza e della ricerca; sulla speranza di poter, domani,
combattere malattie terrorizzanti (dal Parkinson all’Alzheimer); sulla
possibilità di una messa in dubbio della legge sull’ aborto, sul ruolo
più o meno invasivo delle autorità ecclesiastiche; sul valore e sulla
legittimità etica e giuridica dell’astensione. Non so se queste multiple
motivazioni siano state una furbizia volta a fare somma di chiamate alla
mobilitazione o se sia stato un errore, non coerente con il significato
monotematico e secco (sì o no, come è avvenuto in Francia per la
Costituzione europea) di ogni seria consultazione referendaria.
Ma furbizia o errore che sia stato, l’effetto immancabile è stata la
moltiplicazione per otto della carica polemica delle prime linee degli
opposti schieramenti.
Il secondo errore/furbizia è stato quello degli antireferendari,
specialmente delle autorità ecclesiastiche. So che all’interno di quest’ultime
ci furono reazioni negative quando all’inizio della vicenda io scrissi
«hanno abboccato»; ma forse oggi esse potrebbero convenire che la scelta
di schierarsi, sia pure con l’astensione, ha regalato ai referendari un
facile nemico e una insperata carta polemica (la difesa dell’autonomia
dello Stato e della società civile) senza la quale avrebbero dovuto
faticare non poco a montare l’opinione su quesiti astrusi e avrebbero
avuto ancor meno votanti. Anche qui è difficile discernere quanto ci sia
stato di errore o di furbizia; ma quel che è certo è che la
radicalizzazione su questo versante ha creato la maggiore dose di calor
bianco ed una importante frattura sociale: non sarà facile dimenticare
le offese reciproche, non sarà facile riprendere una rispettosa
dialettica fra laici e cattolici, che sembrava cosa ormai acquisita in
questa società.
Il terzo errore/furbizia è stato quello dei mezzi di comunicazione di
massa e specialmente della carta stampata.
Sono stati parte in causa ed hanno fatto del referendum una loro
battaglia, un loro punto d’onore, un’occasione di radicalità culturale,
una sfida a chi vinceva l’evento. E si sono trovati, se non volevano che
l’evento li smentisse, ad alzare i toni, a concedersi paginate
illeggibili e non lette, a reiterare gli interventi (con collaboratori
chiamati quattro volte a scrivere le stesse cose), a forzare i titoli, a
essere più movimentisti che facitori d’opinione. Tanti titoli roboanti o
velenosi denotano errori o furbizia del convincimento collettivo? Non lo
so, ma certo hanno stressato l’elettore, portandolo a sentirsi solo, con
il proprio insoddisfatto bisogno di minimale ragionevolezza. Da stasera
avremo qualche scarica di adrenalina in chi ha vinto e in chi ha perso.
Ma dopo la nostra testa, pesante dopo la sbornia emotiva, dovrà tornare
a ragionare: non solo sulla sostanza della legge 40, cui comunque si
dovrà rimetter mano (io avrei aspettato la sua sicura sfrondatura da
parte della Corte Costituzionale, senza gli urlati sfracelli di questi
mesi?); ma anche su un collettivo esame di coscienza sui tre errori/
furbizia di cui sopra. Con la sperabile intenzione di non commetterne
più in avvenire.
Sin qui il mio amico. A me non resta che dire Amen.
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Come alcuni di voi sanno, "tengo" una rubrica ("Bloc-notes") su JESUS,
il bello e coraggioso mensile della San Paolo. Sul numero di giugno mi
sono interessato di un personaggio che molti conoscono; e di una sua
denunzia, che mi ha scosso, come sempre mi accade per le parole dei più
audaci testimoni dell’amore per gli uomini. Sono certo che ciò che
Chiara Castellani (il personaggio di cui parlo) ci ha mandato a dire può
interessare anche voi. Ecco l’articolo:
Forse bisogna proprio stare negli avamposti della solidarietà per
cogliere le assurdità (avevo scritto: atrocità, ho corretto, ma contro
voglia) del mondo in cui agiatamente viviamo. Chiara Castellani è una
dottoressa che sta a Kimbau, nel Congo, unico medico in una zona grande
quanto il Belgio. Ci sta, credo, da una quindicina d’anni, dopo avere
lavorato in Nicaragua e in Mozambico. In origine era ginecologa e le
piaceva far nascere bambini; adesso fa "di tutto". Anni fa, in un
incidente stradale (se quelle del Congo possono chiamarsi strade), ha
perso il braccio destro. Il governo italiano l’ha fatta trasportare in
patria. Pochi giorni dopo il ricovero, sono andato a trovarla al
Policlinico Gemelli di Roma. Mi ha spiegato che aveva tanto da fare:
abituarsi a scrivere, a tenere uno stetoscopio, a pettinarsi con la mano
sinistra. "Ed è sempre in giro a consolare chi si lamenta" protestavano,
ma ammirate, le infermiere.
