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L’interfaccia come testo sincretico

di Simone Morgagni

 
 

Questa analisi si pone come obiettivo la dimostrazione di come una generica interfaccia grafica possa essere vista nella doppia ottica di ambiente di interazione (Diamanti 2003) e testo sincretico, applicando ad essa tutte le principali caratteristiche del rapporto tra autore e lettore modello (Eco 1979) che gestiscono la cooperazione interpretativa nei testi narrativi. Per ragioni di semplicità, con il termine interfaccia si intenderà sempre l’interfaccia grafica1  del sistema operativo di un personal computer desktop o laptop poiché esse sono le interfacce grafiche informatizzate meno direzionate e più generalizzabili per quanto riguarda l’uso.
Le interfacce devono, infatti, essere considerate in tutta la complessa rete di rapporti necessaria alla loro esistenza, sia in rapporto alle altre interfacce, che ne permettono il funzionamento ed il collegamento con il loro oggetto di mediazione, sia all’interno della relazione che costituiscono con l’essere umano. Tra i primi modelli di interfaccia elaborati, ricordiamo i due che ebbero maggior successo: il “paradigma comunicativo” e il “paradigma della costruzione di modelli”. Il primo considera l’interfaccia come un adattatore capace di mettere in comunicazione due universi di significato, due mondi dotati di leggi proprie altrimenti incompatibili. Il secondo invece presenta già una situazione più complessa, all’interno della quale l’utente elabora un modello mentale che aderisce il più possibile al funzionamento dell’apparecchio, cercando di ricostruire quindi il modello ideato dal progettista. Se il modello elaborato coincide o è assimilabile al funzionamento dell’apparecchio allora l’interazione è soddisfacente, in caso contrario occorreranno difficoltà nel corso del rapporto fino alla stessa impossibilità di interagire. Proporre il concetto di interfaccia come ambiente (Diamanti 2003) è già un notevole passo avanti poiché esaminando l’interfaccia dal punto di vista del fruitore si può notare come venga creato un mondo, un universo simulato, all’interno del quale avviene l’interazione tra il sistema e l’utilizzatore. Si creano quindi, oltre a quelli espliciti, più spazi scollegati dal sistema reale. Due i principali: la manifestazione effettiva in termini di stato dell’oggetto, detta spazio architettonico, e lo spazio semantico (Kaplan, Moulthorp 1994) come dominio della possibilità, in altre parole come potenzialità di tutti gli stati che l’interfaccia poteva assumere, ma in cui non si è realizzata a seguito della presenza di quel determinato spazio architettonico. La mediazione, il rapporto tra questi spazi costituisce dunque ciò che sta intorno all’interazione e che contribuisce a definirla e delimitarla. Quindi, conclude Diamanti, l’interfaccia è l’ambiente dell’interazione, non in quanto oggetto tangibile, ma come complesso di leggi che la regolano, come insieme di regole sintattiche e unità semantiche secondo cui l’utilizzatore persegue i suoi scopi, facendo allo stesso tempo emergere l’interfaccia.
Potrebbe essere utile a questo punto considerare gli elementi necessari per definire un testo sincretico, elementi che Greimas e Courtés (1986, voce Syncrétiques, sémiotiques) vedevano nella compresenza all’interno della stessa istanza di enunciazione di “una pluralità di linguaggi di manifestazione” ovvero di più sistemi semiotici differenti tra loro. Questa definizione potrebbe essere rielaborata definendo un testo sincretico come un testo capace di organizzare linguaggi eterogenei all’interno di una strategia di comunicazione unitaria, dotata di caratteristiche di coesione e coerenza che rimandano alla medesima istanza di enunciazione (Cosenza 2004). Un’interfaccia utente può quindi facilmente essere identificata come testo sincretico, all’interno del quale tutte le componenti, partendo da quelle grafiche sino a quelle fisico-materiali, contribuiscono all’organizzazione di una medesima istanza di enunciazione che consiste nel mettere la macchina in rapporto con il fruitore.
Si potrebbe allora pensare l’interfaccia come un dispositivo di mediazione che riorganizza la realtà in cui è inserito tramite un processo assimilabile allo schema narrativo canonico, considerando l’azione un’enunciazione in atto. Mattozzi (2003) analizza l’interazione con una biglietteria automatica delle Fs, ma il suo accenno di analisi narrativa sembra difficilmente generalizzabile al di là dell’esplicazione delle singole fasi del processo interattivo. Nel caso specifico ogni schermata che si presenta davanti all’utente si caratterizza come destinante, manipolatrice rispetto al compito richiesto e sanzionatrice nel momento in cui, realizzata la performanza, avviene il cambio di schermata. All’interno di questa visione, sia la competenza sia la performanza spettano all’utilizzatore, in parte attraverso movimenti logici, in parte attraverso interventi fisici reali (selezione e tocco del supporto hardware).
Potrebbe tuttavia risultare più semplice considerare l’interfaccia come testo sincretico secondo i canoni della semiotica interpretativa, inserendo all’interno del modello le figure degli autori e lettori empirici e modello, il concetto di apertura o chiusura del testo e il limite di demarcazione tra uso e interpretazione. È necessario chiarire fin dal principio come le interfacce siano un testo complesso, composto di sistemi semiotici differenti e, di conseguenza, come l’utilizzo di termini quali lettore e autore debba essere figurato, come d’altronde è uso fare quando ci si riferisce a testi come quelli televisivi o radiofonici.
