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Guerra, pace e i media

 

di Amy Goodman

 
 

Ogni nuovo presidente degli Stati Uniti si reca almeno una volta al Mount Rushmore Memorial, nel sud Dakota, su cui sono stati scolpiti i volti di Washington, Roosevelt, Jefferson e Lincoln, i padri della nazione. Essere fotografati davanti a questa grandiosa scenografia non è cosa da poco. Ma mai nessun nuovo inquilino della Casa Bianca ci è andato come ha fatto Bush. Si è fatto riprendere dimostrando una acuta sensibilità a dir poco hollywoodiana. La sua testa è stata ripresa in modo tale da farla entrare perfettamente tra quelle degli altri quattro presidenti immortalati nella pietra, proprio nel momento in cui annunciava la fine della guerra in Iraq. E questo mentre cresceva la rabbia delle famiglie dei militari spediti laggiù, e che con una certa angoscia si domandavano: “Allora, dove sono i nostri cari?”. Il presidente sa benissimo che se il popolo americano vedesse i danni che sta procurando il conflitto
iracheno, diventerebbe molto critico nei suoi confronti. Ma far crescere tale sensibilità è il compito dei mezzi di informazione. Dovrebbe, ma non è così.

La manipolazione dei media
Durante l’ultima “guerra lampo” in Iraq, molte sono state le menzogne scritte e poi reiteratamente ripetute, sempre attribuite, guarda caso, a fonti anonime che si sa molto vicine all’attuale amministrazione: sia che si trattasse delle presunte provette che dovevano servire al lancio del programma nucleare di Saddam, o di un tipo col cappello di baseball che pareva essere coinvolto in uno strano giro di bombe biologiche. Queste informazioni erano state fornite ad una inviata del New York Times dai responsabili di un reparto militare americano acquartierato a Baghdad. Ma non avendo trovato nulla, alla fine ne volevano venir fuori. A questo punto l’intrepida corrispondente del foglio newyorchese decideva di far recapitare ad un generale una lettera in cui lo avvertiva che se i militari l’avessero sconfessata, avrebbe fatto pubblicare, sul conto di quel reparto, storie per nulla piacevoli.
S’era creato, in sostanza, uno stato di reciproca collusione tra militari e media a tal punto che quando questa giornalista riceveva direttamente dal Pentagono una notizia riservata, come in un assurdo e grottesco gioco delle parti, lo stato maggiore replicava: “Bene, anche il New York Times sta dicendo questo”.
Nello stesso modo, la grande stampa statunitense è andata dietro ad Al-Jazeera quando la famosa emittente araba aveva mostrato le foto dei prigionieri di guerra americani. A loro volta il New York Times ed il Washington Post avevano insolitamente deciso di pubblicare le foto a colori dei soldati iracheni catturati. Dov’è allora questa famosa Convenzione di Ginevra a cui tutti dovrebbero attenersi, e di cui parla tanto il Times? Se essa dice che i prigionieri di guerra non devono essere ripresi, ciò vale per tutti. Invece Al-Jazeera è stata immediatamente messa all’indice perché aveva osato mostrare quelle immagini al pubblico americano.
Il fatto è che il Pentagono non era preoccupato tanto dei prigionieri che venivano esibiti - alcune delle famiglie, addirittura, si erano sentite sollevate nel sapere che il loro congiunto era ancora vivo -, quanto degli effetti che quelle riprese potevano avere sul pubblico televisivo. E’ stato chiesto ad Aaron Brown, un famoso giornalista della Cnn, perché gli americani non hanno potuto vedere le immagini dei danni causati dalla guerra. Eppure esistono.
Al-Jazeera le ha sempre mostrate, mentre i media degli Stati Uniti hanno usato quasi sempre riprese che mostravano le bombe sganciate su Baghdad. L’impressione che lasciavano sul telespettatore, era quella di assistere ad uno spettacolo di fuochi d’artificio. Perché allora non pubblicare le foto dei danni? La guerra è sangue. Aaron Brown ha risposto: ”Sono disgustose”. Dimenticando, forse, che è la guerra ad esserlo.

La democrazia via etere
Dobbiamo riprenderci le nostre frequenze. Si tratta di un problema ben conosciuto da Michael Powell, figlio del segretario di Stato Colin Powell. Il padre ha contribuito a gestire la guerra in Iraq, il figlio conduce invece la sua guerra contro le voci dissenzienti che vogliono discutere i temi più importanti del momento. Il giovane Powell sta portando a termine una delle più grandi concentrazioni di potere nel sistema dell’informazione che il mondo abbia mai visto. L’arroganza e la segretezza con la quale viene condotta l’operazione, rappresentano delle ottime ragioni per allargare il movimento a favore della democrazia dei media. Ci doveva essere un confronto pubblico su ciò, ma pochissime persone erano informate di quello che stava succedendo. Allora “Pacifica radio, Democracy Now!” e i vari gruppi nati a sostegno della lotta per la democrazia dei mezzi di informazione, si sono uniti e hanno detto: “Non volete promuovere questi dibattiti? Lo faremo noi”. Ma non è sufficiente. Abbiamo bisogno che i media democratici si mettano in rete. Ed ecco allora “Pacifica”, un network che pubblicizza proprio questi confronti d’opinioni.
Naturalmente, le grandi corporazioni che controllano il sistema mediatico, potrebbero fare ciò in un modo molto più efficiente del nostro. Ma non vogliono. Un solo esempio. Una agenzia specializzata ha promosso uno studio sui telegiornali delle reti Abc, Cbs, Nbc e Pbs. Delle 393 interviste condotte nella settimana in cui il segretario di Stato Powell aveva tenuto il suo discorso alle Nazioni Unite alla vigilia dell’intervento statunitense in Iraq, e in quella successiva, soltanto tre di queste erano di persone che esprimevano la loro netta opposizione alla guerra.
Per questo dobbiamo riprenderci le nostre frequenze. Gli altri stanno usando la proprietà pubblica per pubblicizzare il conflitto in corso. Noi abbiamo invece bisogno di media come “Pacifica”. Essa è nata dopo la fine della seconda guerra mondiale per iniziativa di alcuni suoi oppositori che pensavano giusto creare un canale informativo indipendente per tutti quelli che si dichiaravano contrari alla violenza bellica. “Pacifica”, in questo momento, rappresenta una realtà che garantisce a tutti un vero pluralismo di opinioni. E questo fa la differenza. Democracy Now! nel 1996 era in contatto con circa 20 stazioni radio e Tv. Ora sono 160, distribuite negli Usa, in Canada, Italia e Australia.
Ciò ha reso possibile mandare in onda i lavori di autori indipendenti. Recentemente è stato programmato un documentario dal titolo “Massacro Afghano: un convoglio di morte”, diretto da un ex regista della Bbs. Il video mostra come l’Alleanza del nord sostenuta dagli Stati Uniti, abbia lavorato con le forze speciali americane, e che esse siano state coinvolte nell’uccisione di migliaia di prigionieri talebani. Si è così riusciti a diffondere un documentario censurato dalle Tv nazionali. La gente ha diritto a una informazione genuina. Ha fame di verità.

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