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Il romanzo poliziesco
italiano a partire dagli inizi degli anni Novanta ha conosciuto una
nuova stagione di vitalità facendosi interprete dei cambiamenti in atto
nella società, registrati sul filo di una cronaca troppo spesso
percepibile come cronaca nera. Con buona intuizione, il giallo ha voluto
farsi romanzo sociale, osservatorio analitico di una realtà politica,
sociale ed economica in veloce mutazione, esposta alle contraddizioni e
alle urgenze di quella percezione del mondo che oggi chiamiamo
globalizzazione. Un pubblico di lettori sempre più frastornato e
insicuro ha accolto con favore la novità di un genere letterario
tradizionalmente d’intrattenimento, che si proponeva di interrogare
l’attualità per meglio comprenderla, scavando nel torbido e mantenendo
invariata la propria peculiarità narrativa. Utilizzando proprio i canoni
della suspence e dell’indagine, rispettando i dettami di una prosa
funzionale e di immediata fruibilità, si è ottenuta una produzione
letteraria «popolare» e commerciale, capace di raccontare una storia
criminale inserita in un determinato momento storico (presente o
passato)[
1 ].
E’ questa anche la ragione di fondo che può spiegare la rinnovata
fortuna del romanzo giallo di ricostruzione storica, ambientato in
epoche passate, ma ugualmente specchio dell’oggi. La Roma del primo
secolo avanti Cristo tratteggiata con scrupolo storiografico da Danila
Comastri Montanari può farci riflettere sulla corruzione presente in una
società, anche se lontana da noi, almeno quanto l’Italia repubblichina
del primo Lucarelli. Comunque sia, la caratteristica principale di
questo genere è l’accurato lavoro di ricerca e documentazione storica
che lo scrittore deve predisporre in partenza, come necessaria
preparazione allo svolgimento della trama narrativa, per accreditarvi
maggiore realismo. Importante è però avere chiaro lo scopo narrativo e
di contenuto dell’operazione letteraria che si sta realizzando,
altrimenti si rischia di ottenere soltanto puntuali e particolareggiati
teatrini rifatti, case di bambola vittoriane, musei delle cere. Nel
grande romanzo storico non di genere, è la qualità e densità della
scrittura, oltre al disegno generale, a dare senso e potenza alla
ricostruzione. Esempi insuperabili rimangono Io, Claudio di Robert
Graves o le Memorie di Adriano di Margherite Yourcenar, così come
Il
nome della rosa di Umberto Eco potremmo considerarlo un passaggio che
collega queste opere con i romanzi di genere (e infatti il long seller
di Eco è insieme poliziesco medievale ed esemplare affresco storico).
* * *
Il discorso cambia notevolmente invece se prendiamo in esame alcuni
derivati (o sottogeneri) del “giallo storico”, come ad esempio il
cosiddetto “giallo letterario”
[
2 ], che sta ottenendo oggi una certa
fortuna di pubblico, destinata probabilmente ad aumentare. E’ in un
certo senso, questa, una rivincita della componente d’artificio e
d’intrattenimento del romanzo poliziesco com’era in origine, anche se
ora riproposta con caratteristiche di maggiore elaborazione per ottenere
un prodotto raffinato e “colto”, a suo modo elitario. Il “giallo
letterario”, infatti, mantiene i presupposti di tipo storiografico del
genere da cui deriva, cioè deve comunque basarsi su una informata e
puntigliosa ricostruzione documentaria e deve far uso di precise e
accertabili note di costume. La differenza si rileva sulla definizione
dell’intera situazione narrativa, che pone al centro non un personaggio
d’invenzione anche se plausibile (come lo erano Renzo e Lucia per Manzoni, personaggi inventati ma corrispondenti al criterio di
verosimiglianza), ma una figura veramente esistita, appartenente al
mondo della cultura in senso lato, come Leonardo Da Vinci o Dante
Alighieri. Inevitabilmente, la popolarità del personaggio finisce per
calamitare a sé l’attenzione del lettore, ponendo in secondo piano ogni
altra questione, persino l’elaborata struttura concettuale che è
ritenuta necessaria dagli autori per sostenere l’intreccio. Nel caso dei
romanzi incentrati sulla figura di Dante, gli autori che hanno scelto
questa soluzione rispolverano dispute teoriche e teologiche del suo
tempo, accennano a tematiche storiche cariche di fascinazione e in
qualche maniera pertinenti (come ad esempio la vicenda dei Templari), in
modo da offrire al lettore mediamente colto l’impressione di condividere
un raffinato gioco letterario, un pastiche che può essere apprezzato
soltanto da chi possiede i necessari prerequisiti culturali. Uno
studioso, Francesco Longo, ha rilevato come questi romanzi che sembrano
offrire una specie di «intrattenimento colto», in realtà «semplificano,
livellano, spianano ogni difficoltà al lettore pur lasciando credere che
stia leggendo un testo impegnativo»; in definitiva, fanno uso
«dell’erudizione come un lubrificante per l’ingranaggio narrativo» (F.
Longo, Classici del crimine, «La Rivista dei Libri», lug.-ago. 2004).
Il fenomeno non è solo nazionale, anzi in Italia è in qualche modo
influenzato e veicolato dall’enorme successo che ha ottenuto in America
Il codice Da Vinci di Dan Brown, un romanzone da più di un anno in vetta
alle classifiche del «New York Times», solo recentemente soppiantato da
altri due best seller sullo stesso tono: il thriller di carattere
religioso ispirato all’Apocalisse, Gloriosa apparizione di Tim Lahay e
Jerry Jenkins, e un polpettone erudito, Il codice dei quattro di Ian
Caldwell e Dustin Thomason, che si rifà addirittura ad un’opera sacra
dei bibliofili, quell’Hypnerotomachia Poliphili del 1499, di
autore anonimo e misterioso (probabilmente Francesco Colonna)
[
3
]. Sulla qualità
di queste opere non siamo in grado di pronunciarci, ma il Codice Da
Vinci confezionato da Brown, prontamente tradotto (Milano, Mondadori,
2003), è risultato anche da noi uno dei libri più venduti e apprezzati
della passata stagione; Gabriele Romagnoli, recensendolo, ammetteva: «E’
prevedibile come un elenco del telefono e profondo come una mappa
stradale. Eppur si legge. E l’ho letto tutto. Alla fine, ero pure
contento»
[
4
].