Il lettore modello di un’interfaccia grafica è un ipotetico lettore ideale in grado di leggere il testo secondo le esatte aspettative dell’autore, è il lettore per il quale il testo è stato creato. Ad esso si contrappone l’autore modello come strategia testuale, come voce inscritta responsabile di guidare il lettore nel processo cooperativo che deve portare alla corretta interpretazione del testo. Non ci si deve fermare a considerare il lettore come utente medio, come prevede ad esempio la teoria di Nielsen (2000), né a considerare il lettore solamente come “acteur non spécialiste”, come fa Zinna (2002), e neppure alla compresenza di utente e lettore proposta da Diamanti (2003).
La posizione di Nielsen appare poco soddisfacente in quanto non sembra prevedere la possibilità di interpretazione da parte di lettori con competenzializzazioni diverse, previste invece dal concetto teorico di lettore modello. Tale presenza invece appare evidente in molte interfacce grafiche che permettono al lettore di agire in modi e a profondità differenti
2, secondo le conoscenze iniziali del singolo.
Zinna, dopo aver analizzato parte dell’interfaccia Macintosh, sostiene che l’interfaccia prevede un attore non specialista come propria controparte, diversamente da quanto avveniva con le interfacce precedenti, che presupponevano una conoscenza informatica molto più estesa. Questo è sicuramente vero, ma occorre ribadire che le interfacce grafiche attuali, pur estremamente semplici rispetto a quelle antecedenti il progetto Apple, continuino a prevedere una molteplicità di livelli. Essi variano secondo le conoscenze di chi li utilizza, promuovendo l’apprendimento dei principianti pur lasciando ampie possibilità agli utilizzatori più esperti. Le interfacce grafiche prevedrebbero quindi sin da principio una molteplicità di lettori empirici, differenziati secondo le loro iniziali conoscenze: dal lettore principiante a quello esperto, fino a giungere a un ipotetico lettore modello, capace di comprendere e disambiguare l’interfaccia in tutte le sue parti. Come nei testi narrativi, le stesse interfacce prevedono percorsi interni di apprendimento per i lettori, promuovendo la costruzione della necessaria competenza; il lettore enciclopedicamente carente è sempre atteso al varco.
La compresenza dei concetti di utente e lettore proposta da Diamanti, che già inseriva autore e lettore modello all’interno della sua riflessione sulle interfacce, deriva forse da una lettura troppo restrittiva dei termini utilizzati, forse dalla necessità di porre basi chiare quanto evidenti agli studi semiotici sulle interfacce. Lettore e autore non devono essere intesi in senso strettamente narrativo come propone Eco, ma devono essere considerati in senso figurato, come già si è fatto nel campo della sociologia della comunicazione, adattandoli al testo che ci si trova di fronte senza la necessità di modificare il termine utilizzato. L’attività di un soggetto nell’atto di usare un computer non avrebbe quindi bisogno di essere differenziata analiticamente attraverso due differenti figure, l’una che fornisce dati e l’altra che li interpreta. All’interno delle conoscenze del lettore empirico sarebbero incluse anche tutte quelle conoscenze enciclopediche necessarie per utilizzare l’interfaccia
3, mentre il lettore modello sarebbe la migliore strategia testuale che questo potrebbe mettere in atto. D’altro canto il mantenimento di una compresenza terminologica come quella Utente/Lettore ha un indubbio risvolto positivo. Non bisogna dimenticare come le interfacce informatiche siano relativamente recenti e di conseguenza come non siano del tutto chiare ai più le loro caratteristiche ed il loro funzionamento. Questa compresenza di termini può, in questo contesto, facilitare il lavoro di ricerca nei differenti campi. Il concetto di utente resta infatti indispensabile per la scienza dell’usabilità, per quella informatica e per quella economica, mentre la semiotica ha bisogno di una figura che interagisca col sistema in maniera dialogica. Con il tempo questa divisione diverrà sempre più superflua, a mano a mano che i media che sono alla base delle interfacce saranno considerati sempre più “trasparenti” all’interno dell’interazione, come ad esempio oggi la forma libro.
Si dimostra molto più complessa invece l’introduzione dei concetti di uso ed interpretazione all’interno dell’ambiente della scrittura digitale e in particolar modo delle interfacce. Nel passaggio dal testo tradizionale a quello sincretico-digitale avvengono infatti tre processi ben descritti da Zinna (2004). Una dematerializzazione delle funzioni, una perdita di parte dell’intentio auctoris e un avvicinamento tra il mondo degli oggetti e quello dei testi. In particolare, gli ultimi due processi descritti hanno un notevole peso all’interno di una ridefinizione dei concetti di uso ed interpretazione applicati a questa particolare situazione. Originariamente questi concetti prevedrebbero dei limiti posti dal testo all’interpretazione dei lettori, superando i quali, non si potrebbe più parlare di interpretazione quanto di “uso” libero e soggettivo di un testo, di sovrainterpretazione (Eco 1995). Il lettore empirico non coincide necessariamente con il lettore modello, che resta un semplice concetto teorico, ma non deve neppure superare i limiti che il testo gli pone, quelle letture presentate come corrette e