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 Quel che resta della cultura

di Sergio Tardetti

 
 

In questi giorni, partecipando al mesto e scontato rituale, che viene sempre proposto dai media come un vero e proprio evento con l’altisonante nome di “Esame di Stato”, ho avuto modo di riflettere su come le principali componenti della cultura umanistica, Storia e Letteratura, siano state, nel corso degli anni, ridotte ai minimi termini, quasi distillate e condensate in formule piuttosto simili a slogan pubblicitari. Si tratta solitamente di espressioni di particolare effetto, strutturate in modo da restare più a lungo possibile nelle memorie sempre più volatili dei nostri allievi, come sono rimaste nelle nostre, certamente più esercitate a ricordare. Così, di un autore della complessità e dello spessore di Leopardi, tanto per citarne uno particolarmente in auge ai tempi in cui ero liceale, si ricordano le varie fasi del pessimismo, culminanti in quello cosmico, nonché la “natura matrigna”, tanto per citare quelle espressioni che riaffiorano più immediatamente, quasi per un riflesso condizionato. Oggi, mutatis mutandis ed aggiornata la cronologia a tempi ed autori più vicini a noi, tocca ad altri occupare i primi posti di una ideale hit parade. Tra i tanti potenzialmente proponibili, è statisticamente accertato che nel corso dell’esame la parte del leone è toccata a D’Annunzio e Wilde, presentati e riproposti in tutte le salse. Forse le parole chiave che ad essi vengono associate sollecitano in modo particolare l’immaginario collettivo dei nostri giovani, certamente attratti dal culto della bellezza e smaniosi di trasformare la propria vita in un’opera d’arte, secondo gli insegnamenti del “Grande fratello” (mediaset, non orwelliano, naturalmente!), concetti debitamente enunciati dagli artisti suddetti, i cui legittimi eredi dovrebbero per questo invocare il plagio e farsi riconoscere il diritto d’autore. Lavori veramente pregevoli ed originali, le cosiddette “tesine” o “percorsi”, se ne sono visti piuttosto pochi, nessuno per la verità che riguardasse i summenzionati autori. La sterminata biblioteca di Babele, che risponde al nome di Internet, ha contribuito a fornire materiali e documenti che, semplicemente scaricati e stampati, sono risultati durevolmente impressi sulla carta a caratteri laser indelebili. Molto meno impressi sono risultati nella memoria del candidato-compilatore, poco più che sfiorata dal flusso inarrestabile di bit, perfettamente coerente con la logica del computer ma assolutamente incompatibile, almeno al momento, con il pensiero umano. Non vogliamo invocare il pensiero divergente, così difficile da sollecitare all’interno della nostre istituzioni scolastiche per non sembrare di troppe pretese. Almeno sui temi più comunemente e obbligatoriamente affrontati “nel corso del colloquio”, come recita il burocratese ministeriale, a volte ci si potrebbe accontentare di una semplice traccia di comune pensiero, dell’esistenza del quale, per motivi che ci sfuggono, i nostri allievi sono estremamente restii a fornire qualche prova. Ma riprendiamo il filo del discorso. Poiché sono un sostenitore della teoria, secondo la quale ogni effetto deve avere una sua causa, mi sono soffermato a riflettere su cosa abbia condotto ad una così estrema ed eccessiva semplificazione. Senza essere giunto a conclusioni definitive, ritengo tuttavia, che il motivo di una tale riduzione ai minimi termini sia da ricollegare ad almeno due cause principali. La prima nasce dalle tanto invocate “esigenze didattiche”, che condizionano fortemente l’azione educativa e formativa del docente, costretto, per restare sincronizzato alla scansione temporale dei programmi ufficiali delle discipline, a sciorinare, nel volgere di pochi mesi, avvenimenti che si dipanano nell’arco di un secolo, spesso di diversi secoli. Che tutto questo rappresenti una vera follia, impedendo l’analisi, l’approfondimento ed il consolidamento delle conoscenze, non occorre dimostrarlo: lo provano i confusi balbettii, punteggiati da copiose pause ed estenuanti silenzi che costituiscono l’essenza delle risposte dei candidati. Quello che colpisce incessantemente e fastidiosamente le nostre orecchie è la banalizzazione della letteratura e della storia, ridotte a una specie di catechismo laico: chi è Joyce? Joyce è colui che ha introdotto lo “stream of consciousness”. E come è chiamato l’inizio del ventesimo secolo in Italia? L’età giolittiana. E via così, catechizzando…
