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I poliziotti e i soldati tenevano lontani gli operatori della
televisione e dunque i nostri schermi erano popolati da persone ridotte
a minuscole figurine. Io le guardavo come allucinato e mi sembrava una
scena già vista da qualche parte: uomini giganteschi con le armi in mano
correvano per quella lontananza, poi si fermavano di scatto, come
impietriti; donne piangenti si riunivano in gruppi che parevano quelli
del Golgotha; a tratti si disperdevano come se avessero inteso un
richiamo da qualche luogo segreto ma, subito dopo, tornavano insieme,
come grumi di dolore; più tardi arrivarono carri armati che sembravano
orrendi pachidermi corazzati; infine, all'improvviso, irruppe sulla
scena una miriade di corpicini nudi che correvano senza meta. In quel
momento ciò che sapevo e vedevo ha assunto per me, più nettamente, i
colori e le forme di un quadro di Hyeronimus Bosch: un mondo impazzito,
di insetti antropomorfi, di belve antropomorfe, di uomini e figli di
uomini ridotti a larve; distrutta ogni logica, cancellata ogni pietà,
fratturato ogni panorama e ogni oggetto da crepe profonde da cui
uscivano incubi..
Ancora oggi (ed è per questo che LETTERA parte così tardi) un muto grido
di orrore risuona dentro di me, e mi sembra annullare non solo ogni
speranza per il futuro ma anche il senso delle scelte che in passato
tanti (e un po' anch'io, con fatica e paura e incoerente testardaggine)
hanno fatto (e pagato) per cercare di riscattare la Terra da certi
orrori. Lo strazio di Beslan, catturato dalle idrovore mass-mediatiche,
mi ha reso lucidamente consapevole della definitiva eclisse di una
civiltà incapace di memorie e di sentimenti amorosi. Il più
impressionante dei delitti la cui contemplazione abbia mai avvelenato la
mia esistenza (una intenzionale strage di bambini davanti agli schermi
televisivi) mi costringe a riconoscere che un genocidio infantile ogni
giorno, più o meno nascostamente, devasta - non a causa di cataclismi ma
a causa di decisioni umane - il pianeta sul quale viviamo: le neonate
soppresse perché "inutili", i milioni di piccoli schiavi della pedofilia
organizzata, i meninos da rua fatti uccidere da buoni borghesi perché
"delinquenti irrecuperabili", i "lavoratori" con meno di 7 anni e quelli
soldati a 10; i milioni di bambini profughi con i loro genitori - o,
infinitamente peggio, ridotti all'orfananza - nel cuore dell'Africa Nera
o in Afganistan; quelli ancor oggi feriti o mutilati dalle mine o dalle
bombe a frammentazione (in Kosovo e in Iraq) o piagati, per generazioni,
dalle mutazioni genetiche provocate dalla chimica bellica (da Hiroshima
al Vietnam e daccapo all'Iraq) per (non) finire con i ragazzi uccisi
nella Palestina degli opposti fondamentalismi. Una specie animale che
distrugge con tanta crudeltà la sua prole è ormai pervertita al punto da
avviarsi alla propria estinzione.
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Il piccino dagli occhi spalancati che nella scuola di Beslan è obbligato
a tenere le mani dietro la nuca somiglia quasi incredibilmente al
bambino del ghetto di Varsavia, immortalato da una fotografia mentre
alza le mani sotto la minaccia delle armi di un gruppo di soldati
nazisti. Sembra che sessant'anni siano passati invano, che ci sia nella
storia una invincibile coazione a ripetere il male. Ma la realtà è anche
peggiore: il piccolo del ghetto di Varsavia è vittima della violenza
feroce di un popolo di Signori che si considera superiore a tutti gli
altri; il piccolo osseziano è ucciso "dentro" dalla ferocia di un popolo
esso stesso poverissimo e martirizzato. Se non cominciamo a capire
questa elementare verità - che la guerra dei poveri non può che
inclinare alla follia più sanguinaria, sino a colpire la propria stessa
gente o quella del tutto simile - siamo perduti.
Ci sono momenti in cui uno si odia per avere avuto ragione: qualcuno dei
miei amici ricorderà che più di vent'anni fa scrissi che le guerre che i
poveri avrebbero, prima o poi, cercato di combattere per uscire dalla
loro oppressione sarebbero state "naturalmente" feroci. Non possedendo
mass-media per illustrare le sofferenze del proprio popolo né trovando
chi se ne faccia portavoce, la disperazione dei miseri non può che
portarli a creare eventi tanto terribili da costringere giornali e
televisioni a registrarli con clamore; non possedendo, ammesso che vi
siano, tecnologie belliche capaci di precisione "chirurgica", non
possono che manovrare il plastico degli attentati; convinti, sino al
suicidio, che per i loro figli i paesi dominanti non abbiano pietà, essi
stessi non sentono pietà per gli innocenti travolti nelle loro imprese.