Il vero protagonista del “giallo letterario” (alcuni lo hanno battezzato
anche filone giallo fantastorico-esoterico) in Italia in questo periodo,
comunque, è uno solo: il nostro massimo poeta, reinventato personaggio e
protagonista di storie a sfondo poliziesco, ovviamente ambientate nel
Trecento (del resto il primo a volersi personaggio letterario era stato
proprio lui, viaggiatore ultraterreno nella sua Commedia) oppure figura
di riferimento di altrettante complicate vicende romanzesche. Ma è bene
seguire un ordine di apparizione in senso cronologico, per non
disperderci più del dovuto.
Devo raccontare un aneddoto personale: la prima volta che ho sentito
parlare di Dante come «giallista», è stato in un articolo apparso una
decina d’anni fa in una pubblicazione di provincia, un bollettino
scolastico che mi capitò fra le mani per caso e che non farebbe storia
se non per il motivo che dirò. Allora non ne colsi l’importanza, pur
decidendo di conservarlo proprio per la sua eccentricità; oggi, col
senno del poi, lo considero alla stregua di un vero incunabolo. Nel n. 1
(anno 63) de «Il Montani», notiziario dell’Associazione ex allievi del
“Montani”, Istituto Tecnico Industriale di Fermo (Ascoli Piceno), datato
marzo 1994, appariva, a firma presumibilmente di un insegnante, tal
Franco Loira, un intervento che voleva senza dubbio essere
controcorrente. Era intitolato: «Un giallista del Trecento: Dante
Alighieri»; mi parve piuttosto azzardato, frutto di una didattica
disinvolta, per quanto vivace e spiritosa. Mi incuriosì ma non più di
tanto, e la cosa finì lì. Ovviamente non avevo capito nulla. Onore al
merito! Quello scanzonato professore aveva intuito ciò che oggi è
lampante per tutti: Dante è figura perfetta per uno svolgimento
narrativo dove regni il mistero e necessiti un’indagine. Loira lo
proponeva addirittura come autore di gialli ante litteram. Scriveva:
«Vivesse oggi, troverebbe sicuramente posto nella schiera degli Allan
Poe, Simenon, Agatha Christie, ma altrettanto sicuramente lo farebbero
scapitare nel paragone perché privo di sense of humour, se non
addirittura di suspence, in quanto solutore a senso unico dei casi. (…)
Due personaggi suscitano il particolare interesse di Dante: Ulisse e
Ugolino, così lontani nel tempo l’uno dall’altro ma tanto simili per
l’alone di mistero che ne caratterizza la fine»
[
5 ].
Torniamo all’oggi: ciò che ha imposto l’Alighieri come «il maggiore
investigatore dei suoi tempi» [
6 ], è stata la motivazione con cui la giuria
del Premio Tedeschi attribuì nell’edizione 2000 la vittoria al romanzo
di Giulio Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, subito
pubblicato nella più nota e diffusa collana giallistica nazionale: «Il
romanzo, con la sua ricostruzione articolata di un “evento impossibile”
appartenuto alla vita di Dante, riesce ad appassionare. Scrittura
precisa e coerente da un punto di vista storico, e spregiudicata da un
punto di vista narrativo»[
7 ]. Vista la buona riuscita, a distanza di
qualche anno, Leoni ripropone un nuovo episodio dantesco con I delitti
del mosaico
[
8 ] e si precisa meglio questa particolare figura di
investigatore, piuttosto nervoso e irascibile di carattere, bilioso e
fegatoso, conscio della propria superiorità intellettuale, frustrato nei
rapporti sociali che è costretto ad intrattenere, coinvolto
passionalmente nei meandri sempre più complicati della ricerca di una
sfuggente verità. Un uomo tormentato, «dai tratti molto moderni»,
dunque, che patisce l’incarico che si è assunto di scoprire cause e
responsabilità di efferati delitti, ma non può rinunciarvi, preso com’è
dal tarlo della conoscenza. Leoni stesso lo definisce come un individuo
«molto inquieto, donnaiolo e a tratti violento. Più guerriero che
poeta»
[
9
]. I due romanzi possono essere considerati come variazioni di un
unico tema, ambientati nello stesso momento e luogo, la Firenze
dell’anno 1300, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, il 15
giugno (I delitti del mosaico) e il 26 luglio (I delitti della Medusa).
Dante è appena stato nominato priore della città, carica istituzionale
di breve durata (nel suo caso, coprì il periodo tra giugno e agosto), ma
gravida di responsabilità e di conseguenze. Le sue azioni, infatti,
dovranno essere accorte e misurate alle convenienze dell’infida
situazione politica del Comune fiorentino e più in generale della
particolare realtà storica in cui è inserita, se non vorrà cadere in
disgrazia e incappare in vendette successive (come poi accadrà veramente
nella sua vicenda umana, e troverà scampo solo nell’esilio)[
10 ].
In questi romanzi, Dante è un uomo che conosce la paura, sente alitare
attorno a sé ombre cupe, una minaccia che può giungere da ogni
direzione. E’ consapevole di vivere in tempi calamitosi e ferini, e si
premunisce restando sempre allerta. Una prudenza armata può salvare la
vita: quando nottetempo sente bussare con veemenza alla porta per
un’emergenza (è il Bargello[
11 ]che richiede la sua presenza sulla scena
di un delitto, in quanto autorità cittadina), «si rassettò in fretta la
veste assicurandosi che l’impugnatura della daga fosse sempre al suo
posto nella piega segreta del mantello»[
12 ]. Sa di non potersi fidare
neppure delle guardie armate che compongono il suo seguito, poiché
queste non gli dimostrano nessun autentico rispetto ma un’obbedienza
solo formale, e alla prima avvisaglia di pericolo, con buona
probabilità, potrebbero decidere di abbandonarlo al suo destino. Il capo
dei birri, il Bargello, non può essergli di nessun aiuto poiché Dante
non lo stima per nulla e lo giudica una mente limitata e un uomo da
poco; costui, ovviamente lo ricambia nell’antipatia e attende solo il
momento favorevole per rendergli la pariglia: «Non sarebbe mancata
l’occasione per vendicarsi: la carica di priore durava solo due mesi, e
presto quel poetucolo arrogante sarebbe tornato a essere nessuno tra la
folla degli inquisibili»
[
13
]. Deve guardarsi, ovviamente, dai suoi nemici
dichiarati, di fazione avversa o emissari papali, che però non teme
perché è animato dal fuoco della passione ideale e per orgoglio e
dirittura morale non potrebbe mai venir meno alle sue convinzioni. In
politica, lo sa bene, la lotta più aspra è la regola. Alcuni lo
minacciano apertamente, prospettandogli con malevola preveggenza un
fosco futuro, come il legato pontificio a Firenze, cardinale d’Acquasparta,
«un faccendiere furbo e pratico di traffici e corruzioni»
[
14 ]. Dovrà
pararsi le spalle, inoltre, dall’assassino o dagli assassini che sta
cercando di stanare con le sue inchieste, che potrebbe o potrebbero
celarsi in ambienti a lui vicini ed affini, come i poeti, Fedeli
d’amore, con cui ha condiviso gli anni felici della giovinezza, e da cui
si è da tempo separato, non senza rimpianto (I delitti della Medusa), o
il cenacolo di sapienti, autonominatosi Terzo Cielo, che lo considera
con ammirazione maestro di poesia, e conosce i suoi versi a memoria (I
delitti del mosaico), compiacendosi di declamarli davanti a lui per
lusingarlo. Dante è un uomo spaventato più dai segni inquietanti che
percepisce nelle trame criminose con cui si trova a interagire, che
dalle concrete presenze malevole che lo attorniano; non teme gli uomini,
quindi, ma i loro disegni inesplicabili che avverte essere sovversivi
quei principi di ragione in cui crede in modo assoluto. In un dialogo
segreto tra il cardinale e un suo pernicioso scherano, i due
s’interrogano su quanto il poeta investigatore sia riuscito ad ottenere
nell’indagine che sta conducendo: «Credete che sia sulla pista giusta? –
No. Ne sono certo. E’ confuso, accecato dalla sua perversa fede nella
ragione». Dante, dice l’alto prelato, ha la «folle convinzione che la
ragione umana possa penetrare in tutti i segreti della natura e
dell’agire umano. E’ per questo che adesso è perso in un labirinto,
senza capire che sono i suoi stessi passi che ne generano le deviazioni
e gli angoli ciechi, a mano a mano che avanza nella ricerca»
[
15 ].
