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 Dante, un poeta con la vocazione del detective
 

di Marco Sangiorgi

 
 

Il romanzo poliziesco italiano a partire dagli inizi degli anni Novanta ha conosciuto una nuova stagione di vitalità facendosi interprete dei cambiamenti in atto nella società, registrati sul filo di una cronaca troppo spesso percepibile come cronaca nera. Con buona intuizione, il giallo ha voluto farsi romanzo sociale, osservatorio analitico di una realtà politica, sociale ed economica in veloce mutazione, esposta alle contraddizioni e alle urgenze di quella percezione del mondo che oggi chiamiamo globalizzazione. Un pubblico di lettori sempre più frastornato e insicuro ha accolto con favore la novità di un genere letterario tradizionalmente d’intrattenimento, che si proponeva di interrogare l’attualità per meglio comprenderla, scavando nel torbido e mantenendo invariata la propria peculiarità narrativa. Utilizzando proprio i canoni della suspence e dell’indagine, rispettando i dettami di una prosa funzionale e di immediata fruibilità, si è ottenuta una produzione letteraria «popolare» e commerciale, capace di raccontare una storia criminale inserita in un determinato momento storico (presente o passato)[ 1 ]. E’ questa anche la ragione di fondo che può spiegare la rinnovata fortuna del romanzo giallo di ricostruzione storica, ambientato in epoche passate, ma ugualmente specchio dell’oggi. La Roma del primo secolo avanti Cristo tratteggiata con scrupolo storiografico da Danila Comastri Montanari può farci riflettere sulla corruzione presente in una società, anche se lontana da noi, almeno quanto l’Italia repubblichina del primo Lucarelli. Comunque sia, la caratteristica principale di questo genere è l’accurato lavoro di ricerca e documentazione storica che lo scrittore deve predisporre in partenza, come necessaria preparazione allo svolgimento della trama narrativa, per accreditarvi maggiore realismo. Importante è però avere chiaro lo scopo narrativo e di contenuto dell’operazione letteraria che si sta realizzando, altrimenti si rischia di ottenere soltanto puntuali e particolareggiati teatrini rifatti, case di bambola vittoriane, musei delle cere. Nel grande romanzo storico non di genere, è la qualità e densità della scrittura, oltre al disegno generale, a dare senso e potenza alla ricostruzione. Esempi insuperabili rimangono Io, Claudio di Robert Graves o le Memorie di Adriano di Margherite Yourcenar, così come Il nome della rosa di Umberto Eco potremmo considerarlo un passaggio che collega queste opere con i romanzi di genere (e infatti il long seller di Eco è insieme poliziesco medievale ed esemplare affresco storico).


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Il discorso cambia notevolmente invece se prendiamo in esame alcuni derivati (o sottogeneri) del “giallo storico”, come ad esempio il cosiddetto “giallo letterario”
[ 2 ], che sta ottenendo oggi una certa fortuna di pubblico, destinata probabilmente ad aumentare. E’ in un certo senso, questa, una rivincita della componente d’artificio e d’intrattenimento del romanzo poliziesco com’era in origine, anche se ora riproposta con caratteristiche di maggiore elaborazione per ottenere un prodotto raffinato e “colto”, a suo modo elitario. Il “giallo letterario”, infatti, mantiene i presupposti di tipo storiografico del genere da cui deriva, cioè deve comunque basarsi su una informata e puntigliosa ricostruzione documentaria e deve far uso di precise e accertabili note di costume. La differenza si rileva sulla definizione dell’intera situazione narrativa, che pone al centro non un personaggio d’invenzione anche se plausibile (come lo erano Renzo e Lucia per Manzoni, personaggi inventati ma corrispondenti al criterio di verosimiglianza), ma una figura veramente esistita, appartenente al mondo della cultura in senso lato, come Leonardo Da Vinci o Dante Alighieri. Inevitabilmente, la popolarità del personaggio finisce per calamitare a sé l’attenzione del lettore, ponendo in secondo piano ogni altra questione, persino l’elaborata struttura concettuale che è ritenuta necessaria dagli autori per sostenere l’intreccio. Nel caso dei romanzi incentrati sulla figura di Dante, gli autori che hanno scelto questa soluzione rispolverano dispute teoriche e teologiche del suo tempo, accennano a tematiche storiche cariche di fascinazione e in qualche maniera pertinenti (come ad esempio la vicenda dei Templari), in modo da offrire al lettore mediamente colto l’impressione di condividere un raffinato gioco letterario, un pastiche che può essere apprezzato soltanto da chi possiede i necessari prerequisiti culturali. Uno studioso, Francesco Longo, ha rilevato come questi romanzi che sembrano offrire una specie di «intrattenimento colto», in realtà «semplificano, livellano, spianano ogni difficoltà al lettore pur lasciando credere che stia leggendo un testo impegnativo»; in definitiva, fanno uso «dell’erudizione come un lubrificante per l’ingranaggio narrativo» (F. Longo, Classici del crimine, «La Rivista dei Libri», lug.-ago. 2004).
Il fenomeno non è solo nazionale, anzi in Italia è in qualche modo influenzato e veicolato dall’enorme successo che ha ottenuto in America Il codice Da Vinci di Dan Brown, un romanzone da più di un anno in vetta alle classifiche del «New York Times», solo recentemente soppiantato da altri due best seller sullo stesso tono: il thriller di carattere religioso ispirato all’Apocalisse, Gloriosa apparizione di Tim Lahay e Jerry Jenkins, e un polpettone erudito, Il codice dei quattro di Ian Caldwell e Dustin Thomason, che si rifà addirittura ad un’opera sacra dei bibliofili, quell’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, di autore anonimo e misterioso (probabilmente Francesco Colonna)
[ 3 ]. Sulla qualità di queste opere non siamo in grado di pronunciarci, ma il Codice Da Vinci confezionato da Brown, prontamente tradotto (Milano, Mondadori, 2003), è risultato anche da noi uno dei libri più venduti e apprezzati della passata stagione; Gabriele Romagnoli, recensendolo, ammetteva: «E’ prevedibile come un elenco del telefono e profondo come una mappa stradale. Eppur si legge. E l’ho letto tutto. Alla fine, ero pure contento» [ 4 ].