E' impossibile chiedere loro di osservare le grandi convenzioni
internazionali: del resto non le osserviamo neppure noi, nei loro
confronti, come Guantanamo insegna. Chi ha occhi per vedere, con la
lucidità che tutti dovremmo conservare, sa che la guerra dei poveri è
disumana perché essi sono stati disumanizzati.
Spero che non ci sia fra chi legge queste righe qualcuno così sciocco o
prevenuto da pensare che io stia cercando di giustificare gli orrori di
queste guerre. Considero anch'io il terrorismo una spaventosa minaccia
alla mia vita e a quella dei miei cari; ma so che accanto a me, dalla
mia parte (che io lo voglia o no, e quindi con mia inevitabile
complicità), c'è chi, da posizioni dominanti, nelle sedi e istituzioni
in cui dovrebbe articolarsi una civiltà fraterna o almeno attenta a un
po' di giustizia, provoca, alimenta e spesso sfrutta la collera dei
poveri: quella collera che quasi cinquant'anni fa già il grande papa
Paolo VI sentiva crescere nelle viscere della storia. e inutilmente ci
additava nella sua enciclica "Populorum progressio"..
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(Sì, lo so, naturalmente: c'è anche un terrorismo che nasce non dalla
disperazione della miseria, ma dal fanatismo religioso, dal profondo,
feroce disprezzo per un mondo occidentale che sembra (sembra?) avere
perso ogni contatto con i principî morali della Torah, del Corano e del
Vangelo. I terroristi di questo tipo, come i "nostri" fondamentalisti,
adorano un dio che è una proiezione dei loro peggiori difetti, e non il
"clemente e misericordioso" Dio delle Scritture. Essi hanno anche una
base politica su cui far leva; ed è il profondissimo razzismo con il
quale le potenze occidentali vanno trattando, da almeno due secoli, il
mondo islamico, riducendolo a popoli colonizzati, tracciandone a proprio
beneplacito i confini, negandogli ogni autodeterminazione e dando vita,
per dominarlo e rapinarlo delle sue ricchezze, a classi politiche e
dinastie "occidentalizzanti", corrotte e feroci. Ciò che è avvenuto dopo
l'11 settembre del 2001 ("Fahrenheith 9/11" ne riassume bene alcune
delle tante prove) mostra che quel tipo di terrorismo, responsabile
delle stragi di New York e di Madrid, per non citare che due crimini non
è veramente combattuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati: la tribù
dei Bush non può permetterselo, essendone socia in affari ).
(Un'altra parentesi. Ricordate l'ultimo viaggio di Putin a Roma? I
giornalisti gli domandarono un commento sulla situazione cecena.
Berlusconi gli rubò la risposta: "Non esiste un problema ceceno". Un
terzo della popolazione di quello sventurato paese era stato falciato da
anni di conflitto armato, la disoccupazione e la miseria devastavano la
regione ma il nostro Sorridente del Consiglio non lo sapeva, a lui
bastava il sorriso dell'ex agente del KGB che così amorosamente riceve
nel suo regno sardo)..
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Riprendo a scrivere dopo qualche giorno. Dopo la strage di Beslan, mi
sono accorto che cercavo di pregare senza riuscirci. Riuscivo solo a
ripetere tacitamente due versi di Rabin-danath Tagore, il poeta indiano
dell'ecumenismo "largo":
Sulla spiaggia di mondi senza fine
giocano i bambini…
Il cuore cercava almeno una speranza di gioia restituita dall'eternità
all'innocenza massacrata. E tuttavia, un po' alla volta, ho cominciato a
sentire che anche questo sentimento - e quello dell'immensa pietà per i
superstiti, la cui infanzia è stata per sempre piagata dalla scoperta
della ferocia degli adulti - non poteva bastare. Non potevano le candele
accese dietro le finestre o le fiaccolate per illuminare il buio di una
notte atroce perché quella notte è anche dentro di noi e non solo nei
terroristi, se rimaniamo inerti, loro complici. Ho sentito il bisogno di
confessarlo: davanti a Beslan, perché quell'evento mi è sembrato un
tornante di civiltà, irreparabile senza una risposta finalmente nata
dalla consapevolezza degli orrori generati dal dolore di tanti popoli.