L’intuizione di Giulio Leoni è interessante: Dante, alle prese con
omicidi non comuni ma spettacolari, abnormi, allarmanti per come sono
stati allestiti, capisce che non sono altro che rappresentazioni
sceniche e teatrali di messaggi che qualcuno rivolge a chi può
intenderli e interpretarli. E chi meglio di lui, potrebbe farlo?
Come il suo poema, attraverso il viaggio nei tre regni dell’oltretomba,
è una rappresentazione simbolica dell’ascesi dell’uomo che deve ergersi
dalle tenebre del peccato alla luce della grazia, così l’indagine
criminologica è un percorso conoscitivo, da svolgersi a piccole tappe,
attraverso vari turbamenti e prove dolorose da superare, alla ricerca
della verità, per ottenere il ripristino dell’ordine infranto e la
vittoria finale del bene sul male. Non a caso, in un giornale cattolico,
una recensione di Bianca Garavelli si chiude con queste parole: «Dante è
pur sempre, nonostante le sue ire esplosive, le sue paure e i suoi
traviamenti sensuali, una forza del bene, un convinto difensore della
cristianità e della suprema giustizia»
[
16 ]. Questo Dante investigatore sa
che deve affrontare situazioni sgradevoli e rischiose, fino a subire
attentati alla propria vita, nonché incorrere in imbarazzanti cedimenti
a sue momentanee debolezze (la lussuria) e alla tentazione del peccato;
del resto, ci viene ricordato come sia stato anche un uomo d’azione, che
ha combattuto nella battaglia di Campaldino nel 1289 contro i ghibellini
di Arezzo, e quindi sia avvezzo a gettarsi nella mischia e anche pronto,
se necessario, a inoltrarsi nei meandri bui e nelle cavità che conducono
nelle viscere della sua città, che gli si rivela così in altre
impreviste forme. Reagisce con temerarietà e persino con combattiva
spavalderia alle intimidazioni e offese che gli vengono poste, in ciò
spinto forse più dal suo pessimo carattere, facile al risentimento e
scarsamente tollerante, che dalla fatalità del momento. Per lo stesso
motivo, la sua innata superbia unita a bizzosa litigiosità (gli sembra
sempre che gli altri non lo tengano nella dovuta considerazione), lo
pongono in continuo urto con le persone. Sempre pronto alla battuta
tagliente e offensiva nei confronti degli inopportuni, è un uomo
isolato, poco amato e poco rispettato nella sua città, da tutti guardato
con sufficienza o temuto, a seconda delle circostanze. Come abbiamo
detto, i bargellini reagiscono con noncuranza ai suoi ordini di priore e
anche il popolino non ne ha soggezione. In un certo senso, egli non
appartiene a nessuno, fa parte per sé stesso. La sua grandezza poetica,
la sua cultura ed eccellenza intellettuale lo allontanano da
qualsivoglia autentico legame. Anche nell’ambito degli studiosi, gode di
meritata fama ma raramente di amicizia; i suoi affetti più cari, come
l’antico sodale Guido Cavalcanti, sono ormai separati da lui da
divergenti scelte politiche e opposte visioni del mondo. Di certuni, è
lui stesso a diffidare, sospettandoli di connivenza con gli assassini o
peggio ancora, di responsabilità diretta in quegli atti malvagi e perciò
non apre a nessuna alleanza (neppure con lo sconcertante ma simpatico
Cecco Angiolieri). Perché di una cosa è certo: sono proprio quegli
ambienti dotti e raffinati ad aver partorito quegli abominevoli delitti.
