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I profitti o la guerra

Cosa viene prima?

 

di G. Simon Harak

 
     
 

Di recente ho avuto una di quelle intuizioni che mi ha fatto cambiare il paradigma nella mia lotta a favore della giustizia e della pace. Guardavo giocare una squadra locale; al cancello un poliziotto mi aveva fermato, dicendomi che non potevo portare all’interno dello stadio la mia bottiglia d’acqua. Gli avevo fatto presente che era di plastica, e che non l’avrei gettata in campo, essendo tra l’altro impegnato nel movimento nonviolento. “Non fa alcuna differenza”, mi aveva risposto l’agente. “Può acquistarne un’altra all’interno dello stadio, ma non può portarne una dall’esterno”.

Ho capito subito cosa gli altri, e qualche volta anch’io, andavamo dicendo da un po’ di tempo. Quest’uomo in divisa non era lì per proteggere gli sportivi, come sosteneva il dipartimento di polizia: egli difendeva quelli che stavano facendo profitti con la vendita di bottiglie dentro lo stadio. Ho cambiato ulteriormente il mio punto di vista durante le ricerche e l’organizzazione della campagna contro i profitti di guerra promossa dalla Lega di resistenti anti-militaristi. Si chiama “Ferma i mercanti di morte”. Il mio vecchio modo di pensare mi aveva portato a credere che nel mondo c’erano sempre state delle guerre, e che certe imprese ne avevano tratto cospicui profitti. Usando invece il nuovo paradigma, mi sono invece accorto che quelle stesse corporation sono controllate proprio da coloro che progettano le strategie militari dell’Amministrazione americana. Queste non traggono direttamente guadagno dalla guerra, ma il loro potere, la loro influenza sono così grandi che forse è meglio dire che esse fanno la guerra per il profitto.

Ù Sfruttamento e ricostruzione

A questo punto bisogna porsi due domande: quali industrie guadagnano di più da una guerra e che cosa fanno per mantenere ed estendere la loro influenza nel determinare le strategie belliche del nostro Paese? Mi vengono in mente alcuni esempi, pensando in particolare al conflitto del Golfo: le multinazionali del petrolio e quelle delle armi. Il Forum per una strategia globale ha stimato che i profitti delle compagnie di petrolio presenti in Iraq raggiungono i 95 miliardi di dollari l’anno. Mentre invece, per quanto riguarda le vendite di armi, se Washington desse un milione di dollari alla famiglia di ogni soldato ucciso in Iraq, ciò rappresenterebbe solo il 5% del valore complessivo dei contratti stipulati da una sola fabbrica di armi nel 2003: la Lockheed-Martin.
Nell’ultimo decennio, altre industrie hanno spinto a favore della guerra perché in essa vedevano assicurati i loro interessi economici. Il giro d’affari garantito dagli appalti esterni alle imprese militari rappresenta questo. Nel 1992, il segretario della Difesa Dick Cheney ingaggiò una compagnia privata per capire se era più produttivo appaltarle quelle attività solitamente svolte dal settore militare pubblico. Ovviamente, tale compagnia non poté che sostenere la propria efficienza. Quella che Cheney ingaggiò era l’Halliburton. Due anni dopo, nel ’94, sempre il segretario della Difesa, che non aveva alcuna esperienza precedente di affari, ne diventò il direttore. Nei dieci anni successivi, vennero stipulati con essa 3mila contratti militari per la costruzione di caserme, servizi igienici, il trasporto del petrolio, radio, uniformi, per costruire infrastrutture, per preparare il cibo ecc.
Un terzo di tali contratti, circa 1.000, andò proprio alla Halliburton. Solo il 17% della logistica impiantata in Iraq era diretta dal personale del dipartimento della Difesa; il resto era stato appaltato a imprese private. Nello stesso periodo, Cheney era ritornato al proprio incarico pubblico, malgrado l’anno precedente avesse ricevuto a rate dalla Halliburton più di 175mila dollari, una cifra pari quasi al suo stipendio come vicepresidente degli Stati Uniti (189.300 dollari).
Inoltre, in questi anni, abbiamo assistito all’aumento di compagnie impegnate nella ricostruzione che avevano quindi non pochi interessi nel sostenere quella guerra. Anche in tale circostanza ci siamo trovati davanti a un intervento a dir poco lucroso; l’autorità provvisoria della coalizione insediatasi a Baghdad ha emesso un decreto che autorizza la proprietà privata e senza restrizioni di tutti i settori economici iracheni, eccetto quello petrolifero che era già stato dato a un’azienda legata sempre alla Halliburton, consentendo il trasferimento totale dei profitti fuori dall’Iraq. Questo decreto avrà valore per i prossimi cinque anni indipendentemente dal governo che sederà a Baghdad.

