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Io cittadino dell’«altra» America

di Herry Kreisler

 
     
 

I veri protagonisti dei vari avvenimenti erano diversi da quelli che venivano maggiormente ricordati sui libri di testo, così come erano diversi i vari periodi della nostra storia nazionale. Ad esempio, la cosiddetta età progressiva (i primi venti anni del XX secolo, ndr), non era poi così tanto “progressiva”: era il tempo in cui la gente di colore veniva linciata, come in qualunque altro momento della storia americana. Ho cominciato allora a leggere gli storici neri. Ma intanto stavo imparando un’altra cosa, ancora più importante: a impegnarmi nel movimento contro la segregazione razziale.

 Come è stato il suo incontro col movimento per i diritti civili?

Muovendomi da Atlanta verso Albany, Georgia, e partecipando alle varie dimostrazioni di Selma, Alabama, Mississippi, Hattiesburg, Greenwood, Greenville, Jackson. Tutto ciò mi ha insegnato qualcosa di molto importante circa la democrazia, o, per meglio dire, quell’idea di democrazia che viene trasmessa nelle varie scuole del Paese e che si riduce sostanzialmente a tre fattori: istituzioni, costituzione, voto. Quella non era “la democrazia”, perché da lì non era nata una condizione di uguaglianza per la gente nera; non era riuscita, infatti, a fare rispettare il  quattordicesimo e quindicesimo emendamento della costituzione (quelli riguardanti i diritti civili e di voto, ndr). Tutti i presidenti degli Stati Uniti che si sono succeduti, dalla dichiarazione di indipendenza in poi, per cento anni avevano violato il loro giuramento  non facendoli rispettare.

La democrazia è diventata una cosa viva quando la gente di colore ha cominciato a scendere nelle strade a dimostrare, ha organizzato i sit-in e si è fatta arrestare. Avrei dovuto sapere prima che la democrazia è una cosa viva non quando il governo fa qualche cosa, ma quando la gente si organizza e fa qualcosa. Il movimento nero del Sud mi ha insegnato proprio questo.

Lei ha scritto: “Nessuna cosa, come un picchetto o anche una riunione mal organizzata, dovrebbe essere disprezzata come insignificante”.

Quando partecipiamo abbastanza a lungo a dei movimenti sociali, tanto da vederli crescere in qualcosa che all’inizio poteva sembrare impossibile, scopriamo che si stanno trasformando in una forza che può determinare un cambiamento. Ho visto questo nel movimento per i diritti civili e nel movimento pacifista. In entrambi i casi accadevano piccoli fatti che sembravano non portare da nessuna parte. Eppure il cambiamento è avvenuto proprio nelle regioni più pericolose del Paese, come il profondo Sud, dove tutto era controllato dai bianchi e i neri non avevano alcun mezzo per opporsi a ciò. L’unica cosa che possedevano erano i loro corpi, la loro determinazione, l’unità, la loro volontà di assumersi una responsabilità. Tutto comincia dalle piccole cose.

Nessuno, verso la fine degli anni ‘50 e durante la prima metà degli anni ‘60, sapeva realmente che qualche cosa di grande stava per accadere. Il movimento pacifista cominciò a crescere in varie parti del Paese partendo da piccole riunioni. Dovevamo fermare la più grande macchina bellica del mondo. Quegli incontri di poche persone, quelle dimostrazioni, in parecchi anni, si sono trasformate in un movimento che è diventato abbastanza potente per indurre il governo a pensarci due volte prima di decidere di continuare la guerra in Vietnam.

Lei ha detto: “Sono convinto dell’importanza dell’azione umana nel cambiare ciò che sembra immutabile”. Inoltre ha partecipato ad uno dei primi, se non al primo teach-in contro la guerra del Vietnam, a Boston. Me ne può parlare?

Quella primissima riunione pacifista avvenne quando il presidente d’allora, Lindon Johnson, succeduto a Kennedy, aveva deciso l’escalation della guerra: bombardamenti e invio di nuove truppe. Abbiamo tenuto la nostra prima riunione pacifista nel parco centrale di Boston; eravamo circa un centinaio. Parlò Marcuse, parlai anch’io ed altri. Eravamo veramente pochi. Era il ‘65. Nell’ottobre del ‘69 ne facemmo  un’altra, sempre in quel luogo. Ma questa volta eravamo in 100mila. Nel giro di pochi anni era avvenuto qualcosa di molto importante. Continuando a mobilitarci, avevamo indicato la possibilità di cambiare.