In questo, Leoni paga pegno alla tradizione del giallo classico
riproponendo nei suoi libri alcune particolarità che erano già chiare ai
primi commentatori del fenomeno. Annotava, ad esempio, Emilio Radius in
un famoso articolo del 1939, come nel poliziesco anglosassone i
criminali fossero tratteggiati sempre come persone d’eccezione e
geniali, e i loro delitti risultassero talmente sofisticati e diabolici
da richiedere un corrispettivo talento investigativo. I due casi di cui
si occupa Dante sono altrettanti enigmi, e quando si appresta a
tracciare la «mappa del peccato» che lo porterà, tassello dopo tassello
(come, in un puzzle o, appunto, in un mosaico) a ricostruirne il
malvagio disegno, egli sa di dover condurre uno scontro serrato con il
suo avversario, un duello che vede contrapporsi due menti fuori dal
comune. Scriveva Radius in quel lontano articolo: «L’intelligenza, la
cultura, l’educazione, l’eleganza sono state messe a servizio
dell’impunità, e rendono inafferrabile il colpevole, sulle cui rare e
scarse tracce bisogna quindi mettere non il poliziotto di mestiere,
conoscitore di avanzi di galera, ma il detective di eccezione, il
finissimo dilettante, il principe dell’indagine, l’uomo atto e disposto
a sostenere con lo squisito omicida una insidiosa conversazione su
ermetiche questioni»
[
17 ]. E’ un discorso che, mi sembra, si adatta
perfettamente al nostro caso. Infatti, Dante può essere considerato un
dilettante, per quanto ricopra in quel momento una carica istituzionale,
e non a caso instaura da subito una sdegnata distanza dal poliziotto di
mestiere, il Bargello, individuo in effetti piuttosto mediocre e
limitato. Questa rivalità ricorda quella stabilita da Conan Doyle
nell’antitetica coppia Sherlock Holmes-Lestrade (col gentiluomo
genialmente deduttivo pronto a ironizzare sull’ottusità del questurino),
che funge ancora da valido modello di riferimento. In nessun caso, però,
lo scrittore inglese avrebbe messo il suo eroe in ridicolo di fronte al
poliziotto sciocco, sminuendolo così nel ruolo, come invece il malizioso
Leoni si compiace di fare con il suo personaggio. Diversamente dal
granitico Sherlock Holmes, infallibile e mai veramente in difficoltà,
Dante deve subire i rovesci della sorte e umanamente mettere in mostra i
suoi lati più deboli e vergognosi: ad esempio, si fa cogliere in
flagrante mentre esce da un lupanare, umiliato dallo sguardo beffardo
del Bargello; oppure, pressato dai debiti, è costretto a sopportare il
disprezzo che non gli nasconde l’usuraio a cui si rivolge. Ma tutto
questo, e ogni altra cosa, rimane in secondo piano quando si concentra
sull’indagine. La comprensione delle motivazioni dell’uccisore lo
ossessionano, ne è come posseduto, vuole decifrarne il senso riposto,
anela che il delitto si possa tradurre in conoscenza. In quel frangente,
ogni altra incombenza viene intesa come indesiderata distrazione, un
fastidio da sbrigare in fretta, compreso i compiti del priorato, che
possono attendere momenti più opportuni. In verità è affascinato
dall’atto omicida e dalle sue implicazioni simboliche, poiché esso
rappresenta una violazione della ragione e insieme un insulto al
Creatore: «Un delitto (…) è parte principale del possibile agire che Dio
non vuole. Nel delitto contro la creatura prediletta del Signore si
riassume l’essenza stessa del peccato: E se, come dice il Filosofo, in
tre modi si viola il comandamento morale, così parimenti in tre modi si
uccide: per incontinenza, per malizia o per matta bestialità»
[
18 ]. Con
atteggiamento del tutto moderno, intuisce l’importanza di una scrupolosa
osservazione della scena del delitto, nei suoi particolari anche più
insignificanti; poi non consente a nessuno d’inquinare con false
credenze e superstizioni l’impressione in lui suscitata dall’elaborata
ostentazione dello stesso, l’impatto causato dalla postura del morto,
l’arcano messaggio lasciato dall’assassino. In seguito s’informa sulle
abitudini dell’ucciso, ricostruisce i giorni che precedono l’accaduto,
perché «ogni vittima sceglie il proprio carnefice e crea le condizioni
del delitto, che risulta modellato su di sé, non sull’assassino»
[
19 ].
Richiede persino un’esplorazione necroscopica del cadavere. Procede per
indizi, cercando di distinguere le false piste da quelle veritiere.
Ad ogni modo, l’indagine non è solo un percorso mentale, una ricerca di
significati, ma è anche un viaggio fisico, corporale, attraverso i
meandri della città, una vera e propria discesa agli inferi: «Bisognava
esplorare tutti i luoghi del delitto, riassumerli in un disegno
comprensibile, tracciare la mappa della città del peccato e dello zolfo,
i confini di Dite»
[
20 ]. La Firenze in cui vive gli appare, già di giorno e
alla luce del sole, una città corrotta, putrida, un ritrovo di ladri e
di mercanti, invasa da detestabile «gente nova», villani arricchiti,
inurbati provenienti dal contado, una folla che preme e procede come un
fiume in piena e non conviene camminarvi appresso se non si vuole essere
calpestati. Ma è di notte che mostra il suo volto nascosto, quando
emergono dal buio e dai suoi bassifondi i reietti, la feccia del genere
umano, l’orda dei mendicanti e di coloro che sono dediti a riti
blasfemi. Puntuale esegeta dell’opera dantesca, Leoni descrive una
Firenze notturna e sotterranea, labirintica e verminosa, scavata a
cunicoli e gallerie, che richiama I misteri di Parigi di Eugène Sue.
Dante vi si immerge temerariamente, scendendo per una cavità paurosa, in
prossimità del luogo dove è stato rinvenuto un cadavere (decisamente
quest’uomo ha una propensione per le esplorazioni nell’oscuro, è portato
a smarrire la retta via…). Ricordiamo che l’Inferno pensato dal poeta è
un’immensa voragine a forma di cono rovesciato, situata sotto
Gerusalemme. Leoni suggerisce che quell’esperienza investigativa sia
stata all’origine dell’ispirazione dantesca nella composizione del
poema: «Narrerò di una città. La città del dolore. E descriverò
ordinatamente il molto male e il poco bene che ho trovato fra le sue
mura. Tutta l’infinita frenesia del delitto e tutta la gloria della
virtù che lo contrasta. Questa sarà la mia opera, la Summa Criminalis.
In versi volgari, secondo l’uso moderno»
[
21 ].
* * *
Se non è pensato come uomo d’ordine, come nei libri di Giulio Leoni,
allora Dante può al contrario suggestionare la fantasia degli scrittori
come ispiratore di complicate trame criminali. Un giovane scrittore
americano, Matthew Pearl, si è divertito a ricostruire il clima
culturale del suo paese nell’Ottocento, quando l’allora mondo accademico
aveva dell’opera del nostro sommo poeta un’opinione alquanto severa e
moralistica: «Quale odio contro l’intera razza umana! Quale esultanza e
gaiezza davanti a sofferenze eterne e implacabili! Ci turiamo le narici
mentre leggiamo; ci tappiamo gli orecchi. Qualcuno ha mai visto, tutti
insieme, tanti lezzi, sudiciume, escrementi, sangue, corpi mutilati,
urla strazianti, mitici mostri castigatori? Alla luce di tutto questo,
non posso che considerarlo il libro più empio e immorale che sia mai
stato scritto».
In questo senso, Dante può decisamente essere considerato un grande
scrittore pulp, «molto pulp, pure troppo», direbbe il comico Bebo Storti
interpretando una sua macchietta, lo scrittore «cannibale» Thomas
Prostata
[
22 ].
