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Questa analisi si
pone come obiettivo la dimostrazione di come una generica interfaccia
grafica possa essere vista nella doppia ottica di ambiente di
interazione (Diamanti 2003) e testo sincretico, applicando ad essa tutte
le principali caratteristiche del rapporto tra autore e lettore modello
(Eco 1979) che gestiscono la cooperazione interpretativa nei testi
narrativi. Per ragioni di semplicità, con il termine interfaccia si
intenderà sempre l’interfaccia grafica1
del sistema operativo di un personal computer desktop o laptop poiché
esse sono le interfacce grafiche informatizzate meno direzionate e più
generalizzabili per quanto riguarda l’uso.
Le interfacce devono, infatti, essere considerate in tutta la complessa
rete di rapporti necessaria alla loro esistenza, sia in rapporto alle
altre interfacce, che ne permettono il funzionamento ed il collegamento
con il loro oggetto di mediazione, sia all’interno della relazione che
costituiscono con l’essere umano. Tra i primi modelli di interfaccia
elaborati, ricordiamo i due che ebbero maggior successo: il “paradigma
comunicativo” e il “paradigma della costruzione di modelli”. Il primo
considera l’interfaccia come un adattatore capace di mettere in
comunicazione due universi di significato, due mondi dotati di leggi
proprie altrimenti incompatibili. Il secondo invece presenta già una
situazione più complessa, all’interno della quale l’utente elabora un
modello mentale che aderisce il più possibile al funzionamento
dell’apparecchio, cercando di ricostruire quindi il modello ideato dal
progettista. Se il modello elaborato coincide o è assimilabile al
funzionamento dell’apparecchio allora l’interazione è soddisfacente, in
caso contrario occorreranno difficoltà nel corso del rapporto fino alla
stessa impossibilità di interagire. Proporre il concetto di interfaccia
come ambiente (Diamanti 2003) è già un notevole passo avanti poiché
esaminando l’interfaccia dal punto di vista del fruitore si può notare
come venga creato un mondo, un universo simulato, all’interno del quale
avviene l’interazione tra il sistema e l’utilizzatore. Si creano quindi,
oltre a quelli espliciti, più spazi scollegati dal sistema reale. Due i
principali: la manifestazione effettiva in termini di stato
dell’oggetto, detta spazio architettonico, e lo spazio semantico (Kaplan,
Moulthorp 1994) come dominio della possibilità, in altre parole come
potenzialità di tutti gli stati che l’interfaccia poteva assumere, ma in
cui non si è realizzata a seguito della presenza di quel determinato
spazio architettonico. La mediazione, il rapporto tra questi spazi
costituisce dunque ciò che sta intorno all’interazione e che
contribuisce a definirla e delimitarla. Quindi, conclude Diamanti,
l’interfaccia è l’ambiente dell’interazione, non in quanto oggetto
tangibile, ma come complesso di leggi che la regolano, come insieme di
regole sintattiche e unità semantiche secondo cui l’utilizzatore
persegue i suoi scopi, facendo allo stesso tempo emergere l’interfaccia.
Potrebbe essere utile a questo punto considerare gli elementi necessari
per definire un testo sincretico, elementi che Greimas e Courtés (1986,
voce Syncrétiques, sémiotiques) vedevano
nella compresenza all’interno della stessa istanza di enunciazione di
“una pluralità di linguaggi di manifestazione” ovvero di più sistemi
semiotici differenti tra loro. Questa definizione potrebbe essere
rielaborata definendo un testo sincretico come un testo capace di
organizzare linguaggi eterogenei all’interno di una strategia di
comunicazione unitaria, dotata di caratteristiche di coesione e coerenza
che rimandano alla medesima istanza di enunciazione (Cosenza 2004).
Un’interfaccia utente può quindi facilmente essere identificata come
testo sincretico, all’interno del quale tutte le componenti, partendo da
quelle grafiche sino a quelle fisico-materiali, contribuiscono
all’organizzazione di una medesima istanza di enunciazione che consiste
nel mettere la macchina in rapporto con il fruitore.
Si potrebbe allora pensare l’interfaccia come un dispositivo di
mediazione che riorganizza la realtà in cui è inserito tramite un
processo assimilabile allo schema narrativo canonico, considerando
l’azione un’enunciazione in atto. Mattozzi (2003) analizza l’interazione
con una biglietteria automatica delle Fs, ma il suo accenno di analisi
narrativa sembra difficilmente generalizzabile al di là
dell’esplicazione delle singole fasi del processo interattivo. Nel caso
specifico ogni schermata che si presenta davanti all’utente si
caratterizza come destinante, manipolatrice rispetto al compito
richiesto e sanzionatrice nel momento in cui, realizzata la performanza,
avviene il cambio di schermata. All’interno di questa visione, sia la
competenza sia la performanza spettano all’utilizzatore, in parte
attraverso movimenti logici, in parte attraverso interventi fisici reali
(selezione e tocco del supporto hardware).
