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Nessuno ne
parla, neppure sottovoce, e quando se ne…. straparla, lo
stridore che ne fuoriesce è palese, a tal punto da perdere
contatto con la realtà, intendo quella vera, quella che fa a
pugni con le belle verità e con le mezze fandonie.
Rifletto sulla percezione che i cittadini hanno di una cella,
osservo e rifletto sulla reale accezione che si trasferisce alla
prigione quando qualcosa lede i nostri interessi.
Mi colpisce l’indifferenza, la disattenzione, con cui si prende
atto che in carcere ci si ammazza a vent’anni, a quaranta, a
sessanta, nel silenzio più colpevole, MA ciò non provoca alcun
brivido, se non quello di prendere per il bavero l’intelligenza.
In questo bailamme di disegni sgangherati, di giustizia
dell’ingiustizia, e di ingiustizia della giustizia, in questo
abisso: alla prima curva non c’è più a fare da ponte l’uomo, ma
lo spettro di una disumana accettazione.
Nell’attesa di veder confluire nelle celle sempre uguali tante
persone differenti per convinzioni, culture e antagonismi, ma
assai uguali per le tasche vuote, penso al carcere, penso ai
suoi ospiti sempre meno numerosi, miracolo della sorte che rende
improvvisamente assenti, e penso ancora a questa prigione che
sopravvive a se stessa…..a se stessa….a se stessa.
Penso alla politica alta, penso agli uomini che la fanno, penso
ai Caino come me che scontano la propria condanna, penso agli
Abele dai silenzi protratti, e ricordo i tanti miliardi elargiti
a parole nella vecchia legislatura, nella nuova, nella futura,
per un progetto “intero”, almeno così era stato promesso.
Rammento le conferme di nuove assunzioni di Agenti di Polizia
Penitenziaria, di Educatori, di Esperti, di Assistenti
Sociali….sembrava un investimento serio e notevole per far si
che la prigione potesse praticare il dettato Costituzionale, e
non quell’incerta pena di morte tutta italiana.
S’è trattato di utopia, e gli utopisti sono illusi nella teoria,
e violenti nella pratica.
Di illusione s’è trattato davvero, infatti quei soldi sono stati
dirottati verso altri lidi, verso altre istanze, non più per
bilanciare precise scelte di politica criminale, che andassero,
sì, verso una richiesta legittima di sicurezza collettiva, ma
con la stessa intensità non disdegnassero una pena improntata
realmente su passaggi rieducativi, risocializzanti, quindi
destrutturanti-ristrutturanti.
Le necessità operative del carcere restano, impellenti,
improrogabili, eppure rimangono a sopravvivere delle loro
assenze e mancanze. Peggio, si rifiuta di ovviare al problema
con lo sviluppo di spazi psicologici e relazionali, dove chi è
in prigione possa esprimersi liberamente, in un terreno fertile
per l’autocritica, e per la propria crescita personale.
L’antropologia insegna che dal confronto, laddove si realizzi un
vero ragionamento dialogico, scaturisce sempre e comunque un
“prodotto nuovo”, perché l’incontro e lo scambio conducono a
risultati sempre migliori rispetto ai precedenti.
Tutto questo mi porta comunque a una ulteriore considerazione;
in tanti rimarranno alla finestra ad aspettare, gli altri
contribuiranno a risolvere il problema del sovraffollamento.
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