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Il giorno delle nozze della regina Elisabetta Seconda, mentre tutta la
stampa del Regno Unito e del mondo intero si lasciava andare a un'orgia
di notizie, fotografie e interviste a storici, ecclesiastici, sarte,
gioiellieri e produttori di mirabolanti torte nuziali, il quotidiano
comunista londinese "Daily Worker" dedicò l'intera prima pagina alla
cronaca minuziosa del matrimonio di un'oscura dattilografa, di nome Mary
Smith (o qualcosa del genere). Era certamente uno sberleffo
repub-blicano; ma era anche qualcosa di più: un richiamo contro la
convinzione dei mass-media che la Terra, la storia e la vita delle
persone siano importanti solo se legate ai VIP o espresse in cifre con
molti zeri.
Temo (in realtà ci sono abituato) di essere considerato un idiota o un
inguaribile terzomondista (che poi per molti miei autorevoli colleghi è
la stessa cosa ) se dedico la prima parte di questa LETTERA alla
vittoria elettorale delle sinistre in Uruguay invece che alle imminenti
elezioni negli Stati Uniti. Lo faccio per molteplici ragioni che
chiarirò, la prima delle quali è che le elocubrazioni Bush-Kerry sono
ormai al momento della verità e, la seconda, che almeno un terzo degli
uruguaiani è di ascendenza italiana. Ciononostante la nostra cosiddetta
opinione pubblica sa ben poco di questo paese latino-americano, patria
di grandi scrittori come Juan Carlos Onetti, Mario Benedetti ed Eduardo
Galeano. Voglio allora raccontare ai più giovani fra i miei lettori, e
ricordare ai meno giovani, che, nell'interminabile inverno delle
dittature militari latino-americane, dall'inizio degli anni '70 al 1985,
dell'Uruguay si potè dire che era "un piccolo paese trasformato in un
immenso carcere". Il fascismo dei militari, la loro ossessione
anticomunista si abbatterono sulla popolazione con feroce brutalità, Le
prigioni erano tanto affollate che talvolta i detenuti erano costretti a
dormire nei cortili, sotto le intemperie. La pratica di orrende torture,
diffusa al punto da poter essere considerata "normale". Come raccon-tò
Costa Gavras nel suo "L'amerikano", istruttori di sevizie
particolarmente efferate e "scientifiche" venivano forniti dal
Pentagono. Le desapariciones erano frequenti. Centinaia di migliaia di
uruguaiani furono costretti a fuggire, in esilio. Non pochi furono
raggiunti e assassinati dagli sgherri dell'Operazione Condor,
l'internazionale del terrore fondata da Pinochet. Poi, per molteplici
ragioni, alcune delle più importanti dittature latino-americane
crollarono sotto il peso della loro stessa insensatezza, con una specie
di "effetto-domino": una dopo l'altra, quella brasiliana, quella
argentina e infine quella uruguaiana. Mentre rimanevano al potere i
regimi militari andini, cileno e paraguaiano, in Brasile, in Argentina e
in Uruguay. essi si trasformarono nelle cosiddette "democradure":
miscele di democrazia e dittatura o, meglio, precarie democrazie
controllate e limitate dai militari.
Quando Clotilde ed io vi arrivammo, nel tardo agosto del 1985, in
Uruguay questa trasformazione era appena avvenuta e il paese viveva una
inquieta atmosfera, insieme dolorosa e coraggiosa. Ricordo quella
Montevideo: una città completamente "europea" strangolata, a partire
dagli anni '50, dalle leggi del commercio internazionale, le quali
alzavano (e alzano) i dazî contro l'esportazione dei prodotti uruguaiani
(carne, cuoio, lana): palazzi mai portati a termine, negozi bellissimi e
vuoti, maree di cittadini che improvvisavano mestieri di sopravvivenza.
Rivedo ancora, con infinita pietà, un vecchio signore che indossava un
abito elegante e pulito, ma con i polsini della giacca e i risvolti dei
pantaloni lisi e sfilacciati; chiese a Clotilde se per caso non volesse
comprare dell'aspirina, mostrò il palmo della destra, v'erano due
compresse.
Dalle prigioni uscivano persone, alcune delle quali avevano nel volto la
fierezza di non essersi mai arrese e molte altre parevano inebetite dai
patimenti, faticavano a parlare e a sorridere. Se qualcuno provava a
chiedere la punizione dei peggiori carnefici, l'esercito interveniva
brutal-mente per proclamare la necessità della pacificazione nazionale.,
cioè l'impunità per i carnefici. Durante il nostro soggiorno, un giudice
coraggioso ordinò l'arresto di un colonnello colpevole di infinite
atrocità. Subito lo Stato Maggiore proibì che l'ordine fosse eseguito.
Quando i quotidiani pubblicarono il comunicato dell'esercito, eravamo
con un giornalista che era stato seviziato da quell'ufficiale. Ricordo
ancora il suo volto farsi pallidissimo mentre leggeva il comunicato; ne
sono sicuro, si sentiva di nuovo nella sala della tortura.
