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Di recente ho avuto
una di quelle intuizioni che mi ha fatto cambiare il paradigma nella mia
lotta a favore della giustizia e della pace. Guardavo giocare una
squadra locale; al cancello un poliziotto mi aveva fermato, dicendomi
che non potevo portare all’interno dello stadio la mia bottiglia
d’acqua. Gli avevo fatto presente che era di plastica, e che non l’avrei
gettata in campo, essendo tra l’altro impegnato nel movimento
nonviolento. “Non fa alcuna differenza”, mi aveva risposto l’agente.
“Può acquistarne un’altra all’interno dello stadio, ma non può portarne
una dall’esterno”.
Ho capito subito cosa gli altri, e qualche volta anch’io, andavamo
dicendo da un po’ di tempo. Quest’uomo in divisa non era lì per
proteggere gli sportivi, come sosteneva il dipartimento di polizia: egli
difendeva quelli che stavano facendo profitti con la vendita di
bottiglie dentro lo stadio. Ho cambiato ulteriormente il mio
punto di vista durante le ricerche e l’organizzazione della campagna
contro i profitti di guerra promossa dalla Lega di resistenti
anti-militaristi. Si chiama “Ferma i mercanti di morte”. Il mio vecchio
modo di pensare mi aveva portato a credere che nel mondo c’erano sempre
state delle guerre, e che certe imprese ne avevano tratto cospicui
profitti. Usando invece il nuovo paradigma, mi sono invece accorto che
quelle stesse corporation sono controllate proprio da
coloro che progettano le strategie militari dell’Amministrazione
americana. Queste non traggono direttamente guadagno dalla guerra, ma il
loro potere, la loro influenza sono così grandi che forse è meglio dire
che esse fanno la guerra per il profitto.
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Sfruttamento e
ricostruzione
A questo punto
bisogna porsi due domande: quali industrie guadagnano di più da una
guerra e che cosa fanno per mantenere ed estendere la loro influenza nel
determinare le strategie belliche del nostro Paese? Mi vengono in mente
alcuni esempi, pensando in particolare al conflitto del Golfo: le
multinazionali del petrolio e quelle delle armi. Il Forum per una
strategia globale ha stimato che i profitti delle compagnie di petrolio
presenti in Iraq raggiungono i 95 miliardi di dollari l’anno.
Mentre invece, per quanto riguarda le vendite di armi, se Washington
desse un milione di dollari alla famiglia di ogni soldato ucciso in
Iraq, ciò rappresenterebbe solo il 5% del valore complessivo dei
contratti stipulati da una sola fabbrica di armi nel 2003: la
Lockheed-Martin.
Nell’ultimo decennio, altre industrie hanno spinto a favore della guerra
perché in essa vedevano assicurati i loro interessi economici. Il giro
d’affari garantito dagli appalti esterni alle imprese militari
rappresenta questo. Nel 1992, il segretario della Difesa Dick Cheney
ingaggiò una compagnia privata per capire se era più produttivo
appaltarle quelle attività solitamente svolte dal settore militare
pubblico. Ovviamente, tale compagnia non poté che sostenere la propria
efficienza. Quella che Cheney ingaggiò era l’Halliburton. Due anni dopo,
nel ’94, sempre il segretario della Difesa, che non aveva alcuna
esperienza precedente di affari, ne diventò il direttore. Nei dieci anni
successivi, vennero stipulati con essa 3mila contratti militari per la
costruzione di caserme, servizi igienici, il trasporto del petrolio,
radio, uniformi, per costruire infrastrutture, per preparare il cibo
ecc.
Un terzo di tali contratti, circa 1.000, andò proprio alla Halliburton.
Solo il 17% della logistica impiantata in Iraq era diretta dal personale
del dipartimento della Difesa; il resto era stato appaltato a imprese
private. Nello stesso periodo, Cheney era ritornato al proprio
incarico pubblico, malgrado l’anno precedente avesse ricevuto a rate
dalla Halliburton più di 175mila dollari, una cifra pari quasi al suo
stipendio come vicepresidente degli Stati Uniti (189.300 dollari).
Inoltre, in questi anni, abbiamo assistito all’aumento di compagnie
impegnate nella ricostruzione che avevano quindi non pochi interessi nel
sostenere quella guerra. Anche in tale circostanza ci siamo trovati
davanti a un intervento a dir poco lucroso; l’autorità provvisoria della
coalizione insediatasi a Baghdad ha emesso un decreto che autorizza la
proprietà privata e senza restrizioni di tutti i settori economici
iracheni, eccetto quello petrolifero che era già stato dato a un’azienda
legata sempre alla Halliburton, consentendo il trasferimento totale dei
profitti fuori dall’Iraq. Questo decreto avrà valore per i prossimi
cinque anni indipendentemente dal governo che sederà a Baghdad.