Di Pearl non si può fare a meno di ammirare il garbo e la controllata
ironia con cui fa rivivere ambienti, mentalità e conversazioni di quei
compiti gentiluomini d’oltreoceano; il suo romanzo ricorda quei mobili
di recente fattura convenientemente invecchiati e tarlati prima di
passare per le mani di astuti antiquari e venduti come antichi (un solo
rilievo si può muovere all’autore, augurandogli una maggiore propensione
alla sintesi: questo libro poteva essere sfrondato di parecchie pagine,
e ne avrebbe guadagnato in ritmo e pregnanza). Prevalentemente costruito
sui dialoghi, al lettore rimane impresso l’eco di quei chiacchiericci
pomposi, l’odore dell’aria asfittica di quei salotti, la ristrettezza
mentale di taluni personaggi e la vacuità di altri, come anche la
pregnante caratterizzazione delle figure principali. Ricorda nel tono
una sophisticated comedy holliwoodiana, in certi momenti virata al
macabro, seguendo suggestioni dantesche (gli omicidi sono descritti, era
prevedibile intuirlo, come teatrali rifacimenti dei più impressionanti
passi dell’Inferno, una punizione terrena tesa a colpire riconosciuti
peccatori)
[
23 ]. E’ la legge del contrappasso, che l’autore americano
preferisce chiamare «controsofferenza… Il concetto secondo cui ogni
peccatore va punito infliggendogli gli effetti del suo peccato»
[
24 ]. Le
vittime, così come gli altri personaggi che animano coralmente il libro,
appartengono alla buona società bostoniana, e non appaiono
particolarmente odiosi né meritevoli di cotanto crudele spirito
punitivo; sono figure piuttosto incolori e mediocri, e solo
all’assassino, esasperato da una sua estremistica percezione del bene e
del male, suggestionato dalla visione dantesca, possono parere tali. E’
apparso chiaro ai commentatori del romanzo come esso voglia essere un
«omaggio al messaggio universale della Commedia, a un capolavoro senza
tempo»
[
25 ], ma certamente un pensiero intrigante sorge spontaneo nel corso
della lettura, giustamente densa di colpi di scena come si conviene a un
buon prodotto di genere: la poesia dell’Inferno di Dante può indurre a
un coinvolgimento talmente forte da ossessionare e rendere fanatici chi
ne rimane ammaliato, soprattutto se è una mente instabile e facilmente
suggestionabile. Così accade all’assassino, ma anche a un emigrante di
origine italiana, poi caduto in disgrazia e divenuto mendicante, che
finisce per suicidarsi: «Per lui, Dante è diventato un modo di scontare
i peccati che immaginava di aver commesso. (…) Ogni verso e ogni
vocabolo erano impressi in modo indelebile nel suo cervello e lo
riempivano di terrore»
[
26 ]. Inoltre, il testo dantesco era costante
nutrimento di un gruppo di studiosi (realmente esistiti) impegnati a
portare a termine la prima traduzione integrale americana della Divina
Commedia (pubblicata nel 1867), riuniti per l’appunto in quello che loro
stessi avevano denominato Circolo Dante. Questo nobile consesso, guidato
dal poeta Henry Wadsworth Longfellow, non tarda a rendersi conto del
senso criptico del messaggio insito negli spaventosi omicidi che
cominciano a insanguinare il loro ambiente sociale. Essendo gli unici
depositari del verbo dantesco, anche il responsabile di quegli atti in
qualche modo deve avere a che fare con il loro lavoro. Conseguentemente
decidono di investigare, evitando d’informarne la polizia per non essere
sospettati. Tutto lascia pensare, infatti, che il serial killer,
ribattezzato per l’occasione Lucifero, possa essere un attento
conoscitore della materia in questione: «Ancora una volta, dobbiamo
ammettere che ci troviamo di fronte alla mente di un brillante erudito,
dotato di tutti i mezzi necessari a ricreare alla perfezione
l’allestimento scenico di Dante. Il nostro Lucifero apprezza la
minuziosità della poesia dantesca. Nell’inferno di Milton tutto è vago,
ma quello di Dante è suddiviso in cerchi disegnati con compassi ben
appuntiti. Reale quanto il nostro mondo»
[
27 ].
Se l’assassino è un dantista, i nostri investigatori improvvisati non al
demonio incarnato dovranno pensare come bersaglio dei loro sforzi, ma
allo stesso lontano poeta che è alla base dell’ispirazione omicida, cioè
dovranno saper interpretare il poema prima del loro avversario: «Colui a
cui date la caccia non è un Lucifero (…). Quando l’Alighieri lo incontra
nel Cocito ghiacciato, Lucifero è puro mutismo, taciturno e
singhiozzante. (…) Colui a cui date la caccia è Dante. E’ lui a decidere
chi punire, dove collocarlo e quali patimenti infliggergli»
[
28 ].
* * *
Del sommo poeta, si sa, non si è conservato nessun documento autografo,
ed è grande rammarico per chiunque abbia a cuore la nostra storia
letteraria. Per averlo (immaginando che questa evenienza improbabile
possa ancora, in qualche modo, realizzarsi), si potrebbe arrivare ad
uccidere. Da questa suggestione prendono spunto due libri pubblicati
recentemente: L’isola dei morti di Valerio Massimo Manfredi e La mano di
Dante dell’americano Nick Tosches. Quello di Manfredi, che è autore
notissimo al pubblico, anche in funzione di divulgatore televisivo (il
suo programma «Stargate» si è inserito vivacemente nel solco tracciato
dagli Angela padre e figlio), è un esile libretto che si legge d’un
fiato e lascia aperta la curiosità per un possibile sviluppo, che
l’autore non ha ritenuto di concedere. Rimane una vicenda monca,
piuttosto curiosa, in cui alcuni archeologi si accorgono che una loro
importante scoperta può nascondere inquietanti retroscena e risultare
estremamente appetibile per individui privi di scrupoli, decisi a
sottrarre reperti di inestimabile rilevanza dagli scavi in corso e
utilizzarli ai propri scopi. Manfredi, a sua volta archeologo,
evidentemente parla di cose che nel suo ambiente accadono purtroppo di
frequente. La domanda fondamentale da cui è partito per ricostruire
questa sua storia è la seguente: «Vi siete mai chiesti come mai non
esista una sola parola in tutta la letteratura critica delle origini
sull’autografo dantesco della Commedia? Che fine ha fatto un documento
così importante? E visto che il primo commento del poema è a firma del
figlio Pietro, si dovrebbe supporre che a quel punto il manoscritto
fosse in mani sicure in grado di trasmetterlo ai posteri. In fondo
possediamo documenti originali ben più antichi della Commedia»
[
29 ].
