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Spesso abbiamo la presunzione di conoscere tutto del passato. E su di esso, più o meno
consapevolmente, abbiamo già espresso un giudizio. Quando un fatto
nuovo, inaspettato, va in qualche modo a intaccarlo, piuttosto che
rivedere i nostri schemi, preferiamo non registrare le informazioni, o
relegarle fra le eccezioni. Cioè dimenticarle.
C’è un bel libro che racconta una di queste storie, che è passato quasi
inosservato. Eppure elementi di discussione, revisione, dibattito,
poteva offrirne molti, anche se la storia che racconta è una storia
polacca. Sto parlando de ‘I carnefici della porta accanto’ dello storico
Jan Gross, edito da Mondadori.
Vi si racconta un episodio avvenuto nel 1941, in una piccola cittadina
polacca di nome Jedwabne situata a nord-est di Varsavia, verso il
confine con la Prussia orientale. Quindi in un tempo che è ormai
preistoria, in un luogo lontano, durante una guerra la cui efferatezza
inizia a impallidire di fronte ai nuovi disastri. E se la lontananza ci
rende un po’ più liberi nell’osservazione, alcuni ingredienti la rendono
attuale e piuttosto interessante anche per noi.
Per capirla meglio bisogna però allargare l’orizzonte e fare qualche
passo indietro.
Noi europei occidentali, della Polonia, oggi membro UE, conosciamo molto
poco, come sappiamo poco di tutti i paesi dell’ex blocco sovietico. La
Cortina di ferro è stata non solo barriera politica, ma anche culturale
e mentale. Sbrigativi e approssimativi, liquidiamo la Polonia come un
paese bigotto e antisemita, eppure non è stato solo così o solo questo.
Io stessa, in questa rubrica, circa un anno fa, ho raccontato la storia
del pogrom di Kielce, quando, già a guerra finita nel 1946, la
popolazione inferocita massacrò 42 miserabili ebrei miracolosamente
scampati alla furia di Hitler. Il pretesto fu un’accusa tanto assurda
quanto banale: aver rapito un bambino cristiano per impastare pane azimo
col suo sangue. Ci fa ridere. Oggi per scatenare odi interetnici occorre
ben altro, almeno crediamo.
Invece in alcuni momenti della sua storia la società polacca si è
dimostrata una società vitale e multietnica, in cui coabitavano
tedeschi, italiani, armeni, bielorussi e naturalmente ebrei, che
costituivano, prima della seconda guerra mondiale, circa il 13% della
popolazione. In epoca premoderna, quando ancora la Chiesa non vi
esercitava un rigido controllo e una fiera e orgogliosa nobiltà frenava
il costituirsi di una monarchia assoluta, che rimase infatti elettiva,
la Polonia fu rifugio per ebrei e perseguitati religiosi di ogni tipo,
che qui trovarono garanzie accettabili per la propria vita e il proprio
lavoro. Lo Statuto di Kalisz, emanato dal principe Boleslao il Pio nel
1264, garantiva a una minoranza esigua e malvista come quella ebraica
l’uguaglianza nei tribunali, il diritto alla vita e alla proprietà, la
possibilità di autogovernarsi mediante istituzioni proprie, la
protezione delle sinagoghe e dei cimiteri. Il paese accoglieva
volentieri mercanti e artigiani ebrei, che diedero impulso a tutte le
attività del paese. Il re Casimiro il Grande, che regnò nel 14° sec.,
approvò leggi ancora più favorevoli delle precedenti e manifestò verso
di loro tale benevolenza che si narrava (verità o leggenda non è mai
stato appurato) ch’egli stesso avesse una compagna ebrea, Esterka, che
gli avrebbe dato quattro figli, due maschi, cresciuti nel cattolicesimo,
e due femmine che avrebbero conservato la propria matrice ebraica.
Parte degli ebrei di Polonia conquistò posizioni di prestigio,
amministrando beni pubblici o della nobiltà. Ai tempi della
Controriforma, quando roghi e Sacra Inquisizione imperversavano in
Europa, la Polonia rimase terra sostanzialmente pacifica e tollerante,
tanto da ritenere che il suo nome corrispondesse all’ebraico’polin’ “qui
potremo dimorare”. Certamente esistevano pregiudizi e ostilità, ma
questo non precludeva anche un intenso scambio fra le diverse comunità.