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Lobby militare e voti
Con tutto il denaro che si recupera facendo la guerra, queste compagnie
ne impiegano una parte cospicua per influenzare la politica bellicista
dei vari apparati dell’Amministrazione attraverso una serie di attività
pubbliche e clandestine. Conosciamo già il peso che le fabbriche di armi
esercitano sui legislatori attraverso il contributo dato a sostegno
delle loro campagne elettorali. La United for a Fair Economy
(Uniti per una giusta economia) nel 2003 ha pubblicato uno studio,
nel quale si dimostrava come l’apporto alla campagna elettorale
corrispondeva, in gran parte, al valore dei contratti della Difesa.
Un articolo di Chalmers Johnson, un esperto di relazioni internazionali,
ha rivelato il peso di tali contributi anche sulle elezioni locali, ad
esempio nel 50° distretto della California, in occasione dell’elezione
dei membri del Congresso. Comunque è Cheney ad essere fortemente
implicato in questa strano gioco della “porta girevole” che conduce
dagli affari privati al governo.
Un’altra via meno conosciuta ma che vede le corporation
decise a spingere perché si facciano le guerre, è la Commissione
consultiva per la strategia della difesa. I suoi componenti (31) scelti
dal Pentagono uno ad uno, si ritrovano quattro volte l’anno per
consigliare il segretario e il sottosegretario della Difesa; molti di
questi sono ex militari d’alto grado, o altri personaggi come l’ex
segretario di Stato Henry Kissinger, l’ex vice presidente Dan Quayle, o
l’ex segretario della Difesa Harold Brown.
Alcuni sono degli industriali. Il Pentagono sostiene che tali esperti
siano la migliore risorsa, cui attingere informazioni per le Forze
armate. Ma uno sguardo sulla loro storia personale fa emergere un
problema di non poco conto: Sheehan, ad esempio, è stato inserito su
consiglio della Bechtel, uno dei beneficiari dei contratti per la
ricostruzione dell’Iraq. Brown è stato appoggiato dalla Phillip Morris,
che riceve contratti direttamente dal dipartimento della Difesa Usa. Lo
stesso Schlesinger, direttore della Cia ai tempi di Carter e Nixon, è
uno degli amministratori della Rand, che riceve decine di milioni di
dollari per la ricerca nel settore bellico. Egli è anche il direttore
del Consiglio di amministrazione della Mitre che negli ultimi due anni
ha ricevuto centinaia di milioni di dollari per contratti sempre sul
militare.
Il direttore della Cia, James Woolsey, è membro del Consiglio per la
strategia della Difesa oltre che vicepresidente della Booz Allen e
Hamilton, che nel 2003 ha ricevuto 680 milioni di dollari per contratti
legati a nuovi armamenti. Christopher A. Wiliams, ex dipendente del
Pentagono e membro del Consiglio per la strategia di difesa, ora lavora
per la Johnston e Associati, che fa lobby verso il
Campidoglio a sostegno delle industrie di armi come la Boeing, la Trw e
la Northrup-Grumman. Sembra chiaro che ci siano dei forti conflitti
d’interesse, anche se le storie private dei membri del Consiglio di
Difesa non sono conosciute dall’opinione pubblica, ma solo dal
Pentagono. Con i loro stipendi non pagati dal settore pubblico ma
direttamente dalle corporation, c’è da chiedersi a
chi devono essere fedeli questi consiglieri.
Forse è esagerato dire che queste compagnie hanno sottomesso il
Dipartimento militare degli Usa ai loro interessi privati. Ma quando
guardiamo all’economia di mercato che gli Stati Uniti stanno
introducendo in Iraq, possiamo trarre delle conclusioni per nulla
arbitrarie: l’Amministrazione Bush sta cercando di dare continuità
alla presenza delle imprese americane in quel Paese. Così le
truppe Usa non sono lì per servire e proteggere gli iracheni, per
portare la democrazia, o per liberare l’Iraq dalla tortura o dalle armi
di distruzione di massa. Alla fine, proprio come il poliziotto che avevo
incontrato allo stadio, le nostre truppe non stanno difendendo la gente,
ma quelli che da questa situazione traggono il massimo dei profitti
possibili.
Nella campagna “Ferma i mercanti di morte” abbiamo sviluppato una
strategia nonviolenta a tappe per disarmare le compagnie che fanno la
guerra a proprio esclusivo vantaggio. Se riusciremo a rimuovere la
ragione del profitto come elemento scatenante la guerra, avremo
eliminato uno dei principali motivi per farla.
Missione Oggi
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