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La resistenza nonviolenta
in Colombia

di Vivien Sharples

 
     
 

In un Paese come la Colombia, devastata da una guerra intestina che pare non debba mai finire, in questi anni si sono formate molte realtà pacifiste. Nelle aree rurali le comunità indigene stanno esigendo la restituzione delle terre. Nelle città, invece, molti giovani si stanno organizzando contro il militarismo imperante. Nell’agosto del 2003 si è tenuta a Medellìn una conferenza sul tema: ”Nonviolenza attiva e resistenza alla guerra”. I convenuti - 150 persone, tra antimilitaristi, indigeni afro-colombiani, contadini e attivisti dei diritti umani -, erano giunti anche dal Messico, Paraguay, Ecuador, Guatemala e dal Cile. Solo una piccola parte di loro veniva dall’Europa e dagli Stati Uniti. L’incontro era stato organizzato da Red Juvenil, un gruppo di giovani fondato nel 1990. Usando il teatro, l’educazione popolare e promuovendo l’autogestione, i membri di Red Juvenil lavorano con i ragazzi dei quartieri poveri destinati altrimenti a finire in qualche banda armata o a diventare dei veri e propri sicari. Un’altra realtà molto attiva è Ruta Pacifica, una coalizione femminista impegnata per la pace. Nata sempre a Medellìn nel 1995, unisce donne di tutte le etnie e classi sociali. La prima marcia che ha organizzato, si è tenuta il 25 novembre del 1996 - giornata internazionale contro la violenza sulle donne - a Apartado, nella regione di Uraba, dove il conflitto militare tra le varie fazioni è molto aspro. Da allora ha sempre promosso dei cortei a sostegno delle donne di Bogotà, Cartagena, Medellìn e Barrancabermeja. Il 25 luglio del 2002, prima dell’insediamento del nuovo presidente Alvaro Uribe, rappresentante della destra politica, ha organizzato nella capitale del Paese una grande manifestazione per dire no alla guerra e per esigere che le donne fossero incluse nei negoziati di pace tra il governo e varie formazioni militari.

Neutralita’ attiva
La comunità pacifista di San José di Apartado si trova in una regione molto importante sul piano strategico, dove si scontrano i militari, i paramilitari e i gruppi di guerriglia. Ciò ha portato migliaia di contadini ad abbandonare le loro terre e a riversarsi nei miseri sobborghi delle periferie delle città. La Colombia può vantare un triste record: quello del più alto numero di sfollati al mondo dal 1985 ad oggi (2,9 milioni). A questa cifra va aggiunto un altro milione di persone che dal ‘96 hanno abbandonato addirittura il Paese. Nel ’97 alcuni abitanti di San Josè si sono autoproclamati “comunità di pace”. Essi non portano o usano le armi; non partecipano direttamente o indirettamente alla guerra; non cooperano con alcuna delle fazioni armate. Stanno semplicemente cercando di creare una zona di pace, domandando alle parti in conflitto il rispetto del loro diritto alla vita, alla dignità, oltre che alla terra. Chiamano tutto questo “neutralità attiva”. I membri della comunità lavorano collettivamente la terra, e gestiscono allo stesso modo parecchie imprese locali. Tutti hanno abbastanza da mangiare, e si prendono cura l’uno dell’altro. Questo rappresenta indubbiamente un successo in un Paese il cui 66% della popolazione vive in povertà, e dove il tasso ufficiale di disoccupazione raggiunge il 20%. Ma ciò è stato ottenuto a caro prezzo. Le organizzazioni armate hanno preso di mira la comunità di San José di Apartado. Negli ultimi sette anni quasi il 10% dei suoi membri - 120 su 1300 persone, tra loro molti leader contadini -, è stato ucciso o fatto sparire dalle varie milizie armate.
Nel settembre del 2003, sempre San Josè ha ospitato un incontro dei rappresentanti di altre 57 comunità. Erano presenti anche alcuni membri dei gruppi internazionali che provvedono a proteggere questa come altre realtà: le Brigaste internazionali della pace (Pbi), attive in loco dal ’98, e l’Associazione per la riconciliazione. Così come Justicia y Paz e altre associazioni colombiane, che garantiscono la difesa nonviolenta della popolazione locale. I principi su cui si basa la vita dei queste realtà sociali sono stati definiti utilizzando il metodo del consenso. Essi sono: neutralità attiva, trasparenza degli atti pubblici e nonviolenza. Un leader locale ricordava coma la repressione che hanno dovuto subire come comunità, li abbia portati a trattare i conflitti che nascono al suo interno in modo nonviolento e democratico. Ad esempio, a San Josè non ci sono carceri, e le trasgressori delle norme vengono trattate parlando e cercando di trovare con i responsabili le cause che sono all’origine delle loro azioni. Nelle elezioni annuali per il consiglio dei capi, tutti quelli che hanno superato i 12 anni hanno diritto al voto. E’ stato vietato l’uso dell’alcool, e, dicono, ciò ha fatto diminuire in modo sostanzioso gli incidenti più gravi; si cerca di rispettare uomini e donne allo stesso modo. Le donne, pur lavorando nei campi, sono molto attive anche nei ruoli dirigenti.

