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In tutti questi anni
si è sviluppata una dottrina economica fortemente ideolocizzata. Secondo
tale credo, il benessere è generato automaticamente dal libero gioco
delle forze del mercato. Ma la verità storica è molto differente. In
tutte le nazioni le cui economie hanno conosciuto un certo successo,
dalla Germania agli Usa, dal Giappone alla Corea del Sud, lo Stato ha
sempre giocato un ruolo predominante a sostegno dei processi di
sviluppo.
Il ruolo
dello Stato
Dal 1950 al 1980, nel Nord del mondo prevaleva la convinzione che il Sud
non sarebbe potuto uscire dalle condizioni in cui si trovava, senza
l’intervento dello Stato nazionale, e che quindi il libero gioco delle
forze del mercato doveva essere subordinato agli obiettivi di sviluppo.
Tali politiche protezionistiche hanno così messo in moto
l’industrializzazione di una parte dell’America latina, e sono state
all’origine dello stesso miracolo economico del Sud Est asiatico.
Dentro questi sistemi, lo Stato aveva iniziato a sviluppare delle
infrastrutture che avrebbero dovuto favorire una nuova politica
industriale. Tale azione fu poi completata da una politica commerciale
che canalizzava sistematicamente le importazioni, limitandone alcune e
lasciando invece entrare le merci strategicamente necessarie alla
produzione nazionale.
I risultati di tali scelte sono stati del tutto apprezzabili, con un Pil
oscillante tra il 4 e il 6 %.
Negli anni ‘80, i programmi di aggiustamento strutturale hanno invece
rappresentato l’esatto opposto. L’obiettivo prioritario è stato quello
di aprire i mercati dei Paesi in via di sviluppo a prodotti e capitali
provenienti dall’Europa, dagli Usa e dal Giappone. Il processo così
iniziato, sotto il nome di liberalizzazione o mondializzazione, ha
prodotto il contrario di quel benessere che la sua ideologia aveva
promesso. Povertà, ampliamento delle diseguaglianze economiche, crisi si
sono ripetute all’infinito. Se escludiamo il caso rappresentato dalla
Cina, il tasso di crescita nel periodo della liberalizzazione, tra il
1980 e il 2000, è stato molto più modesto della fase precedente.
A questo proposito, mi pare giusto ricordare che proprio dopo la grande
crisi economica mondiale del ’29, e nella fase successiva al Secondo
conflitto mondiale, proprio l’intervento dello Stato ha avuto un ruolo
dominante nella stabilizzazione delle economie. È stato questo il caso
dell’Europa, del Giappone e degli stessi Usa.
La fase
neoliberista
Tuttavia non vorrei dare l’impressione di descrivere per il Sud del
mondo una sorta di “età d’oro”. Il capitalismo di Stato è stato diretto,
nella maggior parte dei casi, da èlite e dittature conservatrici,
autoritarie, se non apertamente anticomuniste. Nei Paesi che si sono
rapidamente industrializzati, le conseguenze, sul piano ecologico, sono
state a dir poco catastrofiche. L’agricoltura ha dovuto sostenere il
peso di una politica indirizzata essenzialmente allo sviluppo
dell’industria. La corruzione ha assunto delle proporzioni inusitate. Se
si esamina la situazione relativa allo sviluppo industriale, a confronto
di quello dei servizi e al suo tasso di crescita, questo modello di
sviluppo si è rivelato tutt’altro che positivo. Le classi dirigenti del
Terzo mondo hanno avuto più vantaggi da questo tipo di capitalismo che
la maggioranza delle loro popolazioni. Il loro fallimento non è stato
quindi solo determinato dal cambiamento di politica estera degli Usa
prima della vittoria di Reagan, ma da quelle barriere che hanno
ostacolato il dinamismo dello sviluppo, eccezion fatta per la Cina, la
Corea e Taiwan.