Il vero protagonista del “giallo letterario” (alcuni lo hanno battezzato anche filone giallo fantastorico-esoterico) in Italia in questo periodo, comunque, è uno solo: il nostro massimo poeta, reinventato personaggio e protagonista di storie a sfondo poliziesco, ovviamente ambientate nel Trecento (del resto il primo a volersi personaggio letterario era stato proprio lui, viaggiatore ultraterreno nella sua Commedia) oppure figura di riferimento di altrettante complicate vicende romanzesche. Ma è bene seguire un ordine di apparizione in senso cronologico, per non disperderci più del dovuto.
Devo raccontare un aneddoto personale: la prima volta che ho sentito parlare di Dante come «giallista», è stato in un articolo apparso una decina d’anni fa in una pubblicazione di provincia, un bollettino scolastico che mi capitò fra le mani per caso e che non farebbe storia se non per il motivo che dirò. Allora non ne colsi l’importanza, pur decidendo di conservarlo proprio per la sua eccentricità; oggi, col senno del poi, lo considero alla stregua di un vero incunabolo. Nel n. 1 (anno 63) de «Il Montani», notiziario dell’Associazione ex allievi del “Montani”, Istituto Tecnico Industriale di Fermo (Ascoli Piceno), datato marzo 1994, appariva, a firma presumibilmente di un insegnante, tal Franco Loira, un intervento che voleva senza dubbio essere controcorrente. Era intitolato: «Un giallista del Trecento: Dante Alighieri»; mi parve piuttosto azzardato, frutto di una didattica disinvolta, per quanto vivace e spiritosa. Mi incuriosì ma non più di tanto, e la cosa finì lì. Ovviamente non avevo capito nulla. Onore al merito! Quello scanzonato professore aveva intuito ciò che oggi è lampante per tutti: Dante è figura perfetta per uno svolgimento narrativo dove regni il mistero e necessiti un’indagine. Loira lo proponeva addirittura come autore di gialli ante litteram. Scriveva: «Vivesse oggi, troverebbe sicuramente posto nella schiera degli Allan Poe, Simenon, Agatha Christie, ma altrettanto sicuramente lo farebbero scapitare nel paragone perché privo di sense of humour, se non addirittura di suspence, in quanto solutore a senso unico dei casi. (…) Due personaggi suscitano il particolare interesse di Dante: Ulisse e Ugolino, così lontani nel tempo l’uno dall’altro ma tanto simili per l’alone di mistero che ne caratterizza la fine»
[ 5 ].
Torniamo all’oggi: ciò che ha imposto l’Alighieri come «il maggiore investigatore dei suoi tempi» [ 6 ], è stata la motivazione con cui la giuria del Premio Tedeschi attribuì nell’edizione 2000 la vittoria al romanzo di Giulio Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, subito pubblicato nella più nota e diffusa collana giallistica nazionale: «Il romanzo, con la sua ricostruzione articolata di un “evento impossibile” appartenuto alla vita di Dante, riesce ad appassionare. Scrittura precisa e coerente da un punto di vista storico, e spregiudicata da un punto di vista narrativo»
[ 7 ]. Vista la buona riuscita, a distanza di qualche anno, Leoni ripropone un nuovo episodio dantesco con I delitti del mosaico [ 8 ] e si precisa meglio questa particolare figura di investigatore, piuttosto nervoso e irascibile di carattere, bilioso e fegatoso, conscio della propria superiorità intellettuale, frustrato nei rapporti sociali che è costretto ad intrattenere, coinvolto passionalmente nei meandri sempre più complicati della ricerca di una sfuggente verità. Un uomo tormentato, «dai tratti molto moderni», dunque, che patisce l’incarico che si è assunto di scoprire cause e responsabilità di efferati delitti, ma non può rinunciarvi, preso com’è dal tarlo della conoscenza. Leoni stesso lo definisce come un individuo «molto inquieto, donnaiolo e a tratti violento. Più guerriero che poeta» [ 9 ]. I due romanzi possono essere considerati come variazioni di un unico tema, ambientati nello stesso momento e luogo, la Firenze dell’anno 1300, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, il 15 giugno (I delitti del mosaico) e il 26 luglio (I delitti della Medusa). Dante è appena stato nominato priore della città, carica istituzionale di breve durata (nel suo caso, coprì il periodo tra giugno e agosto), ma gravida di responsabilità e di conseguenze. Le sue azioni, infatti, dovranno essere accorte e misurate alle convenienze dell’infida situazione politica del Comune fiorentino e più in generale della particolare realtà storica in cui è inserita, se non vorrà cadere in disgrazia e incappare in vendette successive (come poi accadrà veramente nella sua vicenda umana, e troverà scampo solo nell’esilio)[ 10 ].
In questi romanzi, Dante è un uomo che conosce la paura, sente alitare attorno a sé ombre cupe, una minaccia che può giungere da ogni direzione. E’ consapevole di vivere in tempi calamitosi e ferini, e si premunisce restando sempre allerta. Una prudenza armata può salvare la vita: quando nottetempo sente bussare con veemenza alla porta per un’emergenza (è il Bargello
[ 11 ]che richiede la sua presenza sulla scena di un delitto, in quanto autorità cittadina), «si rassettò in fretta la veste assicurandosi che l’impugnatura della daga fosse sempre al suo posto nella piega segreta del mantello»[ 12 ]. Sa di non potersi fidare neppure delle guardie armate che compongono il suo seguito, poiché queste non gli dimostrano nessun autentico rispetto ma un’obbedienza solo formale, e alla prima avvisaglia di pericolo, con buona probabilità, potrebbero decidere di abbandonarlo al suo destino. Il capo dei birri, il Bargello, non può essergli di nessun aiuto poiché Dante non lo stima per nulla e lo giudica una mente limitata e un uomo da poco; costui, ovviamente lo ricambia nell’antipatia e attende solo il momento favorevole per rendergli la pariglia: «Non sarebbe mancata l’occasione per vendicarsi: la carica di priore durava solo due mesi, e presto quel poetucolo arrogante sarebbe tornato a essere nessuno tra la folla degli inquisibili» [ 13 ]. Deve guardarsi, ovviamente, dai suoi nemici dichiarati, di fazione avversa o emissari papali, che però non teme perché è animato dal fuoco della passione ideale e per orgoglio e dirittura morale non potrebbe mai venir meno alle sue convinzioni. In politica, lo sa bene, la lotta più aspra è la regola. Alcuni lo minacciano apertamente, prospettandogli con malevola preveggenza un fosco futuro, come il legato pontificio a Firenze, cardinale d’Acquasparta, «un faccendiere furbo e pratico di traffici e corruzioni» [ 14 ]. Dovrà pararsi le spalle, inoltre, dall’assassino o dagli assassini che sta cercando di stanare con le sue inchieste, che potrebbe o potrebbero celarsi in ambienti a lui vicini ed affini, come i poeti, Fedeli d’amore, con cui ha condiviso gli anni felici della giovinezza, e da cui si è da tempo separato, non senza rimpianto (I delitti della Medusa), o il cenacolo di sapienti, autonominatosi Terzo Cielo, che lo considera con ammirazione maestro di poesia, e conosce i suoi versi a memoria (I delitti del mosaico), compiacendosi di declamarli davanti a lui per lusingarlo. Dante è un uomo spaventato più dai segni inquietanti che percepisce nelle trame criminose con cui si trova a interagire, che dalle concrete presenze malevole che lo attorniano; non teme gli uomini, quindi, ma i loro disegni inesplicabili che avverte essere sovversivi quei principi di ragione in cui crede in modo assoluto. In un dialogo segreto tra il cardinale e un suo pernicioso scherano, i due s’interrogano su quanto il poeta investigatore sia riuscito ad ottenere nell’indagine che sta conducendo: «Credete che sia sulla pista giusta? – No. Ne sono certo. E’ confuso, accecato dalla sua perversa fede nella ragione». Dante, dice l’alto prelato, ha la «folle convinzione che la ragione umana possa penetrare in tutti i segreti della natura e dell’agire umano. E’ per questo che adesso è perso in un labirinto, senza capire che sono i suoi stessi passi che ne generano le deviazioni e gli angoli ciechi, a mano a mano che avanza nella ricerca» [ 15 ].
