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Storie di questo mondo

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Jedwabne 1941: un massacro nascosto

di Silvia Golfera

 
 
 
 
 

Spesso abbiamo la presunzione di conoscere tutto del passato. E su di esso, più o meno consapevolmente, abbiamo già espresso un giudizio. Quando un fatto nuovo, inaspettato, va in qualche modo a intaccarlo, piuttosto che rivedere i nostri schemi, preferiamo non registrare le informazioni, o relegarle fra le eccezioni. Cioè dimenticarle.
C’è un bel libro che racconta una di queste storie, che è passato quasi inosservato. Eppure elementi di discussione, revisione, dibattito, poteva offrirne molti, anche se la storia che racconta è una storia polacca. Sto parlando de ‘I carnefici della porta accanto’ dello storico Jan Gross, edito da Mondadori.
Vi si racconta un episodio avvenuto nel 1941, in una piccola cittadina polacca di nome Jedwabne situata a nord-est di Varsavia, verso il confine con la Prussia orientale. Quindi in un tempo che è ormai preistoria, in un luogo lontano, durante una guerra la cui efferatezza inizia a impallidire di fronte ai nuovi disastri. E se la lontananza ci rende un po’ più liberi nell’osservazione, alcuni ingredienti la rendono attuale e piuttosto interessante anche per noi.
Per capirla meglio bisogna però allargare l’orizzonte e fare qualche passo indietro.
Noi europei occidentali, della Polonia, oggi membro UE, conosciamo molto poco, come sappiamo poco di tutti i paesi dell’ex blocco sovietico. La Cortina di ferro è stata non solo barriera politica, ma anche culturale e mentale. Sbrigativi e approssimativi, liquidiamo la Polonia come un paese bigotto e antisemita, eppure non è stato solo così o solo questo. Io stessa, in questa rubrica, circa un anno fa, ho raccontato la storia del pogrom di Kielce, quando, già a guerra finita nel 1946, la popolazione inferocita massacrò 42 miserabili ebrei miracolosamente scampati alla furia di Hitler. Il pretesto fu un’accusa tanto assurda quanto banale: aver rapito un bambino cristiano per impastare pane azimo col suo sangue. Ci fa ridere. Oggi per scatenare odi interetnici occorre ben altro, almeno crediamo.
Invece in alcuni momenti della sua storia la società polacca si è dimostrata una società vitale e multietnica, in cui coabitavano tedeschi, italiani, armeni, bielorussi e naturalmente ebrei, che costituivano, prima della seconda guerra mondiale, circa il 13% della popolazione. In epoca premoderna, quando ancora la Chiesa non vi esercitava un rigido controllo e una fiera e orgogliosa nobiltà frenava il costituirsi di una monarchia assoluta, che rimase infatti elettiva, la Polonia fu rifugio per ebrei e perseguitati religiosi di ogni tipo, che qui trovarono garanzie accettabili per la propria vita e il proprio lavoro. Lo Statuto di Kalisz, emanato dal principe Boleslao il Pio nel 1264, garantiva a una minoranza esigua e malvista come quella ebraica l’uguaglianza nei tribunali, il diritto alla vita e alla proprietà, la possibilità di autogovernarsi mediante istituzioni proprie, la protezione delle sinagoghe e dei cimiteri. Il paese accoglieva volentieri mercanti e artigiani ebrei, che diedero impulso a tutte le attività del paese. Il re Casimiro il Grande, che regnò nel 14° sec., approvò leggi ancora più favorevoli delle precedenti e manifestò verso di loro tale benevolenza che si narrava (verità o leggenda non è mai stato appurato) ch’egli stesso avesse una compagna ebrea, Esterka, che gli avrebbe dato quattro figli, due maschi, cresciuti nel cattolicesimo, e due femmine che avrebbero conservato la propria matrice ebraica.