I programmi neoliberisti della Thatcher in Gran Bretagna, e di Reagan
negli Usa, hanno drasticamente invertito tale processo imponendo tali
linee alla Banca mondiale e al Fondo monetario. La crisi di
indebitamento che si è fatta sentire tra la fine degli anni ’70 e
l’inizio degli anni ‘80, ha procurato alle due istituzioni di
Bretton-Woods una leva che ha permesso di imporre un profondo
cambiamento politico nei Paesi in via di sviluppo. Il loro accesso ai
capitali del Nord veniva ora vincolato all’accettazione dei cosiddetti
“programmi di aggiustamento strutturale” imposti proprio dalla Banca
mondiale e dal Fmi. Questo è stato il grande lavoro politico
dell’amministrazione Reagan: conferire una sorta di legittimità morale
alla teoria economica neoliberista sviluppata all’università di Chicago.
Un nuovo
ordine economico?
Gli anni ‘70 hanno rappresentato un decennio durante il quale il Nord
del mondo si è sbarazzato della cattiva coscienza che aveva nei
confronti del Sud. In Africa ed in America latina, i movimenti popolari
avevano portato avanti la lotta per la loro indipendenza nazionale. I
governi di fronte popolare arrivarono al potere. Il Sud era pervenuto a
delle alleanze strategiche che sembravano poter ribaltare i tradizionali
rapporti di forza nell’economia mondiale. Le èlite conservatrici,
soprattutto quella statunitense, erano molto preoccupati dell’adozione
da parte delle Nazioni Unite, nel 1974, del “nuovo ordine economico
internazionale” che prevedeva, per l’appunto, una rilevante
redistribuzione delle ricchezze dal Nord verso il Sud. Gli aumenti del
prezzo del petrolio imposti dall’Opec nel ’73 e nel ’79, ebbero
l’effetto di un vero e proprio choc, tanto si era abituati a considerare
questa materia prima come una risorsa praticamente gratuita. Alla fine
di quel decennio, l’Occidente cominciò a considerare come una minaccia
non più solo il comunismo ma anche il Sud. Gli alleati di Reagan
approfittarono di questa paura in occasioni delle elezioni dell’80. Una
volta saliti al potere, una delle loro prime misure fu proprio quella di
cambiare le politiche delle istituzioni di Bretton-Woods.
Le fasi
della mondializzazione
Esistono due fasi della mondializzazione dell’economia. Durante la
prima, che va dal 1815 alla vigilia della Prima guerra mondiale, era la
Gran Bretagna ad impostare una liberalizzazione dei flussi di capitali e
del commercio, oltre che della forza lavoro. L’America di Reagan
rappresentò invece la seconda fase, largamente dominata dalla sua èlite
politica e economica. La sua era un’economia centrata
sull’internazionalizzazione dei mercati dei capitali. I gruppi dirigenti
francesi, tedeschi e britannici vedevano invece con maggior simpatia
l’intervento dello Stato nell’economia. In questa stesso periodo, però,
i principali settori del capitale transnazionale americano e europeo, si
allearono tra loro per creare, sul piano mondiale, un forte gruppo di
pressione. È d’altro canto evidente, che il capitale statunitense non
aveva mai rinunciato al suo ruolo dominante. Durante gli anni ‘90, è
così venuta avanti una alleanza trans-atlantica delle èlite economiche,
nel mentre i gruppi dirigenti dell’Europa si mostravano più dubbiosi
degli americani davanti ai dogmi della mondializzazione e sulle sue
conseguenze. È interessante constatare che non Ronald Reagan ma bensì il
democratico Bill Clinton, ha espresso la convinzione che gli interessi
di una classe capitalistica mondiale passavano attraverso l’imposizione
del libero commercio e il trasferimento di capitali senza vincolo
alcuno. Clinton e il suo ministro delle finanze, Robert E. Rubin, sono
stati i rappresentanti più decisi degli interessi capitalistici
transnazionali degli Usa. Al tempo di Clinton, l’Organizzazione mondiale
del commercio è stata istituzionalizzata, così come sono stati
intensificati i flussi di capitali speculativi verso l’Asia. Sempre
durante la sua presidenza, è stata realizzata la prima area di libero
scambio continentale (Nafta). È un fatto: i più convinti difensori della
mondializzazione sono stati i “nuovi democratici” statunitensi.