Tuttavia i partiti riprendevano coraggiosamente il loro lavoro; la
Democrazia cristiana stava insieme alle sinistre in un Frente Amplio
antifascista. Lo presiedeva un oriundo italiano, il generale Liber
Seregni, un uomo che aveva la dignità del nostro Parri: lo avevano
appena estratto da una spaventosa cella sotterranea, dove era stato più
volte torturato per ordine dei suoi ex colleghi; adesso nel povero
appartamento che gli fungeva da ufficio, riceveva continuamente giovani
e anziani che volevano "ricominciare": soprattutto nei quartieri
periferici in cui i militari avevano seminato per anni terrore e
sospetti, la gente riprendeva a organizzarsi per risolvere i gravissimi
problemi collettivi: scuole, sanità, trasporti, caro-vita. Nelle
fabbriche i sindacati si rinsaldavano. A Montevideo, un milione e mezzo
di abitanti, si vendevano più quotidiani che a Roma. Giorno dopo giorno,
lentamente e rischiosamente, la democrazia andava fortificandosi.
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Sono passati vent'anni, le difficoltà economiche dell'Uruguay sono
ancora assai gravi: il paese ha risentito duramente della crisi
economica argentina del 2002, essendo i due stati confinanti
strettamente legati dall'interscambio. I governi di centro - destra
hanno sempre minuziosamente seguito i "consigli" del Fondo Monetario
Internazionale, e perciò, come spesso avviene in questi casi, il
prodotto interno lordo è migliorato ma le condizioni di vita della gente
sono diventate anche più dure. A 175 anni dalla proclamazione della
Repubblica (per la cui nascita combatté anche Giuseppe Garibaldi), gli
elettori hanno detto "basta" ai due tradizionali partiti di potere - il
Blanco e il Colorado - espressione della borghesia massonica e
autoritaria, e hanno eletto al primo scrutinio un presidente candidato
dal Frente Amplio: uno scienziato figlio di poverissima gente. A vent'anni
dall'epoca dei golpe e delle camere di tortura, più dei due terzi
dell'America Meridionale sono ora retti dalle sinistre. Nell'ambito del
Mercosur (l'area di libero scambio del cosiddetto Cono Sud) sono di
sinistra tre governi (l'Uruguay, l'Argentina e il Brasile) su quattro
(il quarto è il Paraguay). Ancora dieci anni fa nessuno avrebbe osato
sperarlo.
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Eventi marginali in una Terra in cui il potere politico ed economico (e
dunque il futuro) risiedono quasi completamente altrove? Può ben darsi;
e però è un fatto che nel mondo "subalterno" circolano fermenti,
nascono, muoiono e rinascono testarde speranze che i Grandi non riescono
a controllare come vorrebbero; che l'omologazione non è realtà compiuta;
che un gruppo di nazioni "secondarie" riunite intorno ai paesi della
nuova America Latina sta diventando scomodo protagonista di organismi
internazionali, per esempio sul cosiddetto libero commercio. L'Uruguay
dei governi di centro-destra era uno dei vassalli cui la Casa Bianca
affidava i lavori sporchi all'ONU, le proposte su Cuba e sulle guerre;
non lo sarà più. Con buona pace del signor Fukuyama, la storia non è
finita.
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Temo che il suo nome - Helwé Jacaman - fosse ormai noto a pochi; ma la
vecchia signora che il mese scorso si è spenta nella sua Betlemme ha
diritto al fiore del ricordo. Era stata una di quegli abitanti della
piccola Città Santa che si sparsero per tutta l'America Latina, agli
inizi del secolo scorso, costretti all'emigrazione dalla miseria, e
chiamati turchi perché turco era il loro passaporto. García Márquez li
vide a Macondo, ma moltissimi altri finirono a Santiago del Cile, dove
ormai i loro discendenti sono decine di migliaia, o in altri stati del
continente. La famiglia di Helwé approdò in Nicaragua, per chissà quali
misteriosi tragitti imposti dalla povertà. Tornata nella sua Palestina,
Helwé portò con sé il ricordo della povertà e della durezza dell'esilio.
Furono questi ricordi, queste esperienze di dolore, a guidare sempre la
sua vita, insieme alla fierezza per la sua origine. La guerra dei Sei
Giorni la colse mentre era assistente sociale a Betlemme e, benché
cristiana, elemento di prim'ordine delle Lega delle donne arabe. Non si
arrese, mai, all'occupazione israeliana, fedele a un'obiezione di
coscienza non violenta ma forte e chiara contro il regime militare. Dal
suo incontro, negli anni del Concilio, con il prete-operaio francese
Paul Gauthier e con la Rete Radiè Resch (un'associazione italiana di
solidarietà internazionale) nacque a Betlemme un quartiere di case a
riscatto chiamato "Città della Stella". Il comitato locale che
presiedeva all'iniziativa, formato per lo più da maggiorenti arabi,
tendeva, come spesso avviene ai Benefattori, a concepire la
realizzazione come un aiuto misericordioso a un generico pauperismo.
Helwé ebbe sempre chiaro che si trattava, invece, di dare dignità e
speranze a persone travolte dalle avversità politiche e dalle disgrazie;
di aiutare le donne a diventare protagoniste della vita sociale, di fare
tutto ciò che era possibile perché i cittadini di Betlemme non
diventassero, per disperazione, manovalanza a buon prezzo e senza
diritti al servizio agli israeliani; o, come un giorno lei e i suoi
cari, dovessero andarsene lontano, abbandonando le speranze palestinesi.
Dio le conceda il riposo dei Giusti
ettore masina |
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