Voglio raccontarle un altro episodio. Era il maggio del ‘70. Stava crescendo nell’opinione pubblica una forte reazione contro la guerra nel Sud Est asiatico. Sempre a  Boston, in circa un centinaio, decidemmo di sederci davanti ad una base dell’esercito ed ostruire così la strada percorsa dai bus che trasportavano i coscritti. Non eravamo così sciocchi da credere che facendo quello avremmo fermato le partenze dei soldati verso il Vietnam. Era un gesto simbolico. Fummo tutti arrestati e incriminati secondo una vecchia legge contro gli oziosi, i vagabondi, per aver bloccato il traffico.

Otto di noi rifiutarono di dichiararsi colpevoli, sperando di persuadere i membri della giuria che il nostro era stato un atto giustificato di disobbedienza civile. Non riuscimmo a convincerli. Fummo riconosciuti colpevoli; scegliemmo la prigione piuttosto che pagare la multa  che ci avrebbe permesso di ritornare in libertà. Ma il giudice, apparentemente riluttante a spedirci dentro, ci diede 48 ore di tempo per cambiare idea.

Dopo di che, o avremmo dovuto versare l’ammenda o saremmo finiti dietro le sbarre. Nel frattempo, ero stato invitato alla Johns Hopkins University per dibattere con il filosofo Charles Frankel proprio sul tema della disobbedienza civile. Pensai che sarebbe stato un’ipocrisia per uno come me, fautore di tale forma di resistenza, sottomettermi alla decisione della corte e perdere così l’occasione di parlare a centinaia di giovani. Così, il giorno in cui avrei dovuto presentarmi al giudice, volai a Baltimora, e quella sera tenni il mio discorso. Al mio rientro due agenti mi stavano aspettando per condurmi immediatamente in tribunale. Così feci i miei due giorni di prigione.

La partecipazione al movimento pacifista ha origine, in parte, dalla sua esperienza, come soldato, nella Seconda guerra mondiale. Mi può parlare di quell’esperienza?

Deve sapere che mi ero arruolato in aeronautica. Mi ero offerto come volontario. Ero un aviatore pieno di entusiasmo. E ciò per una semplice ragione: era una guerra contro il fascismo. Loro erano i cattivi, noi i buoni. Una delle cose che ho imparato da quell’esperienza, è che quando si comincia, una volta che si ha preso una decisione, se si è dei militari, non si deve più pensare. Da quel momento in poi, si è capaci di fare qualunque cosa, persino delle atrocità. E ciò che è accaduto a me. La guerra era quasi finita. Tutti sapevano che la guerra in Europa stava per concludersi. Eravamo stati inviati in missione dall’Inghilterra sopra il continente. Non c’era più alcun motivo per volare ancora. Le nostre truppe erano oramai in Germania. I russi e gli americani stavano per incontrarsi sull’Elba. Era una questione di poche settimane. Siamo stati svegliati nelle prime ore del mattino e ci dissero che stavamo partendo per una nuova azione. Le cosiddette “persone intelligenti” che ci impartirono le direttive prima che salissimo sull’aereo, ci dissero che stavamo andando a bombardare una città molto piccola, sul litorale atlantico della Francia, Rohan, vicino a Bordeaux. Lì c’erano ancora 1000 soldati tedeschi. Ma non stavano facendo nulla. Stavano solo aspettando che la guerra finisse. E noi siamo andati a bombardarli.

Nel ricordare quell’episodio, come pensa che avrebbe dovuto reagire agli ordini dei suoi superiori?

Nel ripensare a quella storia, una cosa mi viene sempre in mente: che non mi sono alzato in piedi durante la riunione preparatoria per esprimere la mia opinione sulle istruzioni che stavamo ricevendo. Avrei dovuto dire: “Perché stiamo facendo questo? La guerra è quasi finita; che bisogno c’è?” Ma non dissi niente. Da quel giorno ho capito come si possono commettere delle atrocità, e come funziona la mente di un militare. Si deve solo imparare ad eseguire meccanicamente le procedure che ci hanno insegnato. E basta.