La crisi
del modello
Se andiamo a fare un bilancio dei programmi di aggiustamento
strutturale, uno dei loro effetti è stato certamente quello di
ristabilire il potere politico e economico del capitale: si è
sostanzialmente rafforzato il dominio del Nord sul Sud del mondo.
Un altro effetto perverso è stato il massiccio aumento delle
diseguaglianze economiche. Non c’è alcun dubbio: solo un’infima
minoranza dell’èlite mondiale, formata essenzialmente dai detentori di
capitale, da manager e da alcuni settori delle classi medie del Nord e
del Sud del mondo, hanno ottenuto notevoli vantaggi dal processo di
mondializzazione. Quanto invece alla maggioranza delle popolazioni del
Sud, esse sono state messe definitivamente ai margini. Il bilancio è
altrettanto negativo a proposito della povertà mondiale. Prendiamo a mo’
di esempio un solo decennio.
Alla fine degli anni ’90, erano di più le persone che vivevano al limite
della povertà che quelle registrate all’inizio. La sola eccezione è
rappresentata dall’Asia del Sud Est che ha conosciuto, nello stesso
periodo, una crescita rilevante. A questo punto è possibile una sola
valutazione: la mondializzazione non ha rappresentato nient’altro che la
forma di un nuovo asservimento del Sud del mondo.
Si ritorna
al “protezionismo” ?
Al Nord, invece, è stato spezzato il compromesso sociale dello Stato
keynesiano tra capitale e lavoro; il capitale si è visto restituire il
suo potere iniziale. Ma verso la metà degli anni ‘90 si è cominciata a
manifestare una forte resistenza a tale politica, sotto forma di
movimenti sociali: una opposizione della società civile mondiale alla
globalizzazione capitalistica. Del resto viviamo in un’epoca di profonde
contraddizioni. Appare sempre più chiara la crisi di legittimazione
ideologica del neoliberismo. Ma questa è il risultato di un’altra crisi:
quella della crescita economica. In una fase di stagnazione, la lotta
per i mercati e i profitti si fa più dura.
La disponibilità delle varie economie nazionali ad aprire i loro mercati
diminuisce sensibilmente. La politica economica dell’amministrazione
Bush si è caratterizzata per una serie di misure di stampo nettamente
protezionistico. È intervenuta per sovvenzionare la produzione
dell’acciaio e con la ripartizione dei contratti per la ricostruzione in
Iraq. Da ciò si può capire che gli interessi economici nazionali
diventano più importanti di quelli mondiali. Bush, in fondo, non ha la
stessa fiducia nei processi di mondializzazione che nutriva Clinton. Il
suo motto è: libero commercio mondiale e… protezionismo per gli Usa.
L’attuale presidente statunitense si mostra più scettico verso le
istituzioni internazionali. Preferisce le strategie bilaterali o
unilaterali a quelle multilaterali. Inoltre, dà molta più importanza
alla forza militare che a quella economica. Questa evoluzione deriva dal
fatto che la componente più nazionalista della classe politica
statunitense è attualmente al potere, e porta avanti gli interessi del
complesso militare-industriale.
Mentre George Soros ha chiesto esplicitamente un ritorno alla politica
di Clinton, l’opinione ancora dominante è che la scelta protezionistica
corrisponde meglio, in questa fase, agli interessi del capitale
americano dentro la globalizzazione.
Mentre la dottrina neoliberista dimora ancora nel senso comune, la
realtà è di ben altro segno. I fatti ci dicono che tra le èlite delle
maggiori regioni industrializzate del mondo, la sbornia della
mondializzazione comincia a passare.
© Horizons et débats,
luglio 2004
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