L’intuizione di Giulio Leoni è interessante: Dante, alle prese con omicidi non comuni ma spettacolari, abnormi, allarmanti per come sono stati allestiti, capisce che non sono altro che rappresentazioni sceniche e teatrali di messaggi che qualcuno rivolge a chi può intenderli e interpretarli. E chi meglio di lui, potrebbe farlo?
Come il suo poema, attraverso il viaggio nei tre regni dell’oltretomba, è una rappresentazione simbolica dell’ascesi dell’uomo che deve ergersi dalle tenebre del peccato alla luce della grazia, così l’indagine criminologica è un percorso conoscitivo, da svolgersi a piccole tappe, attraverso vari turbamenti e prove dolorose da superare, alla ricerca della verità, per ottenere il ripristino dell’ordine infranto e la vittoria finale del bene sul male. Non a caso, in un giornale cattolico, una recensione di Bianca Garavelli si chiude con queste parole: «Dante è pur sempre, nonostante le sue ire esplosive, le sue paure e i suoi traviamenti sensuali, una forza del bene, un convinto difensore della cristianità e della suprema giustizia»
[ 16 ]. Questo Dante investigatore sa che deve affrontare situazioni sgradevoli e rischiose, fino a subire attentati alla propria vita, nonché incorrere in imbarazzanti cedimenti a sue momentanee debolezze (la lussuria) e alla tentazione del peccato; del resto, ci viene ricordato come sia stato anche un uomo d’azione, che ha combattuto nella battaglia di Campaldino nel 1289 contro i ghibellini di Arezzo, e quindi sia avvezzo a gettarsi nella mischia e anche pronto, se necessario, a inoltrarsi nei meandri bui e nelle cavità che conducono nelle viscere della sua città, che gli si rivela così in altre impreviste forme. Reagisce con temerarietà e persino con combattiva spavalderia alle intimidazioni e offese che gli vengono poste, in ciò spinto forse più dal suo pessimo carattere, facile al risentimento e scarsamente tollerante, che dalla fatalità del momento. Per lo stesso motivo, la sua innata superbia unita a bizzosa litigiosità (gli sembra sempre che gli altri non lo tengano nella dovuta considerazione), lo pongono in continuo urto con le persone. Sempre pronto alla battuta tagliente e offensiva nei confronti degli inopportuni, è un uomo isolato, poco amato e poco rispettato nella sua città, da tutti guardato con sufficienza o temuto, a seconda delle circostanze. Come abbiamo detto, i bargellini reagiscono con noncuranza ai suoi ordini di priore e anche il popolino non ne ha soggezione. In un certo senso, egli non appartiene a nessuno, fa parte per sé stesso. La sua grandezza poetica, la sua cultura ed eccellenza intellettuale lo allontanano da qualsivoglia autentico legame. Anche nell’ambito degli studiosi, gode di meritata fama ma raramente di amicizia; i suoi affetti più cari, come l’antico sodale Guido Cavalcanti, sono ormai separati da lui da divergenti scelte politiche e opposte visioni del mondo. Di certuni, è lui stesso a diffidare, sospettandoli di connivenza con gli assassini o peggio ancora, di responsabilità diretta in quegli atti malvagi e perciò non apre a nessuna alleanza (neppure con lo sconcertante ma simpatico Cecco Angiolieri). Perché di una cosa è certo: sono proprio quegli ambienti dotti e raffinati ad aver partorito quegli abominevoli delitti. In questo, Leoni paga pegno alla tradizione del giallo classico riproponendo nei suoi libri alcune particolarità che erano già chiare ai primi commentatori del fenomeno. Annotava, ad esempio, Emilio Radius in un famoso articolo del 1939, come nel poliziesco anglosassone i criminali fossero tratteggiati sempre come persone d’eccezione e geniali, e i loro delitti risultassero talmente sofisticati e diabolici da richiedere un corrispettivo talento investigativo. I due casi di cui si occupa Dante sono altrettanti enigmi, e quando si appresta a tracciare la «mappa del peccato» che lo porterà, tassello dopo tassello (come, in un puzzle o, appunto, in un mosaico) a ricostruirne il malvagio disegno, egli sa di dover condurre uno scontro serrato con il suo avversario, un duello che vede contrapporsi due menti fuori dal comune. Scriveva Radius in quel lontano articolo: «L’intelligenza, la cultura, l’educazione, l’eleganza sono state messe a servizio dell’impunità, e rendono inafferrabile il colpevole, sulle cui rare e scarse tracce bisogna quindi mettere non il poliziotto di mestiere, conoscitore di avanzi di galera, ma il detective di eccezione, il finissimo dilettante, il principe dell’indagine, l’uomo atto e disposto a sostenere con lo squisito omicida una insidiosa conversazione su ermetiche questioni» [ 17 ]. E’ un discorso che, mi sembra, si adatta perfettamente al nostro caso. Infatti, Dante può essere considerato un dilettante, per quanto ricopra in quel momento una carica istituzionale, e non a caso instaura da subito una sdegnata distanza dal poliziotto di mestiere, il Bargello, individuo in effetti piuttosto mediocre e limitato. Questa rivalità ricorda quella stabilita da Conan Doyle nell’antitetica coppia Sherlock Holmes-Lestrade (col gentiluomo genialmente deduttivo pronto a ironizzare sull’ottusità del questurino), che funge ancora da valido modello di riferimento. In nessun caso, però, lo scrittore inglese avrebbe messo il suo eroe in ridicolo di fronte al poliziotto sciocco, sminuendolo così nel