agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti

 
 
 
 

 “Voglio che ti ridano gli occhi!”

di Ghismunda

 
 

A volte ho l’impressione che non sia corretto quello che sto facendo. Mi sembra di frugare in luoghi umbratili e riservati fatti per restare chiusi, al riparo da sguardi indiscreti. Mi sembra, presenza estranea e curiosa la mia, di violare segreti ed intimità che forse anelano a rimanere tali. Anche quando c’è il consenso alla pubblicazione da parte degli interessati o degli eredi, mi coglie sempre come un senso di pudore a leggere lettere d’amore. Quasi un senso di colpa, come un bambino sorpreso a spiare tra le cose della mamma. Però le leggo lo stesso, attirata dal richiamo irresistibile e raro di sentimenti intensi e passioni profonde.
Di vite vissute, vite vere.

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Lui la vedeva così: “giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti. Occhi verdi, lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s’intorbidano come acqua di lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un’alba lunare; ora, nella tristezza, hanno l’opacità dolente della turchese. La bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita le desse una sdegnosa amarezza; ma se ride, ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e avvivi ogni cosa”. Avvivi, ossia renda vita. Come a lui, che aveva il doppio dei suoi anni.
Dal 1925 al 1936 Pirandello scrisse a Marta Abba, l’attrice interprete di tutte le sue ultime commedie, scritte appositamente per lei, 560 lettere. Lei rispose 238 volte. Le lettere di lui rivelano un amore disperato e unico “Tutta la mia vita sei tu”, “Senza di te, Marta mia, sento che muoio”. Lei rispondeva, con garbo, gentilezza, ma senza corrispondere alla passione. Lo chiamava Maestro e gli dava del lei. Lui insisteva. Come osserva Pietro Citati nell’introduzione del Meridiano Mondadori che raccoglie tutte le lettere, “Pirandello scrive come chi ama in toto; fino agli ultimissimi giorni chiese insistentemente all'amata di fargli sapere tutto di lei, per poterla seguire in ogni momento della sua vita, per "vederla" con il vivo sguardo della fantasia in tutti gli atteggiamenti, compresi i più intimi; e non cessò mai d'implorare da lei un segnale anche minimo di contraccambio, come spesso esigono gli amanti sull'orlo della disperazione. Solo un innamoramento totalizzante può spiegare l'ossessivo conteggio dei giorni e delle ore che la posta impiegava nel recapitargli le lettere morbosamente attese e invocate, sebbene gli fosse da tempo ben chiaro che le tanto desiderate parole di assenso non avrebbero mai sostituito le distaccate espressioni di affetto rispettoso”.

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Ma le cose stavano veramente così? Lui ardente, lei restia? Che cosa svela di più la verità? La vita o l’opera d’arte, che spesso ne è il necessario riflesso? Un superbo Giorgio Albertazzi ha riportato sulle scene un testo di Pirandello che mancava dal 1933:
“Quando si è qualcuno”. Ho visto lo spettacolo domenica pomeriggio. Ne sono uscita entusiasta e commossa. Ma con Pirandello mi accade quasi sempre.
C’è rappresentata, come in tante altre sue commedie, l’intuizione più vera della contemporaneità. Siamo tutti maschere e marionette di quella gran pupazzata che è la vita. Nessuno di noi è persona, cioè un qualcosa di integro, di unitario, di armonico. Ma personaggio. Recitiamo, nella vita di tutti i giorni, un ruolo che quasi mai ci siamo scelti, ma che la vita, la società, le convenzioni, gli altri, ci hanno imposto. Siamo prigionieri di quello che gli altri vogliono che siamo, delle maschere che ci fanno indossare, del modo, falso o comunque parziale, con cui ci vedono. Lungi dall’essere uno, finiamo coll’essere nessuno perché centomila, tanti quanti quelli che ci conoscono. Liberarsi dalla prigione è impossibile. Rompere gli schemi, uscire dalle righe, per respirare un po’ d’aria pura e di vita vera, è considerato follia. Ma follia è proprio la normalità, l’irrigidimento, l’immobilismo. C’è chi non si guarda mai vivere. Vive e basta, inconsapevole della sua cieca obbedienza agli ingranaggi del meccanismo sociale. Idiota, forse, ma beato nella sua incoscienza. Capita invece che qualcuno si guardi dall’esterno, si veda vivere, butti la maschera, si scopra nudo. E triste e solo. E inutile, in una vita priva di senso. Prigioniero di sé e del suo simulacro.

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E’ quello che capita a Qualcuno, lo scrittore affermato, l’Eccellenza, il Maestro che tutti, moglie, figli, editore, lettori, vogliono cristallizzare nell’immagine celebrativa e conveniente che si sono fatti di lui. Lui, però, quando ormai non ci pensava più, rassegnato ad essere spento, come morto in quella forma che imprigiona e soffoca la vita che scorre, scopre di essere ancora vivo grazie all’amore. Un amore all’apparenza sconveniente, impossibile, per una donna molto più giovane, bella, esuberante. Che lo ama, che vuole fargli ridere gli occhi e riportarlo in vita. “Un attimo ti bastò – frugarmi appena negli occhi – per scoprirmi vivo, di’ se non è vero! E se potesti svegliarmeli, è segno ch’erano in me – vivi, vivi – pensieri, sentimenti che cominciai, qua, subito, a esprimere nuovi, come in un sogno a cui non dovessi credere, se tu non ci credevi – ci hai creduto – e ora sono, sono la mia vita!”
 

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La vita, però, non quella vera, che lui riscopre in sé, ma quella voluta dagli altri per lui, se lo riporta via, lo allontana dal sogno. E lui rinuncia, incapace di svincolarsi dalle apparenze, di vivere fino in fondo l’ossimoro di tutti gli ossimori, quello tra la vecchiaia del corpo e la giovinezza dell’anima. Forse, chissà, il vero motivo dell’amore, insieme “casto” e passionale, di Pirandello per Marta Abba.
“Tu mi volevi ancora vivo, come te… Ed eri pronta a tutto… E ora mi rinfacci il male che non t’ho fatto… Ma io non dovevo fartelo, perché non ero più vivo come te, io, viva giovinezza mia fuori di me, del mio spirito e nel tuo corpo; non nel mio, non nel mio ch’era già vecchio… Tu non l’hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio, per te giovine. E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai: uno specchio – scoprircisi d’improvviso – e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più – e la vergogna dentro, la vergogna allora, come d’una oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto di vecchio, il cuore ancora giovine e caldo”.

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Pirandello è così: talmente abile a descrivere e rappresentare l’inesorabilità dei legami sociali ed il peso delle costrizioni, che ti fa desiderare ardentemente il contrario e ti scopri ad immaginare finali diversi alle sue storie, alla sua storia.
Ti fa desiderare la trasgressione, la libertà.
Il dire sì, a qualunque età. Alla vita. All’amore.
Alla follia.

La voce di Ghismunda, 23 Febbraio 2005


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 28/02/05

 

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