È tornata in Africa, naturalmente. Ha addestrato alcuni collaboratori a
sostituire il suo braccio e insieme affrontano emergenze che farebbero
impallidire i medici di un Pronto Soccorso di città nostrana. La sera
con la sinistra e una vecchissima macchina da scrivere racconta ad amici
ed amiche dell’Italia ciò che vive laggiù. I tasti sono ormai deformati
dal’uso ma il contenuto è chiarissimo. Lei confessa che vorrebbe
scappare cento volte al giorno, tanto è insostenibile la miseria e il
dolore che la circondano. Dice che cento volte al giorno prega: "Dio, se
esisti, aiutami". Questa fede inquieta l’ aiuta a resistere, anche se il
sangue che macchia il suo camice non è solo quello della camera
operatoria. La zona in cui vive è infatti "conflittiva": significa
uccisioni, violenze, saccheggi, stupri.
Quando arriva una lettera di Chiara, noi cerchiamo di non farci trovare,
perché è come una mano forte (la mano che lei non ha più) che ci afferri
una spalla e la scuota. Lei ci vuole bene ma ci vede dal Congo, questo
luogo dove muoiono persone senza diritti e senza speranze, e ci mostra
dove viviamo noi, in un mondo che assassina le speranze e schiaccia i
diritti e dove tutti, attraveso una serie di mediazioni, siamo
corresponsabili di quel che lei ci descrive. Qualche volta penso che le
parole di questa donna coraggiosa, con il suo sorriso di ragazza, sono
identiche a quelle di Martin Luther King. "Vi prego di indignarvi ogni
giorno".
Nella lettera che è arrivata giorni fa, Chiara scrive: "La malattia del
sonno uccide 70.000 persone ogni anno, 300.000 sono i nuovi casi. E’ una
morte lenta e dolorosa causata dalla necrosi delle cellule celebrali.
Esiste un farmaco efficace nella cura della malattia, l’efloritina, ma
non è più disponibile da anni. In Congo sono costretti a curare i malati
con l’Arsenol, un derivato dell’arsenico, che nel 2% dei casi uccide il
malato. Leggo su "The Medical Letter" che l’efloritina si è rivelata
efficace nella cura dei peli superflui e quindi è diventata la base di
una crema per l’eliminazione dei peli facciali. Negli Stati Uniti un
tubetto da 30 grammi costa 42 dollari".
E Chiara dice: "Non è soltanto dolore quello che si prova a vedersi
morire sotto gli occhi una persona per la mancanza di un farmaco che
potrebbe salvare delle vite e per pure ragioni economiche viene
utilizzato solo per fini estetici. Al dolore si aggiungono la rabbia e
la frustrazione".
Questa è la legge del Mercato che ci viene presentata dagli
economisti come sacra e intoccabile. Apro la Bibbia e leggo:
"Canticchiano al suono dell’arpa, (…), bevono il vino in larghe coppe,
si ungono con gli unguenti più raffinati (…) ma cesserà l’orgia dei
buontemponi". Parole gridate 2800 anni fa. Spero che non
siano più valide.
***
Ripeto ancora una volta
la notizia sui GABBIANI IN VOLO:
L’editrice San Paolo ha deciso di abbandonare la narrativa e di
conseguenza di mandare al macero, fra altre opere, il mio libro che io
amo di più: I GABBIANI cinque racconti lunghi o romanzi brevi, che si
inanellano fra loro, dando vita, hanno detto i critici, a un mondo
magico, ricco di emozioni. Ho riscattato alcune copie e le metto a
disposizione di chi ne desidera un esemplare.
Se poi qualcuno vorrà inviarmi un rimborso delle spese (che ho calcolato
in 5 euro), lo accetterò volentieri; ma quel che mi preme è che il libro
venga letto.
Tanti cari saluti
ettore masina
Lunedì, 27 giugno 2005
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