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In tutta la storia
dell’umanità quello di procurarsi il cibo necessario per sé e per la
propria famiglia, è stato in cima alla lista dei cosiddetti “bisogni
primari”. Tanto è vero che una delle motivazioni più profonde che hanno
spinto le famiglie a riunirsi in comunità, è stata proprio la speranza
di risolvere questa esigenza. E così, circa 10 mila anni fa, nella
mezzaluna fertile di quello che adesso è il Medio Oriente, nel sud del
Messico e nel nord della Cina, ebbe inizio quel lunghissimo processo di
selezione e coltura delle piante, di uso degli animali per le necessità
dell’economia familiare o di clan, di fabbricazione degli strumenti di
lavoro, di costruzione delle organizzazioni sociali, di invenzione del
linguaggio su cui si sono fondate tutte le nostre civiltà. Veniamo tutti
dalla lotta contro la fame. E la responsabilità di condurla, all’inizio,
spettava a tutti gli individui.
Il
“malsviluppo” agricolo
All’inizio, la produzione agricola era più o meno la stessa, ovunque
venisse praticata. Ma attraverso i millenni questo approccio, con il
disboscamento di immense aree di territorio e con l’emergere di uno
squilibrio tra popolazione e ambiente, arrivò ad un limite insuperabile.
Da quel momento - circa 5mila anni prima di Cristo - le varie
agricolture cominciarono a seguire strade diverse per adattarsi ai vari
ecosistemi.
Fino al XIX secolo questo processo ha portato allo sviluppo di una
pluralità di sistemi agrari, adattati agli ambienti e alle società
presenti nelle diverse regioni del mondo. Anche nell’Europa del nord, e
successivamente in Nord America e in Australia, l’evoluzione
dell’agricoltura ha continuato ad essere governata da fattori endogeni.
Ma dalla metà del XX secolo si è sviluppato impetuosamente quel sistema
che tutti conosciamo, basato sulla motorizzazione, sui fattori di
produzione chimici (fertilizzanti, pesticidi, ecc.), sulle sementi
prodotte industrialmente e sempre più soggette alla manipolazione
genetica. Si è così sviluppata una complessa catena agroindustriale in
cui la “fabbricazione” dei singoli prodotti agricoli è diventata
direttamente dipendente “a monte” dalle industrie che forniscono alle
proprie condizioni le componenti base della produzione, e “a valle” da
quelle che trasformano i prodotti agricoli e li vendono in quegli enormi
supermercati che fanno parte, oramai, della nostra quotidianità. La
produttività di questi sistemi agricoli è cresciuta al di là di
qualsiasi previsione, nel mentre la percentuale della popolazione che è
impegnata direttamente nel lavoro agricolo è scesa al si sotto del 5%.
Questa manifestazione del genio tecnico e del potere finanziario della
civiltà occidentale, non ha portato soltanto dei benefici:
l’inquinamento ambientale, il cambiamento climatico, la riduzione della
biodiversità sono oramai problemi quotidiani del Nord del mondo, non
solo del Sud. Le denunce di cibi malsani, con in testa quelle contro la
diossina e “la mucca pazza”, titolano sempre più spesso i nostri
giornali. Le campagne, intanto, soffrono il degrado e l’abbandono,
soprattutto dei territori montagnosi e delle altre aree geograficamente
e socialmente più marginali. I prodotti di qualità dell’agricoltura -
quelli che sono legati a certi territori, a specifiche tradizioni
culturali e che fanno la ricchezza e l’orgoglio di Paesi come l’Italia -
hanno sempre più difficoltà a competere nei supermercati con i prezzi
dei prodotti dell’agricoltura di tipo industriale.
Se poi volgiamo lo sguardo al Sud del mondo, troviamo un panorama ancora
più drammatico. Dalla fine del XVIII secolo in poi, nei Paesi
dell’America latina, dell’Africa, e in grandi parti dell’Asia,
l’evoluzione delle agricolture non ha ubbidito a fattori interni. La
colonizzazione è intervenuta pesantemente nello sviluppo dei sistemi
agrari. Senza generalizzare oltre misura, si può ben dire che essa ha
condotto ovunque ad uno snaturamento della funzione affidata alla
economia, imponendo una produzione che rispondesse più ai bisogni
esterni alle singole società, e quindi a una perdita di controllo sui
processi politici e sociali da parte delle popolazioni locali. Si
possono identificare alcuni fenomeni che hanno avuto un effetto
particolarmente devastante sul settore di cui ci occupiamo. La
produzione alimentare locale è stata gravemente inibita
dall’introduzione di prodotti agricoli di esportazione - il caffè, le
arachidi, il cotone - destinati alle industrie nascenti del nord.