Manfredi offre una sua suggestiva ipotesi e ricostruisce un antico
disegno criminoso a spiegazione di questo mistero (che ovviamente non
sveliamo). Ben più corposo e intrigante il romanzo di Tosches, dalla
struttura complessa e di notevole respiro letterario, che fa capire
senza ambiguità alcuna la differenza tra un libro confezionato per
essere un prodotto commerciale, pur di buon artigianato, e un’opera
letteraria che può decidere di utilizzare tra i suoi materiali anche il
noir, ma il cui risultato finale elude e oltrepassa qualsivoglia
etichettatura
[ 30 ]. Il fascino di questo romanzo è proprio nel suo essere
un prodotto ibrido, a due teste, di cui l’una è una trasfigurazione
dello stesso autore e ne porta il nome (è un uomo dei nostri tempi,
disincantato e vissuto, convenientemente privo di scrupoli) e l’altra è
un individuo di un lontano passato, un poeta grandissimo ma dubbioso
sulla validità della propria opera, che gli appare troppo impregnata di
retorica e d’artificio, bloccato per questo nella capacità di proseguire
nella creazione poetica, bisognoso di risposte che possano restituirgli
la capacità di provare vere emozioni. Queste due situazioni
corrispondono ad altrettanti registri stilistici (dimensioni temporali,
atmosfere narrative) diversissimi fra loro e però complementari, che si
possono cogliere da subito, come accade in ogni libro veramente buono,
nei primi capitoli.
Lungo quanto basta, il primo capitolo è un pugno nello stomaco: per
linguaggio, durissimo, scurrile e diretto (ogni moralismo è fuori luogo:
il linguaggio è quello che deve essere, né più né meno, data la
situazione narrata); per contenuto (sesso e violenza à gogo); per
efficacia (il lettore hard-boiled è immediatamente agganciato).
L’incipit è di grande impatto, e in prima lettura assolutamente
incomprensibile, ma stimolante un’inevitabile curiosità che troverà
soddisfazione solo diverse pagine dopo
[
31 ], quando si ritroverà in azione
l’inquietante figuro di cui si parla (che è, in realtà, un personaggio
secondario, ma svolge un ruolo decisivo nell’economia della narrazione,
soprattutto all’inizio): «Louie si tolse il reggiseno e lo gettò sulla
cassettiera» [
32 ]. L’effetto ottenuto con questa frase cresce addirittura
in seguito, quando si scopre che Louie è un vecchio bastardo malavitoso
di oltre sessant’anni, un essere sordido che uccide con noncuranza e
nessun rimorso, per naturale predisposizione, un persistente sessuomane,
con predilezione al travestitismo sadomasochistico. Il secondo piano
narrativo, al contrario, entra in sordina, con le riflessioni di un
bambino precocemente portato alle elucubrazioni astratte, e ci viene
detto che è il giovane Dante Alighieri, che trascorre una giornata come
fanno tutti i bambini (e purtroppo solo loro), sdraiato per terra ad
osservare nuvole e cielo («il cielo dell’illimitatezza»). Il
capitoletto, secondo del libro, è giustamente breve, un frammento
appena, ma apre allo svolgimento futuro del personaggio, che vedremo in
seguito nella sua piena maturità. Nick Tosches personaggio si presenta
nel terzo capitolo e per un po’ si racconta, in modo che il lettore
capisca che tipo è, quale è stata la sua vita, quali dolori e amori,
quali eventi anche traumatici lo hanno formato e fatto diventare quello
che è. Non si dubita che l’autore vi immetta molto di suo, ma non è dato
sapere fino a che punto. E’ un uomo, lo ammette lui stesso, amareggiato
e logorato; intenzionato, proprio perché nella sua vita molti giochi
sono finiti e lui si sente quasi al capolinea, a raccontare le cose come
stanno, senza abbellimenti e infingimenti: «Poiché non c’è rimasto nulla
da perdere, (…) non nasconderò nulla, né ci saranno verità da temere.
Non voglio lavorare duramente sulle parole. Cose del genere me le sono
buttate alle spalle, così come il mite pomeriggio da cui faccio iniziare
la mia storia»
[
33
]. Il Nick Tosches di queste pagine non è un tipo
simpatico, a cui ci si affeziona, al contrario è decisamente sgradevole,
ma in fondo ci importa poco. Alcune delle figure che più ci rimangono
impresse nei libri e nei film che amiamo, sono negative, e persino da
bambini a un certo punto cominciamo a tifare per quel gran vilain di
Pietro Gambadilegno piuttosto che per Topolino, noioso e prevedibile. Il
cuore pulsante dell’intera narrazione, comunque, non sono le due storie
parallele, ma ciò che le unifica in una sola dimensione concettuale: una
sofferta, e per nulla scontata, riflessione sulla scrittura e sull’atto
creativo, sul ruolo e il destino dell’essere scrittore
[
34 ], sulla
disperante impossibilità di riuscire a fissare con le parole ciò che è
inesprimibile: «Non puoi scrivere il Paradiso. Esso è qui, tra le
stelle, già scritto, e puoi leggerlo, ma non potrai mai esprimerlo o
crearlo se non attraverso la genuflessione del tuo silenzio»
[
35 ].
Il Dante di Tosches è, a modo suo, un’interpretazione creativa dell’uomo
e dell’opera, frutto di una lettura nient’affatto improvvisata, anzi
sostenuta da conoscenza approfondita e da un pensiero forte e originale.
Fa uscire dall’ombra e dà voce, con poetica sensibilità, a Gemma, la
moglie trascurata, svaluta l’esibizione della venerazione per Beatrice
in quanto artificio retorico fin troppo insistito, introduce due figure
inventate di saggi eruditi, col compito di guidarlo e aiutarlo ad uscire
dalle secche della sua aridità creativa, un anziano giudeo suo generoso
mecenate e un misterioso arabo capace d’illuminarlo verso la via del
disgelo della sua anima, aprendolo finalmente all’accoglienza in sé del
sentimento autentico dell’amore. Improvvisamente, alla fotografia che
campeggia in copertina, con la piega amara delle labbra e il volto
scavato di Tosches, si sovrappone ironicamente (nella nostra partecipe
fantasia di lettori) quella del Dante che ricordiamo dai ritratti della
tradizione che ci è stata tramandata, il naso solamente un po’ più
pronunciato nel fiorentino, e come ha scritto argutamente un recensore,
Antonio Monda, anche «la storia parallelamente segue la ricostruzione
della genesi del capolavoro di Dante e i riflessi con la sua tormentata
esperienza umana, e la discesa negli inferi della malavita americana»
[
36 ].