legittime. L’apporto del fruitore è indispensabile per attualizzare un testo, ma questi non può mettere in atto una qualsiasi interpretazione senza rischiare di rompere l’interazione, uscendo allora dalla logica progettata dall’autore modello per il proprio lettore. Innanzitutto, la diversità rispetto ad un testo di tipo narrativo sembra risiedere in una differente apertura, o meglio in un differente ventaglio di possibili aperture. Un testo narrativo può presentare differenti gradi di apertura, postulando e contribuendo a creare un numero indefinito di lettori oltre i quali il testo diviene un nuovo testo; al contrario nel caso di un’interfaccia la struttura logica digitale viene progettata prevedendo un numero molto minore di lettori rispetto a quella prima presa in visione. Il lettore è quindi diretto in maniera più rigida dall’autore modello. Il testo presenta in questi casi un’estrema ridondanza
4 e ciò contribuisce a rendere molti percorsi interpretativi difficili quando non impossibili, fintantoché il fruitore non decide di abbandonare la cooperazione testuale. Ulteriore differenza rispetto ad un testo classicamente inteso è la sanzione che l’uso subisce, quando non viene reso esplicitamente impossibile tramite una mancata risposta da parte dell’interfaccia. Le interfacce grafiche sembrano presentarsi quindi come testi resistenti all’uso se considerate come insieme di comandi tesi a mettere il fruitore in rapporto all’oggetto d’uso. Minore sembra essere invece la resistenza all’uso degli ambienti creati dalle interfacce. Proprio in questo contesto vengono ad avere particolare importanza le proposte di Zinna di cui sopra. La visione delle interfacce come ibrido oggetto-scrittura porta infatti la semiotica a dover creare una doppia categorizzazione del concetto di uso, rispettivamente riguardante il testo e le caratteristiche materiali-fisiche dell’oggetto che lo ingloba o ne è inglobato. Sarà necessario quindi distinguere un uso della parte fisica dell’interfaccia, che dovrà seguire le indicazioni derivanti dalla semiotica degli oggetti, in particolare riguardo il concetto di bricolage (Deni 2002). E’ necessario tenere presente che l’uso si definisce rispetto all’azione finale compiuta su un testo. Nel caso di un testo narrativo l’azione è essenzialmente interpretazione cognitiva (libro come medium trasparente), nel caso di un testo digitale l’azione è sia cognitiva che pragmatica, quindi anche un fare qualcosa in senso stretto. Il testo subisce le limitazioni e le finalità dell’oggetto su cui è presentato. Negli usi pratici l’interpretazione aberrante è illimitata solo a livello potenziale; passando all’atto esso è limitato dalle caratteristiche fisiche dell’oggetto.
D’altro canto l’uso resta possibile all’interno dell’ambiente delle interfacce apparendo tuttavia quasi sempre cosciente, quando non esplicitamente richiesto. Questa seconda categoria in cui l’uso potrebbe essere diviso è di più difficoltosa identificazione in quanto i due processi in atto, la perdita di intentio auctoris e la chiusura progressiva dei testi, sembrerebbero divergenti ad un primo sguardo. Si può notare come la perdita di indicazioni date dall’autore modello sia solamente una perdita relativa; in un mondo che simula il reale avviene infatti una perdita di controllo sull’utente necessaria proprio ad acquisire una maggiore connotazione di verosimiglianza. Alla prova dei fatti si instaurano semplicemente metodi di controllo più nascosti per evitare che l’eventuale uso vada a discapito delle funzioni del programma (la libertà relativa eppure incredibilmente pubblicizzata dei videogiochi online e negli ipertesti aperti ne è un palese esempio). I fruitori devono sentirsi liberi di muoversi secondo tracciati non previsti inizialmente, ma che restano sempre delimitati in una particolare area delineata rigidamente dall’autore. Si può parlare di un limite che il testo digitale pone all’uso, rendendo l’uso improprio sempre più difficoltoso e cercando di promuovere un uso creativo e tuttavia il più possibile controllato, anche se non prevedibile a priori.
Si può notare allora come i concetti fondamentali della cooperazione narrativa possano essere validi anche per le interfacce grafiche intese come testo sincretico, fornendoci importanti indicazioni sul rapporto che si sviluppa tra i fruitori e le interfacce stesse. Non bisogna tuttavia sottovalutare le differenze che sembrano emergere tra i concetti applicati ai testi narrativi e gli stessi concetti nella nuova collocazione dei testi digitali. Soprattutto le differenze sembrano destinate ad ampliarsi per quanto riguarda i limiti dell’autore modello e le strategie da esso utilizzate con tutte le inevitabili ricadute sul piano dell’uso del testo stesso. Una simile visione permette però di porre in secondo piano il concetto di utente medio proposto in ambito informatico che, a più riprese, è parso non rispondere in maniera soddisfacente a tutta la casistica di interazioni possibili con un’interfaccia.
Parlare di interfacce come di un nuovo modello di linguaggio a sé stante, come ibrido oggetto-scrittura in cui la tecnologia si incontra con le capacità cognitive umane potrebbe essere la giusta direzione di ricerca. La codificazione dell’interazione uomo-interfaccia richiederà ancora molto tempo prima di poter divenire sufficientemente generica da contenere processi così differenti tra loro e tuttavia sembra destinata ad essere inquadrata ancora una volta attraverso termini provenienti dagli studi testuali e narrativi.