Le conoscenze e la cultura delle popolazioni locali, la loro stessa
fiducia nelle proprie capacità di gestirsi e risolvere i loro problemi,
sono state decimate dalla supposta superiorità della scienza
occidentale, della tecnologia, delle nostre religioni che animavano i
colonizzatori. I sistemi locali che garantivano la sicurezza alimentare
e mantenevano un rapporto equilibrato tra popoli e natura, si sono
sgretolati man mano che le strutture politiche e le reti sociali che li
sostenevano sono stati sostituiti dalle amministrazioni coloniali. A
questo punto non erano più in grado di controllare il fenomeno “fame”.
Di chi la responsabilità?
Vince il
modello occidentale
L’indipendenza politica è arrivata ad un gran numero di Paesi del Sud
soprattutto all’inizio degli anni sessanta. La lotta contro la fame -
così come il mantenimento della pace - fu sentita come una
responsabilità internazionale. Nel 1964 si tenne il primo Congresso
mondiale dell’alimentazione, a Washington D.C. L’allora presidente
Kennedy dichiarò che la fame nel mondo era un crimine: “Fra dieci anni -
disse -, nessun bambino dovrà andare a letto con la pancia vuota”.
Al secondo Congresso mondiale, nel 1974, emerse un cauto ottimismo. Era
in atto una “rivoluzione verde”. Il potere tecnologico dell’occidente fu
indirizzato a mettere a punto alcune varietà di sementi - riso e mais in
particolare - in grado di accrescere la produttività dei raccolti. Si
dava per scontato che l’Europa e l’America del Nord avessero trovato la
strada giusta che portava al tanto invocato “sviluppo”. I Paesi
“arretrati” dovevano essere aiutati ad imboccare la stessa via di quelli
“avanzati” con massicce iniezioni di tecnologia e capitali occidentali.
La Banca Mondiale, le banche private e altri “professionisti dello
sviluppo”, elaborarono così dei programmi molto costosi basati
sull’introduzione di sementi migliorate e sui fattori di produzione di
derivazione chimica che necessariamente li accompagnavano. Tutto ciò
abbisognava, inoltre, di enormi sistemi di irrigazione e di impianti
industriali di trasformazione. Questi programmi vennero negoziati con
governi che erano culturalmente succubi di una certa idea di modernità;
essi credevano che i “professionisti dello sviluppo” da una parte e le
élite nazionali dall’altra, agendo di comune accordo, avrebbero
costretto i “contadini ignoranti” a compiere dei passi verso il
progresso.
Ma qualcosa andò storto. Un decennio dopo era diventato evidente che era
aumentato enormemente il divario tra quei pochi ricchi dei Paesi del
Terzo mondo che potevano permettersi di investire nella tecnologia della
“rivoluzione verde”, e la massa di contadini che non se lo potevano
permettere. Si scoprì che i faraonici investimenti degli anni ‘70 e
dell’inizio degli anni ’80, erano stati mal diretti. Soltanto una
piccola parte di queste risorse arrivarono a quei contadini cui erano,
in teoria, destinate, e che non erano mai stati consultati quando erano
stati elaborati i programmi.
Le risorse generate dall’agricoltura venivano così investite soprattutto
nei centri urbani dove il malcontento sociale era più temibile che
quello delle zone rurali. I governi cominciarono a non trovarsi nelle
condizioni di pagare i prestiti che avevano sottoscritto per finanziare
i programmi che i loro consiglieri internazionali li avevano convinti di
attuare. Bisognava fare qualcosa. E quel “qualcosa” fu l’aggiustamento
strutturale, la liberalizzazione, la privatizzazione. Così, a partire
dalla metà degli anni ‘80, in cambio del salvataggio dei governi
indebitati dalla bancarotta, il Fondo monetario e la Banca mondiale
imposero una ricetta secondo la quale essi dovevano ridurre
drasticamente le loro spese al fine di equilibrare il budget e di
generare risorse finanziarie con cui ripagare i loro debiti. Si dovevano
così annullare i sussidi agli agricoltori che servivano per l’acquisto
dei fertilizzanti e degli altri fattori della produzione. I governi
erano costretti poi a ritirarsi dai servizi di sostegno all’agricoltura;
le tariffe che regolavano l’afflusso di prodotti di importazione,
proteggendo quelli locali, dovevano essere tagliate. La mano bonaria e
imparziale del mercato libero avrebbe fatto il resto. Questa ricetta fu
rinforzata nel 1995 quando l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc)
adottò una linea il cui obiettivo era quello di abbattere tutte le
barriere al libero commercio dei prodotti agricoli. In teoria, si
diceva, gli agricoltori del Sud avrebbero tratto beneficio da un libero
accesso ai ricchi mercati del Nord.