La decadenza politica ed economica arrivò a metà del 1600, con le
terribili scorrerie del capo cosacco Bogdan Chmielnicki, che guidava
un’insurrezione di contadini ucraini e cavalieri tartari contro i
proprietari terrieri polacchi. Circa 80.000 ebrei vennero massacrati, ma
una sorte simile toccò ai nobili e al clero cattolico. Gli insorti
infatti erano ortodossi. Poi fu la volta dell’invasione svedese, delle
incursioni russe, del dissolvimento del Granducato di Polonia. Il paese
fu spartito fra le potenze confinanti, la vita peggiorò per tutti e
naturalmente la difficile situazione finì con l’acuire contrasti
economici e pregiudizi culturali e religiosi, che nei momenti di
sicurezza restano più facilmente sopiti.
Sotto l’ondata delle incursioni di Chmielnicki, si è verificato qualche
raro episodio di alleanza fra ebrei e popolazione locale, in vista di
una difesa comune. Ma il cosacco era riuscito a metterli l’uno contro
l’altro, di modo che i polacchi finirono per lo più con l’abbandonare
gli ebrei alla loro sorte.
Qualcosa di simile è avvenuto anche sotto l’occupazione tedesca.
Soltanto dopo il 1990 l’Istituto polacco per la memoria nazionale ha
iniziato ad occuparsi del periodo della seconda guerra mondiale con
maggiore obiettività e a studiare fatti inquietanti che la Polonia
comunista aveva preferito liquidare velocemente.
Uno di questi è il massacro di Jedwabne, una cittadina che negli anni
trenta contava circa 2200 persone, di cui il 60% ebrei. Massacro che, in
un primo tempo, era stato attribuito ai tedeschi.
Invece, quando la città, il 23 giugno 1941, venne occupata dall’esercito
tedesco, subito si scatenò un pogrom antiebraico ad opera di abitanti
del luogo, che andavano a razziare le case e, probabilmente ubriachi, si
abbandonarono a terribili eccessi. Nei verbali di un pur sommario
processo svoltosi nel 1949, istruito velocissimamente e della durata di
un solo giorno (nonostante vi fossero ben 22 imputati) si parla di
lapidazioni. Un uomo, cui erano stati strappati gli occhi e tagliata la
lingua, morì dopo tre giorni di terribile agonia.
Intervenne il parroco del paese a ricordare che c’erano già i tedeschi
ad occuparsi delle questioni ebraiche e il pogrom si fermò. Però nel
frattempo i negozianti del paese, di propria iniziativa, non vendettero
più niente agli ebrei. Perché tanta crudeltà, viene da chiedersi. In una
società impoverita ed esacerbata come quella polacca durante la 2°
guerra mondiale, poter individuare un capro espiatorio che non ha
possibilità di difendersi, può portare un grande sollievo. E il fatale
amalgama di un antisemitismo religioso con un antisemitismo razziale,
forniva ampie giustificazioni per chiunque si abbandonasse anche ai
crimini più efferati. Per molti la rappresaglia antiebraica costituiva
un’occasione d’oro per procurarsi una casa o qualche bene, altrimenti
irrangiungibili. Non da ultimo si accusava gli ebrei di aver accolto con
favore i precedenti occupanti russi. Non bisogna dimenticare che, in
base all’accordo Molotov-Ribbentrop, circa metà della Polonia era caduta
sotto il governo russo per quasi due anni, fino alla linea tracciata
approssimativamente dai fiumi Narew, Vistola, e San.
Insomma, bisognava avere una coscienza molto vigile e una notevole
indipendenza di pensiero per non cadere nel conformismo antigiudaico.
Il 10 luglio finalmente arriva l’ordine tedesco di eliminare gli ebrei.