Parte degli ebrei di Polonia conquistò posizioni di prestigio, amministrando beni pubblici o della nobiltà. Ai tempi della Controriforma, quando roghi e Sacra Inquisizione imperversavano in Europa, la Polonia rimase terra sostanzialmente pacifica e tollerante, tanto da ritenere che il suo nome corrispondesse all’ebraico’polin’ “qui potremo dimorare”. Certamente esistevano pregiudizi e ostilità, ma questo non precludeva anche un intenso scambio fra le diverse comunità.
La decadenza politica ed economica arrivò a metà del 1600, con le terribili scorrerie del capo cosacco Bogdan Chmielnicki, che guidava un’insurrezione di contadini ucraini e cavalieri tartari contro i proprietari terrieri polacchi. Circa 80.000 ebrei vennero massacrati, ma una sorte simile toccò ai nobili e al clero cattolico. Gli insorti infatti erano ortodossi. Poi fu la volta dell’invasione svedese, delle incursioni russe, del dissolvimento del Granducato di Polonia. Il paese fu spartito fra le potenze confinanti, la vita peggiorò per tutti e naturalmente la difficile situazione finì con l’acuire contrasti economici e pregiudizi culturali e religiosi, che nei momenti di sicurezza restano più facilmente sopiti.
Sotto l’ondata delle incursioni di Chmielnicki, si è verificato qualche raro episodio di alleanza fra ebrei e popolazione locale, in vista di una difesa comune. Ma il cosacco era riuscito a metterli l’uno contro l’altro, di modo che i polacchi finirono per lo più con l’abbandonare gli ebrei alla loro sorte.
Qualcosa di simile è avvenuto anche sotto l’occupazione tedesca.
Soltanto dopo il 1990 l’Istituto polacco per la memoria nazionale ha iniziato ad occuparsi del periodo della seconda guerra mondiale con maggiore obiettività e a studiare fatti inquietanti che la Polonia comunista aveva preferito liquidare velocemente.
Uno di questi è il massacro di Jedwabne, una cittadina che negli anni trenta contava circa 2200 persone, di cui il 60% ebrei. Massacro che, in un primo tempo, era stato attribuito ai tedeschi.
Invece, quando la città, il 23 giugno 1941, venne occupata dall’esercito tedesco, subito si scatenò un pogrom antiebraico ad opera di abitanti del luogo, che andavano a razziare le case e, probabilmente ubriachi, si abbandonarono a terribili eccessi. Nei verbali di un pur sommario processo svoltosi nel 1949, istruito velocissimamente e della durata di un solo giorno (nonostante vi fossero ben 22 imputati) si parla di lapidazioni. Un uomo, cui erano stati strappati gli occhi e tagliata la lingua, morì dopo tre giorni di terribile agonia.
Intervenne il parroco del paese a ricordare che c’erano già i tedeschi ad occuparsi delle questioni ebraiche e il pogrom si fermò. Però nel frattempo i negozianti del paese, di propria iniziativa, non vendettero più niente agli ebrei. Perché tanta crudeltà, viene da chiedersi. In una società impoverita ed esacerbata come quella polacca durante la 2° guerra mondiale, poter individuare un capro espiatorio che non ha possibilità di difendersi, può portare un grande sollievo. E il fatale amalgama di un antisemitismo religioso con un antisemitismo razziale, forniva ampie giustificazioni per chiunque si abbandonasse anche ai crimini più efferati. Per molti la rappresaglia antiebraica costituiva un’occasione d’oro per procurarsi una casa o qualche bene, altrimenti irrangiungibili. Non da ultimo si accusava gli ebrei di aver accolto con favore i precedenti occupanti russi. Non bisogna dimenticare che, in base all’accordo Molotov-Ribbentrop, circa metà della Polonia era caduta sotto il governo russo per quasi due anni, fino alla linea tracciata approssimativamente dai fiumi Narew, Vistola, e San.
Insomma, bisognava avere una coscienza molto vigile e una notevole indipendenza di pensiero per non cadere nel conformismo antigiudaico.
