agli  incroci  dei  venti:  stefano  gattelli

 
 
 

 

Una pittura teologica e realista

di Rocco Ronchi

 
 

Se la pittura di Stefano Gattelli può essere definita “teologica”, questo non si deve a ragioni superficiali. Non è infatti teologica quanto alla qualità della rappresentazione. Le sue immagini non hanno niente di sacro.
Sono anzi deliberatamente ingenue, quasi banali.
Il richiamo alla veneranda arte dell’icona ha un senso soltanto se si prescinde dal contenuto e si prende invece in considerazione esclusivamente l’operazione. Anche in questo caso bisogna però procedere cautamente. Non è infatti questione di artigianato dei colori, di occulti procedimenti tramandati dalla tradizione o di mestiere.
Stefano Gattelli possiede senz’altro una notevole competenza tecnica, un’ottima mano, così come dispone di una sicura conoscenza della storia dell’arte. Tuttavia l’operazione che sottende l’arte dell’icona non è empirica, non è tecnica e non è filologica. È un’operazione di natura squisita-mente epistemologica.
Il problema speculativo che l’icona deve sempre di nuovo risolvere è infatti un problema proiettivo. Sul piano speculativo si tratta della proiezione dell’infinito nel pensiero e nel linguaggio. Come comunicare un Assoluto che, per non scadere ad idolo, deve, nella comuni-cazione, restare paradossalmente irrelato? Sul piano figurativo, che è quello che interessa esclusivamente a Gattelli, questo problema comunicativo diventa il problema della proiezione dell’infinito nel piano. In quanto problema “proiettivo” questo problema non è dissimile da quello affrontato dalla tradizionale pittura prospettica. La differenza sostanziale è data dal fatto che nel caso dell’icona non è uno spazio a tre dimensioni che deve essere reso in una superficie piana, ma si tratta di uno spazio a n dimensioni, vale a dire uno spazio di dimensioni infinite.
Tutte le speculazioni mistiche convengono nell’attribuire al loro innominabile oggetto lo statuto paradossale dell’infinito. Non è quel genere di infinito che si risolve in una progressione inesauribile, come l’infinito della serie dei numeri naturali, ma è l’infinito completamente in atto, tale che, per citare una dotta espressione filosofica, non si può concepire niente di più grande. Per il mistico questo infinito completamente in atto non è nemmeno un predicato del divino, ma è il divino stesso, la sua sovraessenzialità. Va anche osservato come tale infinito sia avvertito dal mistico di ogni epoca e di ogni religione come il solo essere veramente “reale”. Ad essere inconsistente e illusorio è invece quanto si manifesta ai sensi, vale a dire ciò che normalmente è sussunto in pittura sotto la sigla del “naturalismo”. Ponendosi il problema della resa di questo infinito sul piano il pittore di icone si impegna perciò nella via del più rigoroso realismo, lasciando da parte ogni illusionismo naturalistico.
Per trovare il punto d’unione sulla tela tra l’infinito e il piano il pittore deve imparare a fare qualcosa che nella cosiddetta “natura sensibile” sembra assente o che, se è presente, è indice di degenerazione. Nel nostro giardino, si dice, non vi sono due fili d’erba uguali: tutto è novità e creazione, sempre. Altrimenti è entropia. E a questo giardino capace di rinnovarsi instancabilmente s’ispira anche la nostra comprensione media del fatto artistico. L’artista non è forse battezzato creatore? L’arte non è forse creatività? L’originalità non è forse il sigillo di un’espressione riuscita? La pittura di icone implica invece la difficile arte della ripetizione. In un certo senso non ha torto chi si annoia con loro.
Nella pittura di Gattelli la ripetizione iconica è la legge compositiva strutturale del quadro. Saranno riflessi celesti, rispecchiamenti acquati-ci, raddoppiamenti misteriosi, simmetrie abboz-zate nei cieli o echi, comunque ogni elemento, nel quadro di Gattelli, immancabil-mente si ripete e si sdoppia, procedendo con geometrica scissiparità. Il giardino di Gattelli è un tappeto persiano. La sua apparente arrtificialità è però indice per il mistico della sua realtà profonda. Henri Corbin, il filosofo che meglio ha raccontato agli occidentali i segreti dell’arte iranica e islamica, chiamava questa realtà “mundus imaginalis”, spiegando che con quell’aggettivo non si intendevano i liberi giochi della fantasia ma la rivelazione della struttura del reale sottesa alla sua apparenza.
Nel tappeto le figure sono raffigurazioni solo in superficie. Esse tendono all’astrazione del moti-vo ornamentale o della cifra (come nel secondo Capogrossi, in Klee e in Mondrian), perdendo nella composizione ogni semanticità. Fin troppo palese è in Stefano Gattelli l’aspirazio-ne ad una pittura che non raffiguri più ma che si risolva, attraverso la composizione, in una specie di scrittura matematica. L’opzione per la ripetizione discende, nella pittura di icone, da una legge proiettiva generale.un semplice esempio geometrico può aiutare a compren-dere questa necessità. Si può proiettare un triangolo (spazio a due dimensioni) su di una retta (spazio ad una dimensione). Ne risulterà una figura in cui un punto, rappresentante il vertice, è ripetuto due volte: il triangolo ABC diventa, una volta proiettato sulla linea, il segmento BACB. Ogniqualvolta uno spazio di n dimensioni viene proiettato in uno spazio di n-1 dimensioni, la ripetizione è obbligatoria.
Se il valore di n è uguale ad infinito, la ripetizio-ne necessaria per la sua proiezione sul piano diventa infinita, nel senso dell’illimitatamente enumerabile. È quanto ci lascia senza fiato di fronte alle “decorazioni” delle moschee islamiche che vanno correttamente intese come esegesi figurale di un Assoluto infinito radicalmente trascendente.
Nessun horror vacui guida perciò la mano del pittore. Non si tratta di riempire ossessivamente una superficie per far tacere una qualche esistenziale angoscia. Il tappeto, con le sue precise decorazioni, viene ordito restando disci-plinatamente in ascolto di una voce silenziosa. Fuor di metafora è l’incolmabile distanza dell’Assoluto (del vero reale) che si comunica nel piano attraverso l’umile pratica della ripetizione.
Nelle sue conversazioni, sempre interessanti e sempre istruttive, Stefano Gattelli ama distinguere il vuoto dal niente, rivendicando per la sua pittura una frequentazione assidua del vuoto. Le sue opere confermano la bontà di questa autointerpretazione. In quanto pittore teologico e realista egli sperimenta nella pittura e come pittura la distanza costitutiva e insuperabile del reale. Ma questa distanza, per il pittore di icone, non è il niente, non è il deserto del reale. Il vacuum è piuttosto la specifica modalità nella quale il reale (o Dio) preme sul pittore, chiedendo di essere proiettato sulla superficie di una tela. Il vuoto attrae e chiama alla ripetizione infinita del nome impronunciabile.

 
 
 
 

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