ruolo, come invece il malizioso Leoni si compiace di fare con il suo personaggio. Diversamente dal granitico Sherlock Holmes, infallibile e mai veramente in difficoltà, Dante deve subire i rovesci della sorte e umanamente mettere in mostra i suoi lati più deboli e vergognosi: ad esempio, si fa cogliere in flagrante mentre esce da un lupanare, umiliato dallo sguardo beffardo del Bargello; oppure, pressato dai debiti, è costretto a sopportare il disprezzo che non gli nasconde l’usuraio a cui si rivolge. Ma tutto questo, e ogni altra cosa, rimane in secondo piano quando si concentra sull’indagine. La comprensione delle motivazioni dell’uccisore lo ossessionano, ne è come posseduto, vuole decifrarne il senso riposto, anela che il delitto si possa tradurre in conoscenza. In quel frangente, ogni altra incombenza viene intesa come indesiderata distrazione, un fastidio da sbrigare in fretta, compreso i compiti del priorato, che possono attendere momenti più opportuni. In verità è affascinato dall’atto omicida e dalle sue implicazioni simboliche, poiché esso rappresenta una violazione della ragione e insieme un insulto al Creatore: «Un delitto (…) è parte principale del possibile agire che Dio non vuole. Nel delitto contro la creatura prediletta del Signore si riassume l’essenza stessa del peccato: E se, come dice il Filosofo, in tre modi si viola il comandamento morale, così parimenti in tre modi si uccide: per incontinenza, per malizia o per matta bestialità» [ 18 ]. Con atteggiamento del tutto moderno, intuisce l’importanza di una scrupolosa osservazione della scena del delitto, nei suoi particolari anche più insignificanti; poi non consente a nessuno d’inquinare con false credenze e superstizioni l’impressione in lui suscitata dall’elaborata ostentazione dello stesso, l’impatto causato dalla postura del morto, l’arcano messaggio lasciato dall’assassino. In seguito s’informa sulle abitudini dell’ucciso, ricostruisce i giorni che precedono l’accaduto, perché «ogni vittima sceglie il proprio carnefice e crea le condizioni del delitto, che risulta modellato su di sé, non sull’assassino» [ 19 ]. Richiede persino un’esplorazione necroscopica del cadavere. Procede per indizi, cercando di distinguere le false piste da quelle veritiere.
Ad ogni modo, l’indagine non è solo un percorso mentale, una ricerca di significati, ma è anche un viaggio fisico, corporale, attraverso i meandri della città, una vera e propria discesa agli inferi: «Bisognava esplorare tutti i luoghi del delitto, riassumerli in un disegno comprensibile, tracciare la mappa della città del peccato e dello zolfo, i confini di Dite»
[ 20 ]. La Firenze in cui vive gli appare, già di giorno e alla luce del sole, una città corrotta, putrida, un ritrovo di ladri e di mercanti, invasa da detestabile «gente nova», villani arricchiti, inurbati provenienti dal contado, una folla che preme e procede come un fiume in piena e non conviene camminarvi appresso se non si vuole essere calpestati. Ma è di notte che mostra il suo volto nascosto, quando emergono dal buio e dai suoi bassifondi i reietti, la feccia del genere umano, l’orda dei mendicanti e di coloro che sono dediti a riti blasfemi. Puntuale esegeta dell’opera dantesca, Leoni descrive una Firenze notturna e sotterranea, labirintica e verminosa, scavata a cunicoli e gallerie, che richiama I misteri di Parigi di Eugène Sue. Dante vi si immerge temerariamente, scendendo per una cavità paurosa, in prossimità del luogo dove è stato rinvenuto un cadavere (decisamente quest’uomo ha una propensione per le esplorazioni nell’oscuro, è portato a smarrire la retta via…). Ricordiamo che l’Inferno pensato dal poeta è un’immensa voragine a forma di cono rovesciato, situata sotto Gerusalemme. Leoni suggerisce che quell’esperienza investigativa sia stata all’origine dell’ispirazione dantesca nella composizione del poema: «Narrerò di una città. La città del dolore. E descriverò ordinatamente il molto male e il poco bene che ho trovato fra le sue mura. Tutta l’infinita frenesia del delitto e tutta la gloria della virtù che lo contrasta. Questa sarà la mia opera, la Summa Criminalis. In versi volgari, secondo l’uso moderno» [ 21 ].

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Se non è pensato come uomo d’ordine, come nei libri di Giulio Leoni, allora Dante può al contrario suggestionare la fantasia degli scrittori come ispiratore di complicate trame criminali. Un giovane scrittore americano, Matthew Pearl, si è divertito a ricostruire il clima culturale del suo paese nell’Ottocento, quando l’allora mondo accademico aveva dell’opera del nostro sommo poeta un’opinione alquanto severa e moralistica: «Quale odio contro l’intera razza umana! Quale esultanza e gaiezza davanti a sofferenze eterne e implacabili! Ci turiamo le narici mentre leggiamo; ci tappiamo gli orecchi. Qualcuno ha mai visto, tutti insieme, tanti lezzi, sudiciume, escrementi, sangue, corpi mutilati, urla strazianti, mitici mostri castigatori? Alla luce di tutto questo, non posso che considerarlo il libro più empio e immorale che sia mai stato scritto».
In questo senso, Dante può decisamente essere considerato un grande scrittore pulp, «molto pulp, pure troppo», direbbe il comico Bebo Storti interpretando una sua macchietta, lo scrittore «cannibale» Thomas Prostata
[ 22 ].