Quando lo ritiene necessario, Tosches abbandona il noir per virarlo in
un racconto criminale di mafia, dove recupera persino una sua conoscenza
diretta di Michele Sindona, su cui ha scritto in passato una biografia,
e gli dedica un paio di pagine piuttosto sorprendenti ed elogiative (si
capisce come lo scrittore sia affascinato dal Male e da alcune figure
che lo hanno incarnato nella storia recente). Oppure introduce una sua
riflessione controcorrente dei fatti dell’11 settembre 2001, con
l’attentato terroristico alle Twin Towers di New York, che colpisce per
un’ironia amara così inusitata per un americano, e si conclude con
un’invettiva altrettanto scioccante lanciata contro il monoteismo
religioso, considerato radice di tutti i mali, morte dell’anima,
malattia fatale dell’umanità.
* * *
In ultimo, nella geografia contemplata dal romanzo di Tosches troviamo
riferimenti anche a Ravenna. V’incontriamo il poeta in un momento
critico della sua esistenza, in cui «aveva la sensazione di trovarsi a
Ravenna non più che in una qualsiasi altra città, e di indugiare solo
tra la polvere dove calavano le ombre, e dove, nonostante i suoi occhi
fossero troppo smarriti per scorgerla, stava scritta la data della sua
morte; e la sua anima era ridotta a nulla, solo rovine e privazioni»
[
37 ].
Però non può rimanere insensibile alla magnificenza dei mosaici
bizantini: «Entrò nella Basilica di San Vitale per pregare. In vita sua
non aveva mai visto l’anima, l’occhio e la mano dell’uomo creare una
bellezza simile al mosaico celestiale di quella chiesa. Anni prima, nel
mettervi piede per la prima volta, alla luce delle candele, egli fu
talmente sopraffatto e abbagliato da ciò che gli apparve come una
miriade di arcobaleni a scaglie nel baluginio fulgente di una miriade di
soli, che non riuscì a distinguere le forme e le figure a causa
dell’accecante splendore del loro squisito insieme. (…) Lì, il sospiro
incombente di ciascun colore pareva gonfiarsi come un’onda»
[
38 ]. Sembra
dar ragione all’intuizione di una studiosa tedesca, Marianne
Langewiesche, la quale in un suo discusso saggio scriveva: «Ogni città è
immersa in un suo paesaggio che la caratterizza, Ravenna l’ha perduto
completamente. Al tempo di Galla Placidia e di Teodorico, quando la
città costruì le sue basiliche e le ornò di mosaici, Ravenna era
circondata da acque su tre lati, una città su palafitte, e percorsa
all’interno da innumerevoli canali, come Venezia. (…) I mosaici
ravennati vivevano in una luce diversa dall’attuale»
[
39 ]. La Ravenna di
oggi viene invece visitata dal Nick Tosches personaggio, nel corso delle
ricerche necessarie all’autentificazione del manoscritto dantesco di cui
è venuto in possesso, per ordine del mafioso americano che lo controlla
e lo fa pedinare da un suo scherano. In questo suo compito, si reca agli
Archivi di Stato di Verona e di Ravenna, accolto affabilmente dai
pubblici dirigenti delle istituzioni culturali di quelle città, che non
sospettano le intenzioni scorrette del loro visitatore, del resto
accompagnato da ineccepibili referenze recanti il sigillo Vaticano.
Annota sornione l’autore: «Erano credenziali impressionanti,
specialmente per un direttore di biblioteca, e in particolare per i
direttori delle biblioteche italiane»
[
40 ]. Quei solerti funzionari gli
fanno buona impressione: «Ero ben vestito e indossavo una camicia blu.
Dissi che stavo cercando dettagli su certi affari politici del primo
Trecento, e che pertanto desideravo esaminare documenti ufficiali (…).
Anche il direttore era ben vestito. La cosa mi fece piacere, perché gli
archivisti e i bibliotecari erano i custodi di ciò che rimaneva della
cultura. Erano uomini e donne che meritavano dignità, ma che di rado se
la vedevano riconoscere. Era bello vederne uno che pareva perfettamente
consapevole della dignità che gli era dovuta, e che almeno la
riconosceva a se stesso»
[
41 ]. Un elogio di questo genere non può che
commuovere i nostri bistrattati e incompresi bibliotecari, ma è meglio
che stiano allerta e non abbassino la guardia (come già sanno nella loro
pratica quotidiana, quando giustamente diffidano delle petulanti
richieste degli utenti, mai contenti e ridicolmente insistenti nelle
loro pretese). Infatti, quell’insospettabile studioso non avrà remore a
sottrarre preziosi documenti e portarli via con sé, e, ancora peggio,
quel losco figuro che lo segue come un’ombra deciderà di uccidere
proprio quei dignitosi archivisti per “cancellare le tracce” del suo
passaggio [
42 ]. Meglio guardarsi le spalle e se proprio sentiamo il bisogno
di occuparci di poesia, conviene farlo di nascosto, senza dare
nell’occhio. Non si sa mai.
Note
1 Un fenomeno analogo sta avvenendo nella produzione seriale televisiva; Cfr. G. Romagnoli, La tv di notte che racconta la vita, «La Repubblica»,
9 lug. 2004.
2 Questo dei “gialli letterari” è considerato ormai come un vero e
proprio sottogenere (Cfr. R. Chiti, Gialli letterari: quando lo
scrittore fa il detective, «Sette»,
4 mar. 2004); tra i capostipiti,
possiamo trovare tradotti in lingua italiana: T. Mathieson, Quando il
genio indaga, Milano, Mondadori, 1992 («I classici del giallo» n. 658);
G. Baxt, Un’indagine per Dorothy Parker, Milano, Mondadori, 1989 («Il
Giallo Mondadori» n. 2125); M. Doody, Aristotele detective, Palermo,
Sellerio, 1999.
3 Cfr. G. Pioli, Che best seller il ritorno di Cristo «giustiziere», «Il
Resto del Carlino», 4 mag. 2004; S. Kramar, Il romanzo più illeggibile
diventa un best seller, «Il Giornale», 27 mag. 2004; P. Floridi, Una
storia erotica ma molto intellettuale, «La Repubblica», 23 lug. 2004. Il
secondo romanzo di cui si parla è stato pubblicato anche in Italia: I.
Caldwell, D. Thomason, Il codice dei quattro, Casale Monferrato, Piemme,
2004.
4 G. Romagnoli, Sembra facile, ma è scritto in codice, «Musica», 13 mag.
2004. Come era già successo al primo romanzo di Umberto Eco, Il nome
della rosa, anche il libro di Brown sta figliando una miriade di manuali
(i cosiddetti «testi secondari») che lo commentano, ne mettono in
discussione i presupposti storici, in varia misura lo criticano, in
questo modo attestandone però l’importanza (Cfr. L. Lipperini, Il libro
sul libro: il codice fa industria, «Il Venerdì di Repubblica» 30 lug.