Così abbiamo sorvolato Rohan; nell’istruzione ci avevano anche detto che stavamo per usare delle bombe differenti dalle solite. Anziché quelle da demolizione, questa volta stavamo trasportando 30 scatole metalliche da 100 libbre (circa 45 chili, ndr) di benzina gelatinizzata, cioè napalm. Era la prima volta che il napalm veniva usato in quella guerra. Così abbiamo distrutto le truppe tedesche, ma anche la città francese di Rohan. Era un “fuoco amico”, come si direbbe oggi.

Da quel giorno, quando sento i leader del mio Paese dire che questo è un bombardamento di precisione e che stiamo facendo molta attenzione…. Non importa quanto sia sofisticata la tecnologia che si usa; quando cadono le bombe non è possibile evitare di uccidere i civili. A questi problemi ci sono ritornato sopra col pensiero solo dopo la fine della guerra. Dopo Hiroshima e Nagasaki. Inizialmente avevo salutato con soddisfazione la fine del conflitto, come tutti del resto. Poi ho letto il libro su Hiroshima di John Hershey e per la prima volta mi sono reso conto delle conseguenze prodotte dalle bombe. Quando sta cadendo un ordigno da 30mila piedi di altezza, non sentite le grida di chi sta sotto. Non vedete il sangue.

Improvvisamente mi sono reso conto degli effetti della bomba sganciata su  Hiroshima. Ho cominciato a ripensare all’idea della “buona guerra.” E sono giunto alla conclusione che non esiste una “buona guerra”. Possiamo forse ammettere le buone intenzioni, almeno da parte della gente che combatte, ma non da parte di chi prende le decisioni. Ci possono essere forse delle buone intenzioni da parte dei soldati che ci credono, questo sì; pensano di battersi per una causa giusta. Ma quelle buone intenzioni si corrompono rapidamente. I buoni diventano malvagi. Così mi sono convinto che la guerra non rappresenta una soluzione per alcun serio problema. Può sembrare una soluzione eliminare un dittatore, come abbiamo fatto con Hitler o Mussolini. Ma facendo ciò non si risolvono i problemi fondamentali. Però, intanto, si uccidono milioni di persone.

Come applicate tale consapevolezza allo studio e all’insegnamento della storia?

Lavorando in un cantiere navale tra i giovani operai, avevo cominciato ad interessarmi della storia dei lavoratori, delle loro lotte negli Stati Uniti. Sui libri cercavo i grandi scioperi tessili del 1912, quello del carbone nel Colorado del 1913. Cercavo Mamma Jones, Emma Goldman, Big Bill Haywood (attivisti e leader del movimento operaio americano, ndr). Ma non li trovavo. Così mi è diventato chiaro come la gente veniva ingannata dalla storia che doveva studiare, non perché si scrivessero delle bugie, ma solo perché molti fatti venivano

semplicemente omessi. Se si dice una bugia, la si può verificare. Se invece qualcosa è dimenticata, taciuta, non c’è modo alcuno di conoscerla. Ho studiato come si affrontava il problema delle razze, le condizioni a cui venivano sottomesse le donne; e mi sono accorto, ad esempio, che rimaneva fuori il punto di vista dei nativi. E allora ho cominciato a leggere Bartolomè de Las Casas (vedi MO, 4/2004).

Arthur Schlesinger aveva scritto un libro per spiegare l’idea di democrazia che aveva Andrew Jackson. Ho scoperto che Jackson aveva riservato ai nativi del Sud est un brutale trattamento, che aveva causato tra loro migliaia di morti. Jackson era un razzista. Sotto di lui il sistema industriale andava avanti perché ai laminatoi i padroni mettevano a lavorare ragazzine di 12 anni che morivano all’età di 25. Sono diventato cosciente delle cose taciute dai libri di storia, e ho provato a rimediare.

Che cosa rappresenta per lei, come storico e attivista, il coraggio?