Di Pearl non si può fare a meno di ammirare il garbo e la controllata ironia con cui fa rivivere ambienti, mentalità e conversazioni di quei compiti gentiluomini d’oltreoceano; il suo romanzo ricorda quei mobili di recente fattura convenientemente invecchiati e tarlati prima di passare per le mani di astuti antiquari e venduti come antichi (un solo rilievo si può muovere all’autore, augurandogli una maggiore propensione alla sintesi: questo libro poteva essere sfrondato di parecchie pagine, e ne avrebbe guadagnato in ritmo e pregnanza). Prevalentemente costruito sui dialoghi, al lettore rimane impresso l’eco di quei chiacchiericci pomposi, l’odore dell’aria asfittica di quei salotti, la ristrettezza mentale di taluni personaggi e la vacuità di altri, come anche la pregnante caratterizzazione delle figure principali. Ricorda nel tono una sophisticated comedy holliwoodiana, in certi momenti virata al macabro, seguendo suggestioni dantesche (gli omicidi sono descritti, era prevedibile intuirlo, come teatrali rifacimenti dei più impressionanti passi dell’Inferno, una punizione terrena tesa a colpire riconosciuti peccatori)
[ 23 ]. E’ la legge del contrappasso, che l’autore americano preferisce chiamare «controsofferenza… Il concetto secondo cui ogni peccatore va punito infliggendogli gli effetti del suo peccato» [ 24 ]. Le vittime, così come gli altri personaggi che animano coralmente il libro, appartengono alla buona società bostoniana, e non appaiono particolarmente odiosi né meritevoli di cotanto crudele spirito punitivo; sono figure piuttosto incolori e mediocri, e solo all’assassino, esasperato da una sua estremistica percezione del bene e del male, suggestionato dalla visione dantesca, possono parere tali. E’ apparso chiaro ai commentatori del romanzo come esso voglia essere un «omaggio al messaggio universale della Commedia, a un capolavoro senza tempo» 25 ], ma certamente un pensiero intrigante sorge spontaneo nel corso della lettura, giustamente densa di colpi di scena come si conviene a un buon prodotto di genere: la poesia dell’Inferno di Dante può indurre a un coinvolgimento talmente forte da ossessionare e rendere fanatici chi ne rimane ammaliato, soprattutto se è una mente instabile e facilmente suggestionabile. Così accade all’assassino, ma anche a un emigrante di origine italiana, poi caduto in disgrazia e divenuto mendicante, che finisce per suicidarsi: «Per lui, Dante è diventato un modo di scontare i peccati che immaginava di aver commesso. (…) Ogni verso e ogni vocabolo erano impressi in modo indelebile nel suo cervello e lo riempivano di terrore» [ 26 ]. Inoltre, il testo dantesco era costante nutrimento di un gruppo di studiosi (realmente esistiti) impegnati a portare a termine la prima traduzione integrale americana della Divina Commedia (pubblicata nel 1867), riuniti per l’appunto in quello che loro stessi avevano denominato Circolo Dante. Questo nobile consesso, guidato dal poeta Henry Wadsworth Longfellow, non tarda a rendersi conto del senso criptico del messaggio insito negli spaventosi omicidi che cominciano a insanguinare il loro ambiente sociale. Essendo gli unici depositari del verbo dantesco, anche il responsabile di quegli atti in qualche modo deve avere a che fare con il loro lavoro. Conseguentemente decidono di investigare, evitando d’informarne la polizia per non essere sospettati. Tutto lascia pensare, infatti, che il serial killer, ribattezzato per l’occasione Lucifero, possa essere un attento conoscitore della materia in questione: «Ancora una volta, dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte alla mente di un brillante erudito, dotato di tutti i mezzi necessari a ricreare alla perfezione l’allestimento scenico di Dante. Il nostro Lucifero apprezza la minuziosità della poesia dantesca. Nell’inferno di Milton tutto è vago, ma quello di Dante è suddiviso in cerchi disegnati con compassi ben appuntiti. Reale quanto il nostro mondo» [ 27 ].
Se l’assassino è un dantista, i nostri investigatori improvvisati non al demonio incarnato dovranno pensare come bersaglio dei loro sforzi, ma allo stesso lontano poeta che è alla base dell’ispirazione omicida, cioè dovranno saper interpretare il poema prima del loro avversario: «Colui a cui date la caccia non è un Lucifero (…). Quando l’Alighieri lo incontra nel Cocito ghiacciato, Lucifero è puro mutismo, taciturno e singhiozzante. (…) Colui a cui date la caccia è Dante. E’ lui a decidere chi punire, dove collocarlo e quali patimenti infliggergli»
[ 28 ].

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Del sommo poeta, si sa, non si è conservato nessun documento autografo, ed è grande rammarico per chiunque abbia a cuore la nostra storia letteraria. Per averlo (immaginando che questa evenienza improbabile possa ancora, in qualche modo, realizzarsi), si potrebbe arrivare ad uccidere. Da questa suggestione prendono spunto due libri pubblicati recentemente: L’isola dei morti di Valerio Massimo Manfredi e La mano di Dante dell’americano Nick Tosches. Quello di Manfredi, che è autore notissimo al pubblico, anche in funzione di divulgatore televisivo (il suo programma «Stargate» si è inserito vivacemente nel solco tracciato dagli Angela padre e figlio), è un esile libretto che si legge d’un fiato e lascia aperta la curiosità per un possibile sviluppo, che l’autore non ha ritenuto di concedere. Rimane una vicenda monca, piuttosto curiosa, in cui alcuni archeologi si accorgono che una loro importante scoperta può nascondere inquietanti retroscena e risultare estremamente appetibile per individui privi di scrupoli, decisi a sottrarre reperti di inestimabile rilevanza dagli scavi in corso e utilizzarli ai propri scopi. Manfredi, a sua volta archeologo, evidentemente parla di cose che nel suo ambiente accadono purtroppo di frequente. La domanda fondamentale da cui è partito per ricostruire questa sua storia è la seguente: «Vi siete mai chiesti come mai non esista una sola parola in tutta la letteratura critica delle origini sull’autografo dantesco della Commedia? Che fine ha fatto un documento così importante? E visto che il primo commento del poema è a firma del figlio Pietro, si dovrebbe supporre che a quel punto il manoscritto fosse in mani sicure in grado di trasmetterlo ai posteri. In fondo possediamo documenti originali ben più antichi della Commedia» [ 29 ]. Manfredi offre una sua suggestiva ipotesi e ricostruisce un antico disegno criminoso a spiegazione di questo mistero (che ovviamente non sveliamo). Ben più corposo e intrigante il romanzo di Tosches, dalla struttura complessa e di notevole respiro letterario, che fa capire senza ambiguità alcuna la differenza tra un libro confezionato per essere un prodotto commerciale, pur di buon artigianato, e un’opera letteraria che può decidere di utilizzare tra i suoi materiali anche il noir, ma il cui risultato finale elude e oltrepassa qualsivoglia etichettatura [ 30 ]. Il fascino di questo romanzo è proprio nel suo essere un prodotto ibrido, a due teste, di cui l’una è una trasfigurazione dello stesso autore e ne porta il nome (è un uomo dei nostri tempi, disincantato e vissuto, convenientemente privo di scrupoli) e l’altra è un individuo di un lontano passato, un poeta grandissimo ma dubbioso sulla validità della propria opera, che gli appare troppo impregnata di retorica e d’artificio, bloccato per questo nella capacità di proseguire nella creazione poetica, bisognoso di risposte che possano restituirgli la capacità di provare vere emozioni. Queste due situazioni corrispondono ad altrettanti registri stilistici (dimensioni temporali, atmosfere narrative) diversissimi fra loro e però complementari, che si possono cogliere da subito, come accade in ogni libro veramente buono, nei primi capitoli.