Gli
imbrogli del neoliberismo
L’esperienza ha dimostrato che, in realtà, i produttori del Sud hanno
ben poco da guadagnare e molto da perdere. Perché? In primo luogo
perché, come abbiamo visto, le agricolture industrializzate del Nord
sono diventate smisuratamente più produttive delle agricolture familiari
del Sud. Per di più, i governi del Nord hanno continuato a elargire
sussidi ai loro agricoltori, al ritmo di circa trecento miliardi di
dollari ogni anno, anche se gli accordi dell’Omc, in teoria, proibiscono
questo tipo di sostegno. I governi del Sud, invece, non hanno i mezzi
per dare questo tipo di supporto ai loro produttori, anche se gli
accordi di aggiustamento strutturale glielo permetterebbero. Con la
Politica agricola comune (Pac) dell’Unione Europea, e con il Farm Bill
(legge agricola) degli Stati Uniti, i governi del Nord mettono in tasca
agli agricoltori, ancora prima che portino al mercato i loro prodotti,
una quantità di soldi tale che questi possono essere immessi sul mercato
mondiale a dei prezzi inferiori agli stessi costi di produzione. Grazie
a questa pratica - chiamata dumping - i prodotti del Nord inondano i
mercati del Terzo mondo a dei prezzi artificiosamente bassi, con i quali
i piccoli produttori del luogo non possono assolutamente competere. I
contadini del Sud non riescono più a vendere nemmeno nei loro stessi
mercati, tanto meno in quelli del Nord. Le scatole di pomodori
coltivati, raccolti e trasformati in Italia e trasportati attraverso
l’oceano, arrivano sul mercato nella capitale del Ghana ad un prezzo
inferiore ai pomodori freschi prodotti dai contadini locali. Il cotone
prodotto in Africa Occidentale, riconosciuto universalmente come il più
competitivo sia per la qualità che per i costi di produzione, viene
spazzato via dal mercato mondiale dal cotone super sussidiato degli
Stati Uniti. Chi ottiene beneficio da questa situazione, non sono però i
piccoli produttori del Nord (i sussidi vanno in grandissima misura alle
imprese agricole di tipo industriale), e nemmeno i consumatori. Sono
piuttosto le grandi agroindustrie che controllano la catena alimentare,
che si trovano a disporre di materie prime a prezzi artificialmente
bassi, a godere di tutti i vantaggi della situazione. Invece, i maggiori
perdenti sono proprio i contadini del Terzo mondo e le loro famiglie,
cioè i presunti beneficiari delle politiche agricole elaborate ed
imposte dall’Occidente.
Promesse
non mantenute
Eppure, ritornando alla lotta contro la fame, la vasta maggioranza degli
affamati del mondo sono proprio i piccoli produttori del Sud e le loro
famiglie. Le stesse persone i cui già fragili sistemi di sostentamento
vengono attaccati ulteriormente dai regimi di liberalizzazione. Di chi è
la responsabilità di tutto ciò?
Il vertice mondiale dell’alimentazione, organizzato dalla Fao nel 1996,
chiamò a raccolta i capi di Stato e di governo di 186 Paesi del mondo
per farla finita con la fame. Nella loro dichiarazione finale si erano
impegnati a dimezzare, entro il 2015, il numero degli affamati nel
mondo: circa 800 milioni di persone. “Abbiamo le conoscenze, abbiamo le
risorse, adesso con queste dichiarazioni abbiamo dimostrato di avere
anche la volontà politica necessaria”, ebbe a dire il direttore generale
della Fao all’ultima seduta del vertice. I 1200 rappresentanti della
società civile che si riunivano contemporaneamente al vertice, non erano
così sicuri di tali affermazioni. Loro temevano che i leader mondiali
stessero promettendo agli affamati del mondo proprio la stessa ricetta
che, a loro avviso, aveva causato il problema: l’economia globalizzata,
la liberalizzazione, un’agricoltura intensiva di tecnologie e di
capitale. Dubitavano che tutte queste espressioni di volontà politiche
si sarebbero poi tradotte in azioni. Avevano ragione. Nel giugno del
2002, preoccupata per gli insufficienti progressi compiuti verso il
raggiungimento dell’obiettivo del vertice, la Fao chiamò di nuovo i capi
di Stato e di governo ad un’altra conferenza intesa a risvegliare la
volontà politica e a mobilitare altre risorse per la lotta contro la
fame; si trattava del “Vertice mondiale dell’alimentazione: cinque anni
dopo”. Ma questa volta arrivarono soltanto 73 capi di Stato e di
governo, la maggior parte dei quali dai Paesi del Terzo mondo. I potenti
erano preoccupati di altre cose. L’11 settembre era dietro l’angolo.
Eppure doveva essere evidente come la fame e la povertà creano un
terreno fertile a tutti i tipi di fondamentalismo, di odio, di
distruzione cieca.