Potrebbe tuttavia risultare più semplice considerare l’interfaccia come
testo sincretico secondo i canoni della semiotica interpretativa,
inserendo all’interno del modello le figure degli autori e lettori
empirici e modello, il concetto di apertura o chiusura del testo e il
limite di demarcazione tra uso e interpretazione. È necessario chiarire
fin dal principio come le interfacce siano un testo complesso, composto
di sistemi semiotici differenti e, di conseguenza, come l’utilizzo di
termini quali lettore e autore debba essere figurato, come d’altronde è
uso fare quando ci si riferisce a testi come quelli televisivi o
radiofonici.
Il lettore modello di un’interfaccia grafica è un ipotetico lettore
ideale in grado di leggere il testo secondo le esatte aspettative
dell’autore, è il lettore per il quale il testo è stato creato. Ad esso
si contrappone l’autore modello come strategia testuale, come voce
inscritta responsabile di guidare il lettore nel processo cooperativo
che deve portare alla corretta interpretazione del testo. Non ci si deve
fermare a considerare il lettore come utente medio, come prevede ad
esempio la teoria di Nielsen (2000), né a considerare il lettore
solamente come “acteur non spécialiste”, come fa Zinna (2002), e neppure
alla compresenza di utente e lettore proposta da Diamanti (2003).
La posizione di Nielsen appare poco soddisfacente in quanto non sembra
prevedere la possibilità di interpretazione da parte di lettori con
competenzializzazioni diverse, previste invece dal concetto teorico di
lettore modello. Tale presenza invece appare evidente in molte
interfacce grafiche che permettono al lettore di agire in modi e a
profondità differenti2,
secondo le conoscenze iniziali del singolo.
Zinna, dopo aver analizzato parte dell’interfaccia Macintosh, sostiene
che l’interfaccia prevede un attore non specialista come propria
controparte, diversamente da quanto avveniva con le interfacce
precedenti, che presupponevano una conoscenza informatica molto più
estesa. Questo è sicuramente vero, ma occorre ribadire che le interfacce
grafiche attuali, pur estremamente semplici rispetto a quelle
antecedenti il progetto Apple, continuino a prevedere una molteplicità
di livelli. Essi variano secondo le conoscenze di chi li utilizza,
promuovendo l’apprendimento dei principianti pur lasciando ampie
possibilità agli utilizzatori più esperti. Le interfacce grafiche
prevedrebbero quindi sin da principio una molteplicità di lettori
empirici, differenziati secondo le loro iniziali conoscenze: dal lettore
principiante a quello esperto, fino a giungere a un ipotetico lettore
modello, capace di comprendere e disambiguare l’interfaccia in tutte le
sue parti. Come nei testi narrativi, le stesse interfacce prevedono
percorsi interni di apprendimento per i lettori, promuovendo la
costruzione della necessaria competenza; il lettore enciclopedicamente
carente è sempre atteso al varco.
La compresenza dei concetti di utente e lettore proposta da Diamanti,
che già inseriva autore e lettore modello all’interno della sua
riflessione sulle interfacce, deriva forse da una lettura troppo
restrittiva dei termini utilizzati, forse dalla necessità di porre basi
chiare quanto evidenti agli studi semiotici sulle interfacce. Lettore e
autore non devono essere intesi in senso strettamente narrativo come
propone Eco, ma devono essere considerati in senso figurato, come già si
è fatto nel campo della sociologia della comunicazione, adattandoli al
testo che ci si trova di fronte senza la necessità di modificare il
termine utilizzato. L’attività di un soggetto nell’atto di usare un
computer non avrebbe quindi bisogno di essere differenziata
analiticamente attraverso due differenti figure, l’una che fornisce dati
e l’altra che li interpreta. All’interno delle conoscenze del lettore
empirico sarebbero incluse anche tutte quelle conoscenze enciclopediche
necessarie per utilizzare l’interfaccia3,
mentre il lettore modello sarebbe la migliore strategia testuale che
questo potrebbe mettere in atto. D’altro canto il mantenimento di una
compresenza terminologica come quella Utente/Lettore ha un indubbio
risvolto positivo. Non bisogna dimenticare come le interfacce
informatiche siano relativamente recenti e di conseguenza come non siano
del tutto chiare ai più le loro caratteristiche ed il loro
funzionamento. Questa compresenza di termini può, in questo contesto,
facilitare il lavoro di ricerca nei differenti campi. Il concetto di
utente resta infatti indispensabile per la scienza dell’usabilità, per
quella informatica e per quella economica, mentre la semiotica ha
bisogno di una figura che interagisca col sistema in maniera dialogica.