Forse, più che delle risposte, sorge il dubbio che la colpa sia delle domande, tutte uguali e prevedibili come e più delle risposte stesse. Nella incruenta schermaglia tra esaminando ed esaminatore, nessuno vuole sembrare più intelligente dell’altro, il secondo per mettere a proprio agio il primo, senza suscitare in lui complessi di inferiorità, il primo per entrare in sintonia con il secondo, assecondandolo come si fa con i pazzi e con i bambini, anche per evitare di inoltrarsi in pericolosi terreni minati. Non so se sia legittimo chiederselo, ma provo a farlo lo stesso: sono forse quelle, ormai canoniche, le sole domande che abbiamo il dovere di porci in merito alle opere d’arte, ai tempi nei quali esse vennero concepite e a coloro che le concepirono? A salvarci dal cadere in una trance ipnotica contribuiscono, per fortuna, gli svarioni dei candidati, anch’essi prevedibili e, tuttavia, particolarmente attesi come momenti topici del colloquio; per cui Wilde, esponente insigne di quella corrente letteraria, etichettata col nome di Estetismo da qualche critico del passato in vena di semplificazioni, diventa, inevitabilmente, un celebre “estetista”, onestissima professione che al giorno d’oggi, vista l’ansia con la quale tutti procurano di mantenersi belli e giovani come il suo Dorian Gray, gli consentirebbe di trascorrere un’esistenza più che agiata, ricevendo solo per appuntamento pochi e sceltissimi clienti.
La seconda causa della semplificazione, si riconnette alla smania classificatoria che affligge da sempre l’umanità, la quale, per tenere sotto controllo la sua scarsa e confusa conoscenza del mondo, ha bisogno di incasellare informazioni che sono restie a farsi etichettare, e congelare dati e fatti che, continuamente rivisitati con nuovi occhi, sono in realtà in perenne movimento. Da questa particolare sindrome non sono immuni critici letterari e storici di ogni epoca. A questo punto, il pensiero di come il tempo e l’uomo abbiano lavorato contro la memoria e continuino ogni giorno a farlo, mi ha improvvisamente assalito. Il tempo lavora incessantemente a smussare e rendere indecifrabile, come sotto l’azione di potenti getti di sabbia, quel minuto bassorilievo che veniamo scolpendo, giorno dopo giorno, attraverso le nostre azioni e le nostre parole e nel quale sono istoriate le nostre vicende umane. L’uomo conduce un’azione meno grossolana, più sottile, attraverso i meccanismi di semplificazione e riduzione dei quali si è detto sopra: difficile opporsi o contrastarli. Ho pensato a me stesso come parte dell’umanità, a me che vivo questi tempi che sembrano particolarmente tormentati, a come questi tempi e questa cultura saranno ricordati, o piuttosto dimenticati e mitizzati, in un futuro più o meno remoto. Credo che la mia riflessione non sia unica, né particolare, né nuova, ma che le stesse sensazioni l’abbiano provate e le provino migliaia di altri uomini, vissuti prima di me e insieme a me. Eppure, continuo a pensarci: dove sono quelle donne, quegli uomini che si sono trovati a vivere direttamente o indirettamente quegli avvenimenti storici e culturali riassunti in formule indelebili, quali tracce ne sono rimaste nei libri di storia e di letteratura e nella cultura in generale? Sono le tracce del loro passaggio su questo pianeta, i segni della loro appartenenza alla nostra umanità che andrebbero ricercati. Ecco allora che, anziché operare sintesi spericolate, si dovrebbe attivare un processo opposto, di analisi approfondita del singolo testo, della singola pagina, perfino della singola parola. Indugiare sulla pagina, per coglierne l’essenza profonda, attivare, a distanza di tempo, anche dopo avere dismesso la frequentazione dei classici, quell’importante processo che è la rilettura sembra soltanto, in questi tempi superficiali e frettolosi, un’utopia. Oggi, quello che sembra contare veramente è essere “informati”, la formazione resta appannaggio di pochi eletti, un vero e proprio lusso che nessuno riesce più a concedersi impunemente e senza avvertire un’acuta sofferenza. La bulimia informativa, della quale tutti siamo un po’ vittime, rischia di travolgerci: che almeno questa estate ci porti consiglio, che si provi, ciascuno di noi, a riacquistare una giusta prospettiva dell’esistenza, allontanandoci, almeno per qualche momento, dal resto dell’umanità e riavvicinandoci a noi stessi. Scopriremo di non esserci, in realtà, mai conosciuti.

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10/07/2005

 

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