Alternative
possibili
Se i
governi del Nord non si fanno avanti per concorrere a vincere la lotta
contro la fame, c’è qualche speranza di spuntarla? La risposta è “si”.
La speranza viene da diverse direzioni. Innanzitutto un coro sempre più
ampio di eminenti personalità alza la voce per criticare le politiche
economiche dominanti. Tra queste due famosi economisti che hanno vinto
il premio Nobel: Joseph Stiglitz, che è stato capo della Banca mondiale
fino a poco tempo fa e che oggi ne fa una severa critica, e Amartya Sen,
autore di un libro dove sostiene che la libertà è il fine ultimo dello
sviluppo. Ma questo coro non è composto soltanto da note personalità.
Una vera e propria piattaforma alternativa “anti-fame” è stata promossa
dalle organizzazioni della società civile e dei movimenti sociali che si
erano riuniti per la prima volta nel 1996, proprio in occasione del già
ricordato vertice mondiale. Da allora hanno rafforzato le loro
organizzazioni, le loro reti, e sono passati dalla denuncia degli abusi
a elaborare proposte politiche concrete e proporre pratiche alternative.
Il Forum della società civile che si è riunito in parallelo al vertice
del giugno del 2002, ha approvato una piattaforma basata sostanzialmente
su quattro linee di azione.
Il punto di partenza è quello di adottare un approccio alla lotta contro
la fame che faccia appello ai diritti umani universalmente riconosciuti.
L’accesso da parte di tutti i cittadini ad un cibo sano e adeguato per
condurre una vita attiva e soddisfacente, non è soltanto un optional
desiderabile ma un diritto primario, e i governi hanno l’obbligo di
assicurarlo. Questo non significa distribuire il cibo alla gente, tranne
nei casi estremi in cui non c’è veramente nessuna altra possibilità.
Significa piuttosto mettere le popolazioni povere nelle condizioni di
poter badare a se stesse. E siccome, come abbiamo visto, la stragrande
maggioranza di chi soffre la fame e la povertà si trova nelle zone
rurali dei Paesi in via di sviluppo, garantire il loro diritto al cibo
significa permettere il loro accesso alle risorse produttive di cui
hanno bisogno per produrre cibo: la terra, l’acqua, il reddito, la
biodiversità.
Significa anche elaborare e mettere in atto delle politiche e dei
programmi che riconoscono e che sostengono le molteplici funzioni
dell’agricoltura familiare, in contrasto con l’agricoltura industriale:
non soltanto quelle di produrre ma anche di creare lavoro, di proteggere
l’ambiente, di mantenere la solidarietà sociale, di trasmettere la
cultura. In ultima analisi, nessun accordo internazionale dovrebbe poter
interferire con quello che si chiama la “sovranità alimentare” di ogni
Paese, e cioè il diritto e l’obbligo di decidere con tutti i settori
della società, come meglio garantire la sicurezza alimentare.
Le organizzazioni della società civile e i movimenti sociali si stanno
mobilitando in tutto il mondo intorno a questo tipo di piattaforma. In
Brasile il sostegno dei movimenti sociali è stato determinante nella
vittoria di Lula, il cui governo ha messo la lotta contro la fame, con
il progetto “Fame zero”, come una delle sue maggiori priorità. In Africa
le organizzazioni contadine di tutte le regioni del continente hanno
adottato una piattaforma comune in cui chiedono la protezione dei
mercati locali contro lo scandalo del dumping, e un accresciuto
investimento pubblico nelle zone rurali dove vive la maggioranza della
popolazione. I governi africani iniziano ad ascoltarle. “I nostri
cittadini sono con noi”, ha dichiarato un gruppo africano alla riunione
dell’Omc che si è tenuta a Cancun, quando hanno rifiutato il pacchetto
che gli Usa e l’UE proponevano loro.
La mobilitazione intorno a queste piattaforme è altrettanto forte nel
Nord che nel Sud: esse sono state elaborate in diversi Paesi
dell’Europa, compresa l’Italia. Sono in corso pressioni presso i governi
nazionali e l’Unione Europea per ottenere delle politiche agricole e
commerciali che promuovano il cibo sano per i consumatori e prezzi
remunerativi per i produttori, che proteggano l’ambiente e la diversità
culturale, e che esprimano solidarietà con i piccoli produttori del Sud
del mondo. Uno dei punti di forza di questa lotta contro la fame è
rappresentato dal fatto di riconoscere che non si tratta solo di un
problema che affligge popolazioni lontane i cui visi sofferenti e
anonimi ci aggrediscono per un attimo quando accendiamo la televisione.
Al contrario, è una lotta comune per un mondo in cui tutti noi, e anche
le generazioni future, possano vivere meglio. Ed è altrettanto ovvio,
più di quanto lo fosse stato dieci millenni fa, che si tratta di una
lotta che riguarda tutti.
Missione Oggi |
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