Con il tempo questa divisione diverrà sempre più superflua, a mano a
mano che i media che sono alla base delle interfacce saranno considerati
sempre più “trasparenti” all’interno dell’interazione, come ad esempio
oggi la forma libro.
Si dimostra molto più complessa invece l’introduzione dei concetti di
uso ed interpretazione all’interno dell’ambiente della scrittura
digitale e in particolar modo delle interfacce. Nel passaggio dal testo
tradizionale a quello sincretico-digitale avvengono infatti tre processi
ben descritti da Zinna (2004). Una dematerializzazione delle funzioni,
una perdita di parte dell’intentio auctoris e un avvicinamento tra il
mondo degli oggetti e quello dei testi. In particolare, gli ultimi due
processi descritti hanno un notevole peso all’interno di una
ridefinizione dei concetti di uso ed interpretazione applicati a questa
particolare situazione. Originariamente questi concetti prevedrebbero
dei limiti posti dal testo all’interpretazione dei lettori, superando i
quali, non si potrebbe più parlare di interpretazione quanto di “uso”
libero e soggettivo di un testo, di sovrainterpretazione (Eco 1995). Il
lettore empirico non coincide necessariamente con il lettore modello,
che resta un semplice concetto teorico, ma non deve neppure superare i
limiti che il testo gli pone, quelle letture presentate come corrette e
legittime. L’apporto del fruitore è indispensabile per attualizzare un
testo, ma questi non può mettere in atto una qualsiasi interpretazione
senza rischiare di rompere l’interazione, uscendo allora dalla logica
progettata dall’autore modello per il proprio lettore. Innanzitutto, la
diversità rispetto ad un testo di tipo narrativo sembra risiedere in una
differente apertura, o meglio in un differente ventaglio di possibili
aperture. Un testo narrativo può presentare differenti gradi di
apertura, postulando e contribuendo a creare un numero indefinito di
lettori oltre i quali il testo diviene un nuovo testo; al contrario nel
caso di un’interfaccia la struttura logica digitale viene progettata
prevedendo un numero molto minore di lettori rispetto a quella prima
presa in visione. Il lettore è quindi diretto in maniera più rigida
dall’autore modello. Il testo presenta in questi casi un’estrema
ridondanza4
e ciò contribuisce a rendere molti percorsi interpretativi difficili
quando non impossibili, fintantoché il fruitore non decide di
abbandonare la cooperazione testuale. Ulteriore differenza rispetto ad
un testo classicamente inteso è la sanzione che l’uso subisce, quando
non viene reso esplicitamente impossibile tramite una mancata risposta
da parte dell’interfaccia. Le interfacce grafiche sembrano presentarsi
quindi come testi resistenti all’uso se considerate come insieme di
comandi tesi a mettere il fruitore in rapporto all’oggetto d’uso. Minore
sembra essere invece la resistenza all’uso degli ambienti creati dalle
interfacce. Proprio in questo contesto vengono ad avere particolare
importanza le proposte di Zinna di cui sopra. La visione delle
interfacce come ibrido oggetto-scrittura porta infatti la semiotica a
dover creare una doppia categorizzazione del concetto di uso,
rispettivamente riguardante il testo e le caratteristiche
materiali-fisiche dell’oggetto che lo ingloba o ne è inglobato. Sarà
necessario quindi distinguere un uso della parte fisica
dell’interfaccia, che dovrà seguire le indicazioni derivanti dalla
semiotica degli oggetti, in particolare riguardo il concetto di
bricolage (Deni 2002). E’ necessario tenere presente che l’uso si
definisce rispetto all’azione finale compiuta su un testo. Nel caso di
un testo narrativo l’azione è essenzialmente interpretazione cognitiva
(libro come medium trasparente), nel caso di un testo digitale l’azione
è sia cognitiva che pragmatica, quindi anche un fare qualcosa in senso
stretto. Il testo subisce le limitazioni e le finalità dell’oggetto su
cui è presentato. Negli usi pratici l’interpretazione aberrante è
illimitata solo a livello potenziale; passando all’atto esso è limitato
dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto.