Ne discute col sindaco un piccolo gruppo della gestapo, che arriva in
taxi in municipio. Il sindaco Marian Karolak assicura la più entusiasta
collaborazione. Il disaccordo riguarda solo l’entità del massacro: i
tedeschi propongono di tenere in vita una famiglia per ogni professione,
ma il sindaco insiste che ci sono già sufficienti artigiani polacchi.
Nell’operazione non ci sarà bisogno di impegnare alcun soldato tedesco.
I maschi adulti della zona, infatti, vengono convocati davanti al
municipio, accorrono contadini dai dintorni. Vengono forniti di fruste e
mazze dalla gendarmeria. L’ordine è di raccogliere tutti gli ebrei in
piazza. Parte la caccia all’uomo. Il paese viene circondato e per le
campagne girano ronde di volontari di modo che la fuga risulti
impossibile, tranne che per coloro che, annusata la situazione, si erano
messi in salvo nei giorni precedenti. Pochissimi. Gli ebrei di ogni
sesso ed età vengono fatti convergere nella piazza principale del paese.
Ad alcuni di loro è dato l’ordine di rimuovere un pesantissimo busto di
Lenin collocato lì dai sovietici. Partono i primi massacri. Chi ha
rimosso la statua deve poi seppellirla e seguirla nella fossa. Una
ragazza, figlia del maestro del paese, nota per la sua bellezza, viene
decapitata. C’è chi si accanisce a deturparne il viso mozzato. Alcune
donne che assistono terrorizzate al massacro corrono, con in figli
piccoli in braccio, ad annegarsi in uno stagno vicino.
I massacratori si rendono conto che uccidere centinaia di persone a
mazzate è impresa quasi disperata, allora decidono di rinchiuderli tutti
in un granaio fuori dal paese, messo a disposizione a tal fine, e di dar
loro fuoco. Gli ebrei sono messi in fila e costretti a marciare. A
questo proposito le testimonianze non concordano: alcuni sostengono che
sfilano trascinando ancora il busto di Lenin e alzando un cartello “La
causa della guerra siamo noi, la guerra si fa per noi”. Altri sostengono
che semplicemente sventolavano una bandiera rossa. In questo momento,
sotto l’occupazione tedesca, l’identificazione ebrei-comunisti è
estremamente funzionale all’eccitamento dell’odio popolare. Più tardi
arriverà l’accusa di essere spie dell’Occidente. Oggi il disprezzo
antisemita si alimenta invece del conflitto arabo-israeliano.
La cosa certa è che allora il granaio venne cosparso di cherosene e gli
ebrei furono tutti arsi vivi. A rogo ultimato vengono utilizzate mazze e
picconi per districare un corpo dall’altro e poter procedere ad una
qualsiasi sepoltura. Dopo il 10 luglio i tedeschi finalmente
ristabilirono l’ordine. Quella riguardante gli ebrei tornò ad essere una
questione esclusivamente loro. I pochi superstiti, fecero rientro in
paese dove rimasero qualche tempo, fino al trasferimento nel ghetto di
Łomźa. Alla guerra sopravvissero in dodici. Sette di questi erano stati
nascosti da una famiglia polacca in un villaggio vicino.
Certamente, se non ci fosse stata l’occupazione tedesca, l’ostilità dei
vicini polacchi sarebbe rimasta latente, ma questo non riduce la
responsabilità di chi ha commesso delitti così atroci. Tanto meno di chi
ha contribuito a creare un clima culturale che rende possibile lo
scatenarsi degli istinti più bassi.
Noi europei ogni anno, nel giorno della memoria dell’olocausto,
celebriamo sbrigativamente il nostro mea culpa e per fortuna
l’aberrazione nazista ci offre il pretesto per sentirci quasi innocenti
rispetto a una tragedia il cui ricordo sta ormai affondando nel pozzo
della storia.
Che nuovamente il vecchio, ma sempre attuale fantasma dell’ebreo avido
di soldi e di potere, abile manovratore delle sorti altrui, torni ad
aggirarsi nel mondo, ci lascia insieme increduli ed indifferenti. Il
nazismo è morto, cosa c’è da preoccuparsi?
golferasi@yahoo.it |
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