2004).
5 F. Loira, Un giallista del trecento: Dante Alighieri, «Il Montani», 1
(mar. 1994), pp. 9-10.
6 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, Milano, Mondadori,
2000 («Il Giallo Mondadori» n. 2707), p. 195.
7 Ibid., p. 199. Leoni, visti i buoni risultati, ha perseguito nel
genere, variando trame e personaggi, trovando sempre accoglienza nei
tascabili da edicola della Mondadori (prima di essere “promosso” in
libreria negli «Omnibus» col suo ultimo lavoro): la Germania tra Weimar
e nazismo in La donna sulla luna, Milano, Mondadori, 2002 («Il Giallo
Mondadori n. 2775) e l’impresa fiumana di D’Annunzio in E trentuno con
la morte…, Milano, Mondadori, 2003 («I classici del Giallo Mondadori» n.
949. Lo stesso personaggio di D’Annunzio era già apparso qualche anno
prima in un romanzo di Luca Masali, I biplani di D’Annunzio, Milano,
Mondadori, 1996 («Urania» n. 1296).
8 G. Leoni, I delitti del mosaico, Milano, Mondadori, 2004.
9 S. Sieni, Quel divino detective all’ombra dei Templari, «Il Resto del
Carlino», 9 feb. 2004.
10 Il 1300, ricordiamolo, è l’anno del primo Giubileo, bandito da Bonifacio VIII, che segna il culmine del prestigio papale e della sua
politica teocratica. La vittoria definitiva della fazione dei guelfi
Neri, rappresentanti il «popolo grasso» e le «Arti maggiori», sostenuta
dal papa e da Carlo di Valois, condannerà Dante (appartenente ai
Bianchi), che si era più volte opposto alle pretese della Curia Romana,
all’esilio.
11 Il Bargello era un funzionario incaricato del servizio di polizia in
molte città italiane del Medioevo.
12 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, cit., p. 9.
13 Ibid., p. 14.
14 Ibid., p. 136.
15 G. Leoni, I delitti del mosaico, cit., p. 209.
16 B. Garavelli, Un romanzo-thriller su Dante investigatore nella città
di Firenze, «Avvenire», 27 mar. 2004.
17 E. Radius, Autarchia ed etica del romanzo giallo, «Corriere della
Sera», 29 apr. 1939.
18 G. Leoni, Dante Alighieri e i delitti della Medusa, cit., p. 162.
19 G. Leoni, I delitti del mosaico, cit., p. 74.
20 Ibid., p. 272.
21 Ibid., p. 276.
22 M. Pearl, Il Circolo Dante, Milano, Rizzoli, 2003, p. 55. La
citazione della battuta del comico Bebo Storti è tratta da una
trasmissione televisiva molto popolare, «Mai dire goal», del 1997.
23 I riferimenti alla tradizione di genere, sia letteraria che
cinematografica, si sprecano e sarebbe vano cercare di riportarli in
maniera esaustiva. Ci basti citare, quali modelli di molti prodotti
epigoni, il film di David Fincher, Seven, del 1995, in cui l’omicida
seriale prende spunto dai sette peccati capitali della religione
cattolica per le sue imprese e il romanzo di Jeffrey Deaver, Il
collezionista di ossa (Milano, Sonzogno, 1998), anch’esso tradotto in
film per la regia di Phillip Noyce nel 1999, in cui è proprio un
misconosciuto romanzetto giallo ad ispirare il disegno criminoso.
24 M. Pearl, Il Circolo Dante, cit., p. 284.
25 L. Di Iorio, Omaggio alla Divina Commedia. In giallo, «Europa», 22
nov. 2003. Si vedano anche le recensioni di L. Manera, «Corriere della
Sera» 10 set. 2003 e di R. Carnero, «Letture» nov. 2003.
26 M. Pearl, Il Circolo Dante, cit., p. 238.
27 Ibid., p. 310.
28 Ibid., p. 332.
29 V.M. Manfredi, L’isola dei morti, Venezia, Marsilio, 2004, p. 64.
Anche Tosches mette in campo uno dei figli di Dante, Jacopo, nelle
ultime pagine del suo romanzo, convinto che sia questi l’autore della
parte finale del Paradiso e non il padre; ricordiamo inoltre, come altri
autori in passato abbiano romanzato queste figure storiche, ad esempio
Luigi Ugolini, con Il figlio di Dante (Torino, SEI, 1947).
30 E’ un’annosa e irrisolta questione: il compianto Giuseppe Petronio,
ad esempio, non condivideva l’uso del termine “paraletteratura” per
indicare la letteratura di consumo o di genere (Cfr. G. Petronio, Sulle
tracce del giallo, Roma, Gamberetti, 2000), considerandolo viziato da
pregiudizio o sottovalutazione; ma se un professionista autorevole come
Valerio Evangelisti lo riassume come garanzia di serietà deontologica (Cfr.
V. Evangelisti, Sotto gli occhi di tutti, Napoli, L’ancora del
mediterraneo, 2004), allora ci sentiamo autorizzati a proseguire su
questa strada. Inoltre, una oculata capacità di distinzione evita molta
confusione nonché inutili e risapute polemiche, come quella riproposta
da un articolo di Roberto Cotroneo di qualche mese addietro (R. Cotroneo,
Giallo elementare, «L’Unità», 15 feb. 2004).
31 Cfr. N. Tosches, La mano di Dante, Milano, Mondadori, 2004, p. 127.
32 Ibid., p. 7.
33 Ibid., p. 20.
34 Tosches vi innesta, a un certo punto, anche una rabbiosa polemica
sullo stato delle cose nell’industria culturale e nell’editoria
americana, che potrebbe trovare punti di convergenza pure qui in Italia.
35 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 152. Con minore pregnanza
narrativa, anche Pearl affronta un concetto simile, quando fa dire a un
suo personaggio: «Una volta non fu lo stesso Dante a scrivere che è
impossibile tradurre la poesia? Eppure, ci riuniamo ogni settimana e
uccidiamo le sue parole senza rimorso» (M. Pearl, Il Circolo Dante, cit.,
p. 171). Annosa questione.
36 A. Monda, Tosches all’inferno sulle orme di Dante, «Il Venerdì di
Repubblica», 16 lug. 2004.
37 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 196.
38 Ibid., p. 249.
39 M. Langewiesche, Ravenna crocevia di popoli, Ravenna, Edizioni del
Girasole, 1980, p. 20.
40 N. Tosches, La mano di Dante, cit., p. 165.
41 Ibid., pp. 165-166.
42 Cfr. Ibid., pp. 200-202. |
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