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Una persona a me
molto cara mi ha chiesto di scrivere un articolo e di descrivere come ci
si sente ad essere rinchiusi nel braccio della morte. Onestamente
pensavo che non mi sarei mai sentito in grado di farlo, cioè di scrivere
su un argomento del genere. Tuttavia, mentre ponderavo la richiesta
fattami da questa persona amica, mi sono reso conto che noi – i detenuti
del braccio della morte – abbiamo non soltanto il dovere di raccontare
sinceramente le nostre esperienze, ma anche quello di combattere la
falsità, contestando quella che è la mentalità diffusa e cioè che noi
tutti costituiremmo un “futuro pericolo ed una minaccia per la società”.
Io so, senza ombra di dubbio, di non essere una futura minaccia per
chicchessia. Oltre ad essere esseri umani, ognuno di noi è un individuo
unico con una sua propria capacità che gli dà modo di offrire [agli
altri] qualcosa di speciale grazie alle proprie esperienze di vita. A
mio avviso, per una persona innocente e ingiustamente condannata da
parte di coloro che detengono il potere e dovrebbero vigilare
sull’amministrazione della giustizia, [essere considerata una minaccia
per la società] è una delle peggiori forme di tortura mentale a cui un
essere umano può essere sottoposto.
Nell’abito della società moderna ognuno di noi, indipendentemente dal
proprio credo o dalla propria posizione sociale, nutre fiducia in un
corretto funzionamento della giustizia, quella giustizia che allontana i
criminali dalla società. E questa fiducia è alla base di quelle tante
frasi che si sentono così spesso, del tipo “beh, se ti hanno arrestato,
qualcosa devi pur aver fatto”. Ma la verità è che non c’è bisogno di
commettere un crimine per essere giudicato “colpevole”. A volte la
razza, la mancanza di mezzi economici, l’avidità, e persino una cattiva
reputazione diventano le motivazioni che spingono i tutori della legge a
diventare ciechi oppure ad ignorare la realtà dei fatti e ad accanirsi
sulla persona sbagliata.
Quando accade una cosa del genere, la fiducia che riponevamo nel sistema
inevitabilmente crolla. E’ successo anche a me. E’ vero, ho vissuto una
vita che nessuno giudicherebbe perfetta. Anch’io ho fatto cose giuste e
cose sbagliate. Ma non ho mai assassinato nessuno.
[…]
Dall’età di 15 anni ho dovuto badare a me stesso. Quel senso di
impotenza e di incapacità che si prova quando non si riesce a provvedere
neanche alle proprie necessità è stato qualcosa che, anche dopo, ha
cercato di privarmi della mia dignità di uomo; per non parlare, adesso,
della cattiveria di alcuni agenti di custodia ed ufficiali, che - con il
loro comportamento – piantano nelle menti dei detenuti semi di
insicurezza, odio e persino indegnità. E quando la tua famiglia,
diventata vittima a sua volta, non sa che fare e non ha mezzi materiali
per aiutarti, allora anch’essa prova la stessa angoscia e la stessa
sofferenza. Sono molte le famiglie che, catapultate in questo mondo, non
ce la fanno a vedere i propri cari in una situazione così difficile. E,
di conseguenza, sono purtroppo tanti i prigionieri che si trovano
costretti ad affrontare l’abbandono da parte dei propri famigliari e ad
affrontare da soli questa spaventosa miseria.
E’ impossibile riassumere in poche righe le esperienze di tutti i
reclusi di questo braccio della morte. Né potrei mai riuscire a far
capire davvero come stanno le cose qui a chi non ha mai provato una
simile esperienza. Ma spero, comunque, di riuscire a fare capire a chi
leggerà queste righe che ognuno di noi, qui dentro, soffre o ha sofferto
di traumi emotivi, mentali e anche fisici, a volte. Perché quando la
minaccia della morte ti sta costantemente sulla testa come una
gigantesca ghigliottina, mentre sei costantemente in balia di sentimenti
quali l’angoscia, l’incertezza, la solitudine, il dolore, c’è forse da
stupirsi se alcuni prigionieri si suicidano, o se diventano vendicativi
o se, semplicemente, non sanno più cosa vuol dire sperare?
Io chiedo a voi: cosa fareste in una situazione del genere?
Le risposte possono essere diverse. Ma, ne sono certo, se ci riflettiamo
insieme arriviamo ad una conclusione unica. E cioè che indipendentemente
dalla colpevolezza o dall’innocenza dell’individuo qui rinchiuso, la
cosa migliore è che egli proceda con un miglioramento del suo essere
interiore. Perché indipendentemente dal nostro status nella vita, non
dovremmo mai dimenticare che questo mondo non è un terreno da gioco,
bensì un’aula scolastica, e che la vita non è una vacanza, ma è come
frequentare la scuola. Ecco perché la cosa più importante è che
impariamo ad amare meglio e di più noi stessi e gli altri.
Forse solo allora, come società, riusciremo a superare il razzismo, le
ingiustizie e tutte le altre forme di male che esistono. E, e ne sono
certo, potremmo arrivare a questa vittoria se davvero noi tutti ci
impegnassimo per farla diventare realtà.
Pace.
Eric "Mpaka" Cathey
Chi volesse inviare un messaggio (in inglese) ad Eric, può scrivere al
seguente indirizzo:
Mr. Eric Cathey
#999228
Polunsky Unit D/R
3872 FM 350 South
Livingston, Texas 77351
USA
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