Posso essere gettato in prigione per un giorno o due, e questo mi è capitato otto o nove volte. Posso avere una riduzione dello stipendio; ma queste sono piccole cose se le confrontiamo con quello che accade alla gente nel mondo. Non occorre avere molto coraggio per fare quello che ho fatto io. Ho avuto due amici nell’aeronautica; entrambi sono stati uccisi nelle ultime settimane di guerra. Penso che dopo che si ha vissuto un’esperienza di guerra, sentirsi dire: “Siete disposti a rischiare il vostro lavoro? a rischiare un taglio di stipendio?”, è ben poca cosa se guardiamo ai rischi che si corrono nel mondo oggi.

Ha scritto che “la formazione scolastica diventa più ricca e viva quando si confronta con la realtà del conflitto”. Cosa significa?

Quando nella primavera del ’60, con le mie allieve, sono andato a Boston a fare un sit-in - era la prima volta che quelle ragazze partecipavano a una dimostrazione -  e siamo stati arrestati, ho avuto delle colleghe dello  Spelman, del Morehouse College, e dellAtlanta University - in sostanza l’insieme delle università nere - che mi hanno detto: “Ciò che hai fatto è sbagliato, stai danneggiando la loro formazione”. Una di loro ha scritto una lettera in cui deplorava quanto le mie allieve avevano fatto. Ed ho pensato a quanto fosse riduttiva, povera, quest’idea di formazione, e quanto invece fosse utile per queste giovani confrontare ciò che stavano imparando sui libri con quanto apprendevano della realtà del mondo esterno attraverso la loro esperienza diretta. Pensavo: “Verranno dalla città, ritorneranno dalla prigione ed allora, quando entreranno nella loro biblioteca, lo faranno con un entusiasmo e una curiosità che prima non avevano “.

Penso che studiare la storia sia un modo per dire: “Non potete ingannarci”. Se non possiedo alcuna conoscenza storica, qualunque persona, autorità, il presidente stesso, può annunciare che dobbiamo bombardare qui, che dobbiamo andare là, e non posso fermarli anche perché non conosco la storia. Posso soltanto credere a ciò che mi viene detto. Qui c’è un presidente che ci sta dicendo di andare a fare la guerra per la democrazia. Ed allora bisogna ricordare quante volte i vari presidenti ci hanno detto che stavamo andando a fare la guerra per la democrazia e che cosa quelle guerre realmente sono state. La storia può chiarire le cose; ci prepara ad occuparci della vischiosità del mondo reale.

Dalla lettura del suo lavoro, si ha l’impressione che lei mantenga una sorta di “dolce ottimismo” sulla natura umana.

Gli storici non devono essere dolci. Ma ottimisti sì; piuttosto parlerei di un ottimismo prudente. Prudente nel senso che le cose stanno andando per il verso giusto. Il futuro è indeterminato. Ma dopo tutto, il futuro dipende da che cosa siamo oggi. Se siamo pessimisti, in avvenire saremo condannati. Se ci comportiamo partendo dal presupposto che c’è una probabilità che qualche cosa di buono possa accadere, allora abbiamo una possibilità. Non una certezza, ma una possibilità sì. Per questo credo che sia utile essere ottimisti. Non è semplicemente un atto di fede; c’è la prova storica che quando la gente si unisce e si organizza, determina il cambiamento. Non ce ne sono stati tanti, ma possiamo guardare a quelli e dire che non sono stati abbastanza. Ma alcuni cambiamenti ci sono stati: chi lavora, lottando, ha ottenuto la giornata di otto ore. I neri nel Sud hanno abolito la segregazione. Le donne hanno cambiato la coscienza di questo Paese sul problema dell’uguaglianza sessuale. Anche se questi sono soltanto degli inizi, l’esperienza storica ci suggerisce che c’è un buon motivo per pensare che sia possibile che altre cose possano cambiare. 

Che consiglio darebbe ai suoi allievi? Che lezione potrebbero imparare dalla sua vita?

Ci sono tante cose che si possono imparare. Una cosa è che anche se si è parte di un movimento il cui futuro è incerto, se si sta provando a realizzare un obiettivo che sembra molto lontano, solo impegnarsi per esso rende la vita più interessante e più utile. Così come non si deve cercare a tutti i costi una vittoria. Le relazioni con la gente durante una lotta comune per qualcosa in cui tutti credono: quella è già una vittoria in sé.

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