Nurit Peled-Elhahan, scrittrice israeliana che sei anni fa ha perso la
figlia tredicenne in un attentato di Hamas e che da allora si batte
contro le spaventose responsabilità del regime di occupazione, dice: “Mi
appello ai genitori che non hanno ancora perso i loro figli perché
prestino attenzione alle voci che salgono dal regno della morte, sul
quale camminiamo giorno dopo giorno e ora dopo ora". Lo so. sembra
difficile accettare questo invito, tanto sono ancora fragili, incerte e
leggere le forme e le idee del movimento per la pace, scaduto e minato
il prestigio dell'ONU, potenti come mai le forze del male. tuttavia vi
sono epoche - diceva ancora Paolo VI - in cui l'unico realismo è quello
dell'utopia. E' arrivato il momento in cui il dilemma si è fatto
chiarissimo: o rifiutiamo l'odio, in tutte le sue forme, o l'odio ci
distruggerà tutti. Siamo non invitati ma obbligati alla speranza, alla
solidarietà, alla creatività, alla sincerità coraggiosa. l'unica
alternativa è paura crescente e trasformazione di ogni strada e cortile
in possibile campo di battaglia. Putin ha imparato la lezione dall'amico
Bush e annunzia che schiaccerà il terrorismo, anche con guerre
preventive, in tutti i luoghi in cui esso si manifesta,. a è davvero
possibile non comprendere che il terrorismo non è uno stato né un
esercito, non è una centrale operativa, è spesso "artigianato della
morte", micro-organizzazione o disperata protesta di singoli? Che
soltanto in un mondo in cui l'amore compia coerenti atti riparatori
delle ingiustizie e delle strutture che le generano si potrà vivere
senza paura?
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Come sempre mi accade quando la disperazione mi prende alla gola, non
tanto per me che sono ormai vecchio ma per i miei figli e per i loro
bambini, sono andato testardamente in cerca di qualche speranza fra le
macerie che ci circondano, e mi pare di averne rintracciato qualche
segno. Il primo è il nuovo atteggiamento di parte del mondo islamico, la
sua volontà di prendere le distanze dalla crudeltà del terrorismo, da
qualunque parte venga agito. Questa atteggiamento deriva certamente
dalla paura di un antisemitismo che si trasferisca dall'odio per gli
ebrei a quello per i semiti arabi; ma certamente non nasce soltanto da
paura; al contrario, esso pone fondamenti ideali religiosi alla
necessità della pace.
Temo che i "nostri" uomini politici e i "nostri" mass-media commettano
l'ennesimo errore se invece che a questo Islam "di base" preferiscono
dare importanza a un "moderatismo arabo" che sarebbe quello dei governi
legati all'Occidente capitalista. Gli statisti italiani si rivolgono al
Cairo, ad Amman e Kuwait City eccetera per "mitigare" il terrorismo
quando esso ci prende di mira, com'è avvenuto nel caso delle "guardie"
italiane, del giornalista Baldoni e, in questi giorni delle due Simona.
In realtà certi governi sono contenitori solo apparentemente islamici e
in tutti i casi vicini al punto di rottura: i loro popoli, spesso
dominati da regimi crudeli, non ne condividono le scelte politiche
occidentalizzanti. Come tali, del resto, i governi "arabo-moderati" sono
certamente tagliati fuori da ogni rapporto con i musulmani iracheni, non
soltanto quelli fondamentalisti ma anche quelli più semplicemente
ribelli all'occupazione militare. (A questo proposito è sconcertante la
stupidità, per non dire di peggio, del governo italiano, il quale, nel
momento di una crisi tanto dolorosa e delicata riceve, primo fra i
governi europei. il presidente fantoccio del regime stelle-e-strisce di
Bagdad).
Ben più promettente, io credo, per la conquista della pace è invece
l'Islam che in Italia, in Francia e in Spagna, ma anche in molti altri
luoghi, esprime solidarietà alle vittime dell'odio. Questa novità apre
una inedita speranza: la ripresa di un dialogo fra credenti che in altri
secoli produsse mirabili civiltà.
Anche da questo punto di vista mi è sembrata straordinariamente
commovente la mani-festazione di bambini iracheni e delle loro famiglie
per chiedere la liberazione delle due Simona che hanno lavorato a lungo
per loro e con loro. Nella piazza del Paradiso di Bagdad, quella in cui
si erge ancora il basamento della statua di Saddam Hussein trascinata
nella polvere da un cingolato americano, questa piccola folla di
coraggiosi ha sfidato la crudeltà dei terroristi e mostrato quanto bene
possa seminare chi non chiede se non di servire la causa della
fraternità fra i popoli. E' triste, e scandaloso dal punto di vista
morale e politico (ma sì: anche della realpolitik) che i governi della
cosiddetta Coalizione non riescano a decidere qualche atto similare di
positiva ricerca di un'attenuazione del conflitto iracheno, per esempio
la cessazione dei bombadamenti a tappeto su Falluja ed altre città, che
tanto sangue costano alla popolazione civile, bambini compresi. Il
grande massacro terrorista di Bush, lo capiscano o no i suoi elettori,
sta diventando sempre più chiaramente una guerra neo-colonialista,
dunque già persa davanti alla storia.