Lungo quanto basta, il primo capitolo è un pugno nello stomaco: per linguaggio, durissimo, scurrile e diretto (ogni moralismo è fuori luogo: il linguaggio è quello che deve essere, né più né meno, data la situazione narrata); per contenuto (sesso e violenza à gogo); per efficacia (il lettore hard-boiled è immediatamente agganciato). L’incipit è di grande impatto, e in prima lettura assolutamente incomprensibile, ma stimolante un’inevitabile curiosità che troverà soddisfazione solo diverse pagine dopo
[ 31 ], quando si ritroverà in azione l’inquietante figuro di cui si parla (che è, in realtà, un personaggio secondario, ma svolge un ruolo decisivo nell’economia della narrazione, soprattutto all’inizio): «Louie si tolse il reggiseno e lo gettò sulla cassettiera» [ 32 ]. L’effetto ottenuto con questa frase cresce addirittura in seguito, quando si scopre che Louie è un vecchio bastardo malavitoso di oltre sessant’anni, un essere sordido che uccide con noncuranza e nessun rimorso, per naturale predisposizione, un persistente sessuomane, con predilezione al travestitismo sadomasochistico. Il secondo piano narrativo, al contrario, entra in sordina, con le riflessioni di un bambino precocemente portato alle elucubrazioni astratte, e ci viene detto che è il giovane Dante Alighieri, che trascorre una giornata come fanno tutti i bambini (e purtroppo solo loro), sdraiato per terra ad osservare nuvole e cielo («il cielo dell’illimitatezza»). Il capitoletto, secondo del libro, è giustamente breve, un frammento appena, ma apre allo svolgimento futuro del personaggio, che vedremo in seguito nella sua piena maturità. Nick Tosches personaggio si presenta nel terzo capitolo e per un po’ si racconta, in modo che il lettore capisca che tipo è, quale è stata la sua vita, quali dolori e amori, quali eventi anche traumatici lo hanno formato e fatto diventare quello che è. Non si dubita che l’autore vi immetta molto di suo, ma non è dato sapere fino a che punto. E’ un uomo, lo ammette lui stesso, amareggiato e logorato; intenzionato, proprio perché nella sua vita molti giochi sono finiti e lui si sente quasi al capolinea, a raccontare le cose come stanno, senza abbellimenti e infingimenti: «Poiché non c’è rimasto nulla da perdere, (…) non nasconderò nulla, né ci saranno verità da temere. Non voglio lavorare duramente sulle parole. Cose del genere me le sono buttate alle spalle, così come il mite pomeriggio da cui faccio iniziare la mia storia» [ 33 ]. Il Nick Tosches di queste pagine non è un tipo simpatico, a cui ci si affeziona, al contrario è decisamente sgradevole, ma in fondo ci importa poco. Alcune delle figure che più ci rimangono impresse nei libri e nei film che amiamo, sono negative, e persino da bambini a un certo punto cominciamo a tifare per quel gran vilain di Pietro Gambadilegno piuttosto che per Topolino, noioso e prevedibile. Il cuore pulsante dell’intera narrazione, comunque, non sono le due storie parallele, ma ciò che le unifica in una sola dimensione concettuale: una sofferta, e per nulla scontata, riflessione sulla scrittura e sull’atto creativo, sul ruolo e il destino dell’essere scrittore [ 34 ], sulla disperante impossibilità di riuscire a fissare con le parole ciò che è inesprimibile: «Non puoi scrivere il Paradiso. Esso è qui, tra le stelle, già scritto, e puoi leggerlo, ma non potrai mai esprimerlo o crearlo se non attraverso la genuflessione del tuo silenzio» [ 35 ].
Il Dante di Tosches è, a modo suo, un’interpretazione creativa dell’uomo e dell’opera, frutto di una lettura nient’affatto improvvisata, anzi sostenuta da conoscenza approfondita e da un pensiero forte e originale. Fa uscire dall’ombra e dà voce, con poetica sensibilità, a Gemma, la moglie trascurata, svaluta l’esibizione della venerazione per Beatrice in quanto artificio retorico fin troppo insistito, introduce due figure inventate di saggi eruditi, col compito di guidarlo e aiutarlo ad uscire dalle secche della sua aridità creativa, un anziano giudeo suo generoso mecenate e un misterioso arabo capace d’illuminarlo verso la via del disgelo della sua anima, aprendolo finalmente all’accoglienza in sé del sentimento autentico dell’amore. Improvvisamente, alla fotografia che campeggia in copertina, con la piega amara delle labbra e il volto scavato di Tosches, si sovrappone ironicamente (nella nostra partecipe fantasia di lettori) quella del Dante che ricordiamo dai ritratti della tradizione che ci è stata tramandata, il naso solamente un po’ più pronunciato nel fiorentino, e come ha scritto argutamente un recensore, Antonio Monda, anche «la storia parallelamente segue la ricostruzione della genesi del capolavoro di Dante e i riflessi con la sua tormentata esperienza umana, e la discesa negli inferi della malavita americana»
[ 36 ]. Quando lo ritiene necessario, Tosches abbandona il noir per virarlo in un racconto criminale di mafia, dove recupera persino una sua conoscenza diretta di Michele Sindona, su cui ha scritto in passato una biografia, e gli dedica un paio di pagine piuttosto sorprendenti ed elogiative (si capisce come lo scrittore sia affascinato dal Male e da alcune figure che lo hanno incarnato nella storia recente). Oppure introduce una sua riflessione controcorrente dei fatti dell’11 settembre 2001, con l’attentato terroristico alle Twin Towers di New York, che colpisce per un’ironia amara così inusitata per un americano, e si conclude con un’invettiva altrettanto scioccante lanciata contro il monoteismo religioso, considerato radice di tutti i mali, morte dell’anima, malattia fatale dell’umanità.