D’altro canto l’uso resta possibile all’interno dell’ambiente delle
interfacce apparendo tuttavia quasi sempre cosciente, quando non
esplicitamente richiesto. Questa seconda categoria in cui l’uso potrebbe
essere diviso è di più difficoltosa identificazione in quanto i due
processi in atto, la perdita di intentio auctoris e la chiusura
progressiva dei testi, sembrerebbero divergenti ad un primo sguardo. Si
può notare come la perdita di indicazioni date dall’autore modello sia
solamente una perdita relativa; in un mondo che simula il reale avviene
infatti una perdita di controllo sull’utente necessaria proprio ad
acquisire una maggiore connotazione di verosimiglianza. Alla prova dei
fatti si instaurano semplicemente metodi di controllo più nascosti per
evitare che l’eventuale uso vada a discapito delle funzioni del
programma (la libertà relativa eppure incredibilmente pubblicizzata dei
videogiochi online e negli ipertesti aperti ne è un palese esempio). I
fruitori devono sentirsi liberi di muoversi secondo tracciati non
previsti inizialmente, ma che restano sempre delimitati in una
particolare area delineata rigidamente dall’autore. Si può parlare di un
limite che il testo digitale pone all’uso, rendendo l’uso improprio
sempre più difficoltoso e cercando di promuovere un uso creativo e
tuttavia il più possibile controllato, anche se non prevedibile a
priori.
Si può notare allora come i concetti fondamentali della cooperazione
narrativa possano essere validi anche per le interfacce grafiche intese
come testo sincretico, fornendoci importanti indicazioni sul rapporto
che si sviluppa tra i fruitori e le interfacce stesse. Non bisogna
tuttavia sottovalutare le differenze che sembrano emergere tra i
concetti applicati ai testi narrativi e gli stessi concetti nella nuova
collocazione dei testi digitali. Soprattutto le differenze sembrano
destinate ad ampliarsi per quanto riguarda i limiti dell’autore modello
e le strategie da esso utilizzate con tutte le inevitabili ricadute sul
piano dell’uso del testo stesso. Una simile visione permette però di
porre in secondo piano il concetto di utente medio proposto in ambito
informatico che, a più riprese, è parso non rispondere in maniera
soddisfacente a tutta la casistica di interazioni possibili con
un’interfaccia.
Parlare di interfacce come di un nuovo modello di linguaggio a sé
stante, come ibrido oggetto-scrittura in cui la tecnologia si incontra
con le capacità cognitive umane potrebbe essere la giusta direzione di
ricerca. La codificazione dell’interazione uomo-interfaccia richiederà
ancora molto tempo prima di poter divenire sufficientemente generica da
contenere processi così differenti tra loro e tuttavia sembra destinata
ad essere inquadrata ancora una volta attraverso termini provenienti
dagli studi testuali e narrativi.
Note
-
Con il
termine interfaccia grafica qualifichiamo quel dispositivo dotato di
un sistema di immissione dei comandi tramite
a) un sistema
di visualizzazione; b)
un sistema di puntamento materiale; c)
un puntatore virtuale che compare a
schermo. Ad essi aggiungiamo un ambiente operativo su uno spazio di
rappresentazione, una metafora di ambiente ed un sistema di elementi
grafici ordinati gerarchicamente secondo la relazione
contenente/contenuto.
-
Si pensi, ad
esempio, alla possibilità di modificare le interlinee attraverso
l’utilizzo di icone in Word ed invece la possibilità di
modificarle in maniera più complessa attraverso la giusta selezione
dei menu a tendina.
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Le conoscenze
che Diamanti fa proprie dell’utente (sapere da che parte puntare il
mouse o saper utilizzare il vassoio per cd-rom) non sono
poi differenti da quelle necessarie per leggere un libro (sapere da
che parte iniziare a leggerlo, sapere come tenerlo in mano) e sono
parte indispensabile di una conoscenza sociale, enciclopedica che fa
parte del bagaglio di un qualsiasi lettore. Tale conoscenza che fino
a qualche anno fa neppure esisteva sembra sempre più estesa e
codificata col passare degli anni, specialmente nei nati dopo gli
anni ottanta/novanta, che sono cresciuti all’interno di un ambiente
in cui le interfacce grafiche sono forse uno degli artefatti più
comuni.
-
Ricordiamo
come parte di questa ridondanza tutti i modi informativi che
costituiscono la guida in linea, la ripetizione estrema
del medesimo modello in differenti tipi di interfacce, il feedback
estremo nei confronti dell’utente così come l’integrità estetica di
tutte le componenti dell’interfaccia.
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