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Quando dico che è ormai di fatale necessità che ciascuno di noi prenda
posizione contro gli orrori che devastano la Terra e preparano altri
spaventosi conflitti e terrorismi, so bene di suscitare le frustrazioni
di chi è convinto di non contare nulla nelle decisioni dei governanti,
di chi sente di trovarsi di fronte allo strapotere del grande Capitale
e, ancor più amaramente, di chi ricorda il fallimento di una propria
esperienza nei partiti, nei sindacati, nelle espressioni di "base".
Tutto ciò è dolorosamente vero, e però, io credo, non ci esime dal
dovere di custodire in noi la dignità del coraggio e dell'indignazione.
Questi due sentimenti, diceva un grande pensatore, Agostino di Ippona,
sono figli della verità: chi contempla la ferocia dei Potenti sui poveri
non può, se crede nella dignità dell'uomo, non sentire dentro se stesso
bruciare una ribellione che lo spinge a intervenire; e poiché questo
sentimento risponde alla logica dell'amore esso è inevitabilmente
sostenuto dalla volontà di non tradirne le conseguenze. Dunque un
passato deludente, o peggio, non può giustificare una diserzione: o
accettiamo di farci minimi ma reali protagonisti del nostro tempo o
siamo poveri rottami portati via da una corrente fangosa. Dobbiamo
provare e riprovare, ancora, creare aggregazioni o dare il nostro
contributo a quelle già esistenti.
Sembra a me di capire che (altro magnifico segno di speranza) molta e
molta gente, in questi giorni più che in altre occasioni, stia
comprendendo questa realtà, La moltiplicazione quasi irruente, di
manifestazioni di solidarietà con le due volontarie italiane pare
indicare questa preziosa novità. Se la partecipazione popolare ai
funerali dei soldati morti a Nassiriya travalicò la retorica dei
generali e di cardinali come Ruini fu perché gli italiani sono sempre
stati abituati a considerare i nostri militari come "poveri figli di
mamma". Grandi furono anche le manifestazioni per il rilascio dei
vigilantes italiani: molti, anche fra quelli che non condividevano le
loro scelte "professionali" -ed anzi le disapprovavano - colsero lo
strazio delle famiglie e vollero esprimere pietà e vicinanza. Ma nel
caso di Simona Pari e di Simona Torretta non è solo la pietà a radunarci
in loro favore: è che chiunque sa che l'amore è più potente dell'odio e
comunque ben più vicino alle ragioni della vita, nonostante ogni
diffidenza per la politica e ogni paura di compromettersi si sente
toccato nei suoi sentimenti migliori e coglie tutta l'assurdità delle
guerre, la loro forza disgregatrice di ogni sentimento; e del conflitto
da Bush contro l'Iraq coglie la mostruosa ipocrisia e la devastazione di
un popolo che si pretende di salvare.
Forse il movimento per la pace non è mai stato così forte nel nostro
Paese; e se è bene che gli esponenti dei partiti di opposizione salgano
le scale di palazzo Chigi per mostrare all'opinione pubblica
internazionale l'unità del popolo italiano nel richiedere l'incolumità e
la liberazione delle due Simona, è necessario che i leaders di quei
partiti non consentano equivoci sul ripudio della guerra irachena e
delle strategie "preventive", quasi che queste scelte passassero in
secondo piano in un momento di crisi così dolorosa e di consapevolezza
cos' lucida.
Momento, anche, di orgoglio. Il movimento per la pace è stato spesso
accusato di preferire le retrovie all'eroismo militare: Ma le due Simona
erano assai più esposte ai rischi dei soldati superarmati: e servivano
la pace molto più dei soldati inviati dal governo italiano agli ordini
degli occupanti britannici. La vicenda di "Un ponte per…" dovrebbe
ridurre al silenzio chi in ogni occasione ha cercato di offendere i
valori del movimento per la pace. Berlusconi - ricordate? - dileggiava
Gino Strada che sotto i bombardamenti dell'Afganistan denunziava la
crudeltà e l'inutilità della guerra. "E' un uomo dalle idee confuse"
assicurava con un sorriso sardonico.
Lui, invece, ha idee chiarissime. Speriamo che piacciano sempre meno
agli italiani.
ettore masina |
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