Ù Lobby militare e voti
Con tutto il denaro che si recupera facendo la guerra, queste compagnie ne impiegano una parte cospicua per influenzare la politica bellicista dei vari apparati dell’Amministrazione attraverso una serie di attività pubbliche e clandestine. Conosciamo già il peso che le fabbriche di armi esercitano sui legislatori attraverso il contributo dato a sostegno delle loro campagne elettorali. La United for a Fair Economy (Uniti per una giusta economia) nel 2003 ha pubblicato uno studio, nel quale si dimostrava come l’apporto alla campagna elettorale corrispondeva, in gran parte, al valore dei contratti della Difesa.
Un articolo di Chalmers Johnson, un esperto di relazioni internazionali, ha rivelato il peso di tali contributi anche sulle elezioni locali, ad esempio nel 50° distretto della California, in occasione dell’elezione dei membri del Congresso. Comunque è Cheney ad essere fortemente implicato in questa strano gioco della “porta girevole” che conduce dagli affari privati al governo.
Un’altra via meno conosciuta ma che vede le corporation decise a spingere perché si facciano le guerre, è la Commissione consultiva per la strategia della difesa. I suoi componenti (31) scelti dal Pentagono uno ad uno, si ritrovano quattro volte l’anno per consigliare il segretario e il sottosegretario della Difesa; molti di questi sono ex militari d’alto grado, o altri personaggi come l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, l’ex vice presidente Dan Quayle, o l’ex segretario della Difesa Harold Brown.
Alcuni sono degli industriali. Il Pentagono sostiene che tali esperti siano la migliore risorsa, cui attingere informazioni per le Forze armate. Ma uno sguardo sulla loro storia personale fa emergere un problema di non poco conto: Sheehan, ad esempio, è stato inserito su consiglio della Bechtel, uno dei beneficiari dei contratti per la ricostruzione dell’Iraq. Brown è stato appoggiato dalla Phillip Morris, che riceve contratti direttamente dal dipartimento della Difesa Usa. Lo stesso Schlesinger, direttore della Cia ai tempi di Carter e Nixon, è uno degli amministratori della Rand, che riceve decine di milioni di dollari per la ricerca nel settore bellico. Egli è anche il direttore del Consiglio di amministrazione della Mitre che negli ultimi due anni ha ricevuto centinaia di milioni di dollari per contratti sempre sul militare.
Il direttore della Cia, James Woolsey, è membro del Consiglio per la strategia della Difesa oltre che vicepresidente della Booz Allen e Hamilton, che nel 2003 ha ricevuto 680 milioni di dollari per contratti legati a nuovi armamenti. Christopher A. Wiliams, ex dipendente del Pentagono e membro del Consiglio per la strategia di difesa, ora lavora per la Johnston e Associati, che fa lobby verso il Campidoglio a sostegno delle industrie di armi come la Boeing, la Trw e la Northrup-Grumman. Sembra chiaro che ci siano dei forti conflitti d’interesse, anche se le storie private dei membri del Consiglio di Difesa non sono conosciute dall’opinione pubblica, ma solo dal Pentagono. Con i loro stipendi non pagati dal settore pubblico ma direttamente dalle corporation, c’è da chiedersi a chi devono essere fedeli questi consiglieri.
Forse è esagerato dire che queste compagnie hanno sottomesso il Dipartimento militare degli Usa ai loro interessi privati. Ma quando guardiamo all’economia di mercato che gli Stati Uniti stanno introducendo in Iraq, possiamo trarre delle conclusioni per nulla arbitrarie: l’Amministrazione Bush sta cercando di dare continuità alla presenza delle imprese americane in quel Paese. Così le truppe Usa non sono lì per servire e proteggere gli iracheni, per portare la democrazia, o per liberare l’Iraq dalla tortura o dalle armi di distruzione di massa. Alla fine, proprio come il poliziotto che avevo incontrato allo stadio, le nostre truppe non stanno difendendo la gente, ma quelli che da questa situazione traggono il massimo dei profitti possibili.
Nella campagna “Ferma i mercanti di morte” abbiamo sviluppato una strategia nonviolenta a tappe per disarmare le compagnie che fanno la guerra a proprio esclusivo vantaggio. Se riusciremo a rimuovere la ragione del profitto come elemento scatenante la guerra, avremo eliminato uno dei principali motivi per farla.

 

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 28/02/05

 

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