Il 10 luglio finalmente arriva l’ordine tedesco di eliminare gli ebrei. Ne discute col sindaco un piccolo gruppo della gestapo, che arriva in taxi in municipio. Il sindaco Marian Karolak assicura la più entusiasta collaborazione. Il disaccordo riguarda solo l’entità del massacro: i tedeschi propongono di tenere in vita una famiglia per ogni professione, ma il sindaco insiste che ci sono già sufficienti artigiani polacchi. Nell’operazione non ci sarà bisogno di impegnare alcun soldato tedesco. I maschi adulti della zona, infatti, vengono convocati davanti al municipio, accorrono contadini dai dintorni. Vengono forniti di fruste e mazze dalla gendarmeria. L’ordine è di raccogliere tutti gli ebrei in piazza. Parte la caccia all’uomo. Il paese viene circondato e per le campagne girano ronde di volontari di modo che la fuga risulti impossibile, tranne che per coloro che, annusata la situazione, si erano messi in salvo nei giorni precedenti. Pochissimi. Gli ebrei di ogni sesso ed età vengono fatti convergere nella piazza principale del paese. Ad alcuni di loro è dato l’ordine di rimuovere un pesantissimo busto di Lenin collocato lì dai sovietici. Partono i primi massacri. Chi ha rimosso la statua deve poi seppellirla e seguirla nella fossa. Una ragazza, figlia del maestro del paese, nota per la sua bellezza, viene decapitata. C’è chi si accanisce a deturparne il viso mozzato. Alcune donne che assistono terrorizzate al massacro corrono, con in figli piccoli in braccio, ad annegarsi in uno stagno vicino.
I massacratori si rendono conto che uccidere centinaia di persone a mazzate è impresa quasi disperata, allora decidono di rinchiuderli tutti in un granaio fuori dal paese, messo a disposizione a tal fine, e di dar loro fuoco. Gli ebrei sono messi in fila e costretti a marciare. A questo proposito le testimonianze non concordano: alcuni sostengono che sfilano trascinando ancora il busto di Lenin e alzando un cartello “La causa della guerra siamo noi, la guerra si fa per noi”. Altri sostengono che semplicemente sventolavano una bandiera rossa. In questo momento, sotto l’occupazione tedesca, l’identificazione ebrei-comunisti è estremamente funzionale all’eccitamento dell’odio popolare. Più tardi arriverà l’accusa di essere spie dell’Occidente. Oggi il disprezzo antisemita si alimenta invece del conflitto arabo-israeliano.
La cosa certa è che allora il granaio venne cosparso di cherosene e gli ebrei furono tutti arsi vivi. A rogo ultimato vengono utilizzate mazze e picconi per districare un corpo dall’altro e poter procedere ad una qualsiasi sepoltura. Dopo il 10 luglio i tedeschi finalmente ristabilirono l’ordine. Quella riguardante gli ebrei tornò ad essere una questione esclusivamente loro. I pochi superstiti, fecero rientro in paese dove rimasero qualche tempo, fino al trasferimento nel ghetto di Łomźa. Alla guerra sopravvissero in dodici. Sette di questi erano stati nascosti da una famiglia polacca in un villaggio vicino.
Certamente, se non ci fosse stata l’occupazione tedesca, l’ostilità dei vicini polacchi sarebbe rimasta latente, ma questo non riduce la responsabilità di chi ha commesso delitti così atroci. Tanto meno di chi ha contribuito a creare un clima culturale che rende possibile lo scatenarsi degli istinti più bassi.
Noi europei ogni anno, nel giorno della memoria dell’olocausto, celebriamo sbrigativamente il nostro mea culpa e per fortuna l’aberrazione nazista ci offre il pretesto per sentirci quasi innocenti rispetto a una tragedia il cui ricordo sta ormai affondando nel pozzo della storia.
Che nuovamente il vecchio, ma sempre attuale fantasma dell’ebreo avido di soldi e di potere, abile manovratore delle sorti altrui, torni ad aggirarsi nel mondo, ci lascia insieme increduli ed indifferenti. Il nazismo è morto, cosa c’è da preoccuparsi?

golferasi@yahoo.it

 
 
 
 

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