 

Note

  1. Con il termine interfaccia grafica qualifichiamo quel dispositivo dotato di un sistema di immissione dei comandi tramite a) un sistema di visualizzazione; b) un sistema di puntamento materiale; c) un puntatore virtuale che compare a schermo. Ad essi aggiungiamo un ambiente operativo su uno spazio di rappresentazione, una metafora di ambiente ed un sistema di elementi grafici ordinati gerarchicamente secondo la relazione contenente/contenuto.

  2. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di modificare le interlinee attraverso l’utilizzo di icone in Word ed invece la possibilità di modificarle in maniera più complessa attraverso la giusta selezione dei menu a tendina.

  3. Le conoscenze che Diamanti fa proprie dell’utente (sapere da che parte puntare il mouse o saper utilizzare il vassoio per cd-rom) non sono poi differenti da quelle necessarie per leggere un libro (sapere da che parte iniziare a leggerlo, sapere come tenerlo in mano) e sono parte indispensabile di una conoscenza sociale, enciclopedica che fa parte del bagaglio di un qualsiasi lettore. Tale conoscenza che fino a qualche anno fa neppure esisteva sembra sempre più estesa e codificata col passare degli anni, specialmente nei nati dopo gli anni ottanta/novanta, che sono cresciuti all’interno di un ambiente in cui le interfacce grafiche sono forse uno degli artefatti più comuni.

  4. Ricordiamo come parte di questa ridondanza tutti i modi informativi che costituiscono la guida in linea, la ripetizione estrema del medesimo modello in differenti tipi di interfacce, il feedback estremo nei confronti dell’utente così come l’integrità estetica di tutte le componenti dell’interfaccia.

Bibliografia

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 28/02/05

 

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