* * *

In ultimo, nella geografia contemplata dal romanzo di Tosches troviamo riferimenti anche a Ravenna. V’incontriamo il poeta in un momento critico della sua esistenza, in cui «aveva la sensazione di trovarsi a Ravenna non più che in una qualsiasi altra città, e di indugiare solo tra la polvere dove calavano le ombre, e dove, nonostante i suoi occhi fossero troppo smarriti per scorgerla, stava scritta la data della sua morte; e la sua anima era ridotta a nulla, solo rovine e privazioni» [ 37 ]. Però non può rimanere insensibile alla magnificenza dei mosaici bizantini: «Entrò nella Basilica di San Vitale per pregare. In vita sua non aveva mai visto l’anima, l’occhio e la mano dell’uomo creare una bellezza simile al mosaico celestiale di quella chiesa. Anni prima, nel mettervi piede per la prima volta, alla luce delle candele, egli fu talmente sopraffatto e abbagliato da ciò che gli apparve come una miriade di arcobaleni a scaglie nel baluginio fulgente di una miriade di soli, che non riuscì a distinguere le forme e le figure a causa dell’accecante splendore del loro squisito insieme. (…) Lì, il sospiro incombente di ciascun colore pareva gonfiarsi come un’onda» [ 38 ]. Sembra dar ragione all’intuizione di una studiosa tedesca, Marianne Langewiesche, la quale in un suo discusso saggio scriveva: «Ogni città è immersa in un suo paesaggio che la caratterizza, Ravenna l’ha perduto completamente. Al tempo di Galla Placidia e di Teodorico, quando la città costruì le sue basiliche e le ornò di mosaici, Ravenna era circondata da acque su tre lati, una città su palafitte, e percorsa all’interno da innumerevoli canali, come Venezia. (…) I mosaici ravennati vivevano in una luce diversa dall’attuale» [ 39 ]. La Ravenna di oggi viene invece visitata dal Nick Tosches personaggio, nel corso delle ricerche necessarie all’autentificazione del manoscritto dantesco di cui è venuto in possesso, per ordine del mafioso americano che lo controlla e lo fa pedinare da un suo scherano. In questo suo compito, si reca agli Archivi di Stato di Verona e di Ravenna, accolto affabilmente dai pubblici dirigenti delle istituzioni culturali di quelle città, che non sospettano le intenzioni scorrette del loro visitatore, del resto accompagnato da ineccepibili referenze recanti il sigillo Vaticano. Annota sornione l’autore: «Erano credenziali impressionanti, specialmente per un direttore di biblioteca, e in particolare per i direttori delle biblioteche italiane» [ 40 ]. Quei solerti funzionari gli fanno buona impressione: «Ero ben vestito e indossavo una camicia blu. Dissi che stavo cercando dettagli su certi affari politici del primo Trecento, e che pertanto desideravo esaminare documenti ufficiali (…). Anche il direttore era ben vestito. La cosa mi fece piacere, perché gli archivisti e i bibliotecari erano i custodi di ciò che rimaneva della cultura. Erano uomini e donne che meritavano dignità, ma che di rado se la vedevano riconoscere. Era bello vederne uno che pareva perfettamente consapevole della dignità che gli era dovuta, e che almeno la riconosceva a se stesso» [ 41 ]. Un elogio di questo genere non può che commuovere i nostri bistrattati e incompresi bibliotecari, ma è meglio che stiano allerta e non abbassino la guardia (come già sanno nella loro pratica quotidiana, quando giustamente diffidano delle petulanti richieste degli utenti, mai contenti e ridicolmente insistenti nelle loro pretese). Infatti, quell’insospettabile studioso non avrà remore a sottrarre preziosi documenti e portarli via con sé, e, ancora peggio, quel losco figuro che lo segue come un’ombra deciderà di uccidere proprio quei dignitosi archivisti per “cancellare le tracce” del suo passaggio [ 42 ]. Meglio guardarsi le spalle e se proprio sentiamo il bisogno di occuparci di poesia, conviene farlo di nascosto, senza dare nell’occhio. Non si sa mai.


Note

1 Un fenomeno analogo sta avvenendo nella produzione seriale televisiva; Cfr. G. Romagnoli, La tv di notte che racconta la vita, «La Repubblica», 9 lug. 2004.
2 Questo dei “gialli letterari” è considerato ormai come un vero e proprio sottogenere (Cfr. R. Chiti, Gialli letterari: quando lo scrittore fa il detective, «Sette», 4 mar. 2004); tra i capostipiti, possiamo trovare tradotti in lingua italiana: T. Mathieson, Quando il genio indaga, Milano, Mondadori, 1992 («I classici del giallo» n. 658); G. Baxt, Un’indagine per Dorothy Parker, Milano, Mondadori, 1989 («Il Giallo Mondadori» n. 2125); M. Doody, Aristotele detective, Palermo, Sellerio, 1999.
3 Cfr. G. Pioli, Che best seller il ritorno di Cristo «giustiziere», «Il Resto del Carlino», 4 mag. 2004; S. Kramar, Il romanzo più illeggibile diventa un best seller, «Il Giornale», 27 mag. 2004; P. Floridi, Una storia erotica ma molto intellettuale, «La Repubblica», 23 lug. 2004. Il secondo romanzo di cui si parla è stato pubblicato anche in Italia: I. Caldwell, D. Thomason, Il codice dei quattro, Casale Monferrato, Piemme, 2004.
4 G. Romagnoli, Sembra facile, ma è scritto in codice, «Musica», 13 mag. 2004. Come era già successo al primo romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, anche il libro di Brown sta figliando una miriade di manuali (i cosiddetti «testi secondari») che lo commentano, ne mettono in discussione i presupposti storici, in varia misura lo criticano, in questo modo attestandone però l’importanza (Cfr. L. Lipperini, Il libro sul libro: il codice fa industria, «Il Venerdì di Repubblica» 30 lug. 2004).