Terra e autonomia
Di indubbio interesse è il caso della città indigena Nasa, di Toribio, nella provincia sud occidentale di Cauca. Questa regione montagnosa è attualmente dominata militarmente dalla guerriglia delle Farc. Qui, nel 1971, la popolazione locale si è ribellata allo sfruttamento economico da parte dei proprietari terrieri e alla mancanza di rispetto per la loro cultura. Dopo alcune riunioni segrete, è stata costituita la prima organizzazione indigena regionale del Paese: il Consiglio regionale indigeno di Cauca (Cric). Esso promuove l’autonomia, il non pagamento delle tasse, il recupero delle terre, il rafforzamento dei leader tradizionali e della loro identità. “Senza terra, una persona indigena è morta”, dicono gli abitanti. Così hanno iniziato, con un certo successo, un movimento che si batte per la riforma agraria. Oggi, dopo 30 anni, molta parte del Cauca è in mano alla popolazione locale. I membri delle comunità hanno ottenuto questo attraverso azioni dirette nonviolente, occupando la terra e recuperandola al suo ruolo produttivo. Nel solo primo anno di lotta, sono stati uccisi tra gli 800 e i 1500 contadini. Ma le loro occupazioni hanno obbligato il governo e i proprietari a negoziare e a trasformare 130 fattorie private in altrettante terre indigene gestite collettivamente. Sono state ripristinate le leggi tradizionali, oltre che le consuetudini in tema di giustizia, agricoltura e medicina. Sono state poi create delle scuole bilingui dove poter insegnare la lingua locale e la loro letteratura. Nel 1980 la comunità di Toribio ha avviato un programma di sviluppo chiamato “Progetto Nasa”. Praticando la democrazia partecipativa, durante assemblee generali, ognuno discute i problemi che interessano tutti, e si cercano le soluzioni possibili fino a quando non viene raggiunto il consenso tra i presenti. Sono state create anche delle imprese economiche comuni come negozi, una miniera, una latteria, una fabbrica di fertilizzanti organici, una del pesce, un proprio sistema di trasporto, facendo così diminuire la dipendenza della comunità dal governo centrale o dai grandi proprietari.

Il “Plan Colombia”
Qual è il ruolo degli Stati Uniti in relazione a queste esperienze? Nel passato, la maggior parte dell’influenza americana in Colombia era stata esercitata attraverso la formazione di ufficiali dell’esercito nazionale e la fornitura di armi. Nel 2000, con il lancio del “Plan Colombia”, questo Paese è diventato il terzo al mondo per l’aiuto militare garantito da Washington, dopo Israele e l’Egitto. All’inizio passava come contributo alla lotta contro i trafficanti di droga; ora viene indicato come parte della guerra al terrorismo internazionale e assistenza alla controinsurrezione interna. Chi ci guadagna? I produttori d’armi statunitensi sono certamente i primi a goderne i benefici, così come le compagnie internazionali di petrolio che possiedono la maggior parte dei giacimenti nazionali. La Colombia è il più importante esportatore di “oro nero” della regione, dopo il Venezuela e il Messico. E l’instabilità in Medio Oriente fa crescere per gli Usa l’importanza del petrolio latinoamericano.
Di tutt’altro segno è l’esperienza della gente di Toribio. Nel 2001, seguendo il “Progetto Nasa”, è stata costituita una guardia indigena, a protezione del territorio della comunità dalle azioni militari. Le guardie - dieci per ogni villaggio - hanno una funzione di peacekeeping: sono disarmate e informano la popolazione delle eventuali incursioni dei gruppi tra loro in guerra. Inoltre usano i tradizionali bastoni coi nastri colorati come unico riconoscimento della loro autorità. Esse in varie occasioni, usando proprio il metodo nonviolento, si sono confrontate con successo con le milizie che si erano appropriate della terra o che avevano sequestrato delle persone. Sono stati poi costituiti 68 luoghi dove si tengono le assemblee civiche e dove la popolazione può rifugiarsi durante gli scontri armati. Le guardie hanno domandato ai gruppi militari di rispettare questi luoghi, e spesso esse stesse formano un cerchio attorno ad essi per proteggere quelli che si sono raccolti al loro interno. Tale esperienza si sta ora diffondendo dal nord di Cauca alle zone centrali e orientali del Paese. Nel 2002 un ultimatum delle Farc intimava a tutti i sindaci della regione di rassegnare le dimissioni; in caso contrario sarebbero stati uccisi. Più di 200 lasciarono il loro incarico, ma quello di Toribio, Gabriel Pavi, non ha abbandonato il suo posto. Il Miami Herald ha riportato le sue parole: ”La gente mi protegge e io ho fiducia in lei. Non ho guardie del corpo perché qui sono inutili. Non ho il corsetto antiproiettile, perché anche questo è inutile. L’unica cosa che qui può funzionare è la solidarietà della gente”.


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