5 F. Loira, Un giallista del trecento: Dante Alighieri, «Il Montani», 1 (mar. 1994), pp. 9-10.
6 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, Milano, Mondadori, 2000 («Il Giallo Mondadori» n. 2707), p. 195.
7 Ibid., p. 199. Leoni, visti i buoni risultati, ha perseguito nel genere, variando trame e personaggi, trovando sempre accoglienza nei tascabili da edicola della Mondadori (prima di essere “promosso” in libreria negli «Omnibus» col suo ultimo lavoro): la Germania tra Weimar e nazismo in La donna sulla luna, Milano, Mondadori, 2002 («Il Giallo Mondadori n. 2775) e l’impresa fiumana di D’Annunzio in E trentuno con la morte…, Milano, Mondadori, 2003 («I classici del Giallo Mondadori» n. 949. Lo stesso personaggio di D’Annunzio era già apparso qualche anno prima in un romanzo di Luca Masali, I biplani di D’Annunzio, Milano, Mondadori, 1996 («Urania» n. 1296).
8 G. Leoni, I delitti del mosaico, Milano, Mondadori, 2004.
9 S. Sieni, Quel divino detective all’ombra dei Templari, «Il Resto del Carlino», 9 feb. 2004.
10 Il 1300, ricordiamolo, è l’anno del primo Giubileo, bandito da Bonifacio VIII, che segna il culmine del prestigio papale e della sua politica teocratica. La vittoria definitiva della fazione dei guelfi Neri, rappresentanti il «popolo grasso» e le «Arti maggiori», sostenuta dal papa e da Carlo di Valois, condannerà Dante (appartenente ai Bianchi), che si era più volte opposto alle pretese della Curia Romana, all’esilio.
11 Il Bargello era un funzionario incaricato del servizio di polizia in molte città italiane del Medioevo.
12 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, cit., p. 9.
13 Ibid., p. 14.
14 Ibid., p. 136.
15 G. Leoni, I delitti del mosaico, cit., p. 209.
16 B. Garavelli, Un romanzo-thriller su Dante investigatore nella città di Firenze, «Avvenire», 27 mar. 2004.
17 E. Radius, Autarchia ed etica del romanzo giallo, «Corriere della Sera», 29 apr. 1939.
18 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, cit., p. 162.
19 G. Leoni, I delitti del mosaico, cit., p. 74.
20 Ibid., p. 272.
21 Ibid., p. 276.
22 M. Pearl, Il Circolo Dante, Milano, Rizzoli, 2003, p. 55. La citazione della battuta del comico Bebo Storti è tratta da una trasmissione televisiva molto popolare, «Mai dire goal», del 1997.
23 I riferimenti alla tradizione di genere, sia letteraria che cinematografica, si sprecano e sarebbe vano cercare di riportarli in maniera esaustiva. Ci basti citare, quali modelli di molti prodotti epigoni, il film di David Fincher, Seven, del 1995, in cui l’omicida seriale prende spunto dai sette peccati capitali della religione cattolica per le sue imprese e il romanzo di Jeffrey Deaver, Il collezionista di ossa (Milano, Sonzogno, 1998), anch’esso tradotto in film per la regia di Phillip Noyce nel 1999, in cui è proprio un misconosciuto romanzetto giallo ad ispirare il disegno criminoso.
24 M. Pearl, Il Circolo Dante, cit., p. 284.
25 L. Di Iorio, Omaggio alla Divina Commedia. In giallo, «Europa», 22 nov. 2003. Si vedano anche le recensioni di L. Manera, «Corriere della Sera» 10 set. 2003 e di R. Carnero, «Letture» nov. 2003.
26 M. Pearl, Il Circolo Dante, cit., p. 238.
27 Ibid., p. 310.
28 Ibid., p. 332.
29 V.M. Manfredi, L’isola dei morti, Venezia, Marsilio, 2004, p. 64. Anche Tosches mette in campo uno dei figli di Dante, Jacopo, nelle ultime pagine del suo romanzo, convinto che sia questi l’autore della parte finale del Paradiso e non il padre; ricordiamo inoltre, come altri autori in passato abbiano romanzato queste figure storiche, ad esempio Luigi Ugolini, con Il figlio di Dante (Torino, SEI, 1947).
30 E’ un’annosa e irrisolta questione: il compianto Giuseppe Petronio, ad esempio, non condivideva l’uso del termine “paraletteratura” per indicare la letteratura di consumo o di genere (Cfr. G. Petronio, Sulle tracce del giallo, Roma, Gamberetti, 2000), considerandolo viziato da pregiudizio o sottovalutazione; ma se un professionista autorevole come Valerio Evangelisti lo riassume come garanzia di serietà deontologica (Cfr. V. Evangelisti, Sotto gli occhi di tutti, Napoli, L’ancora del mediterraneo, 2004), allora ci sentiamo autorizzati a proseguire su questa strada. Inoltre, una oculata capacità di distinzione evita molta confusione nonché inutili e risapute polemiche, come quella riproposta da un articolo di Roberto Cotroneo di qualche mese addietro (R. Cotroneo, Giallo elementare, «L’Unità», 15 feb. 2004).
31 Cfr. N. Tosches, La mano di Dante, Milano, Mondadori, 2004, p. 127.
32 Ibid., p. 7.
33 Ibid., p. 20.
34 Tosches vi innesta, a un certo punto, anche una rabbiosa polemica sullo stato delle cose nell’industria culturale e nell’editoria americana, che potrebbe trovare punti di convergenza pure qui in Italia.
35 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 152. Con minore pregnanza narrativa, anche Pearl affronta un concetto simile, quando fa dire a un suo personaggio: «Una volta non fu lo stesso Dante a scrivere che è impossibile tradurre la poesia? Eppure, ci riuniamo ogni settimana e uccidiamo le sue parole senza rimorso» (M. Pearl, Il Circolo Dante, cit., p. 171). Annosa questione.
36 A. Monda, Tosches all’inferno sulle orme di Dante, «Il Venerdì di Repubblica», 16 lug. 2004.
37 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 196.
38 Ibid., p. 249.
39 M. Langewiesche, Ravenna crocevia di popoli, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1980, p. 20.
40 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 165.
41 Ibid., pp. 165-166.
42 Cfr. Ibid., pp. 200-202.

 
 
 
 

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