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Lotta contro la fame: come e con chi
 

di Nora McKeon

 
 

N. McKeon, funzionaria della Fao, ci ricorda come lo sviluppo dell’agricoltura industriale rappresenti solo una macchina per produrre profitto e non per combattere la fame. Per farlo è invece necessario affermare il diritto a un cibo sano e sufficiente per tutti. Quindi la terra, il reddito e la biodiversità ai piccoli contadini del Sud e del Nord.

 
 

In tutta la storia dell’umanità quello di procurarsi il cibo necessario per sé e per la propria famiglia, è stato in cima alla lista dei cosiddetti “bisogni primari”. Tanto è vero che una delle motivazioni più profonde che hanno spinto le famiglie a riunirsi in comunità, è stata proprio la speranza di risolvere questa esigenza. E così, circa 10 mila anni fa, nella mezzaluna fertile di quello che adesso è il Medio Oriente, nel sud del Messico e nel nord della Cina, ebbe inizio quel lunghissimo processo di selezione e coltura delle piante, di uso degli animali per le necessità dell’economia familiare o di clan, di fabbricazione degli strumenti di lavoro, di costruzione delle organizzazioni sociali, di invenzione del linguaggio su cui si sono fondate tutte le nostre civiltà. Veniamo tutti dalla lotta contro la fame. E la responsabilità di condurla, all’inizio, spettava a tutti gli individui.

Il “malsviluppo” agricolo
All’inizio, la produzione agricola era più o meno la stessa, ovunque venisse praticata. Ma attraverso i millenni questo approccio, con il disboscamento di immense aree di territorio e con l’emergere di uno squilibrio tra popolazione e ambiente, arrivò ad un limite insuperabile. Da quel momento - circa 5mila anni prima di Cristo - le varie agricolture cominciarono a seguire strade diverse per adattarsi ai vari ecosistemi.
Fino al XIX secolo questo processo ha portato allo sviluppo di una pluralità di sistemi agrari, adattati agli ambienti e alle società presenti nelle diverse regioni del mondo. Anche nell’Europa del nord, e successivamente in Nord America e in Australia, l’evoluzione dell’agricoltura ha continuato ad essere governata da fattori endogeni. Ma dalla metà del XX secolo si è sviluppato impetuosamente quel sistema che tutti conosciamo, basato sulla motorizzazione, sui fattori di produzione chimici (fertilizzanti, pesticidi, ecc.), sulle sementi prodotte industrialmente e sempre più soggette alla manipolazione genetica. Si è così sviluppata una complessa catena agroindustriale in cui la “fabbricazione” dei singoli prodotti agricoli è diventata direttamente dipendente “a monte” dalle industrie che forniscono alle proprie condizioni le componenti base della produzione, e “a valle” da quelle che trasformano i prodotti agricoli e li vendono in quegli enormi supermercati che fanno parte, oramai, della nostra quotidianità. La produttività di questi sistemi agricoli è cresciuta al di là di qualsiasi previsione, nel mentre la percentuale della popolazione che è impegnata direttamente nel lavoro agricolo è scesa al si sotto del 5%.
Questa manifestazione del genio tecnico e del potere finanziario della civiltà occidentale, non ha portato soltanto dei benefici: l’inquinamento ambientale, il cambiamento climatico, la riduzione della biodiversità sono oramai problemi quotidiani del Nord del mondo, non solo del Sud. Le denunce di cibi malsani, con in testa quelle contro la diossina e “la mucca pazza”, titolano sempre più spesso i nostri giornali. Le campagne, intanto, soffrono il degrado e l’abbandono, soprattutto dei territori montagnosi e delle altre aree geograficamente e socialmente più marginali. I prodotti di qualità dell’agricoltura - quelli che sono legati a certi territori, a specifiche tradizioni culturali e che fanno la ricchezza e l’orgoglio di Paesi come l’Italia - hanno sempre più difficoltà a competere nei supermercati con i prezzi dei prodotti dell’agricoltura di tipo industriale.
Se poi volgiamo lo sguardo al Sud del mondo, troviamo un panorama ancora più drammatico. Dalla fine del XVIII secolo in poi, nei Paesi dell’America latina, dell’Africa, e in grandi parti dell’Asia, l’evoluzione delle agricolture non ha ubbidito a fattori interni. La colonizzazione è intervenuta pesantemente nello sviluppo dei sistemi agrari. Senza generalizzare oltre misura, si può ben dire che essa ha condotto ovunque ad uno snaturamento della funzione affidata alla economia, imponendo una produzione che rispondesse più ai bisogni esterni alle singole società, e quindi a una perdita di controllo sui processi politici e sociali da parte delle popolazioni locali. Si possono identificare alcuni fenomeni che hanno avuto un effetto particolarmente devastante sul settore di cui ci occupiamo. La produzione alimentare locale è stata gravemente inibita dall’introduzione di prodotti agricoli di esportazione - il caffè, le arachidi, il cotone - destinati alle industrie nascenti del nord.
Le conoscenze e la cultura delle popolazioni locali, la loro stessa fiducia nelle proprie capacità di gestirsi e risolvere i loro problemi, sono state decimate dalla supposta superiorità della scienza occidentale, della tecnologia, delle nostre religioni che animavano i colonizzatori. I sistemi locali che garantivano la sicurezza alimentare e mantenevano un rapporto equilibrato tra popoli e natura, si sono sgretolati man mano che le strutture politiche e le reti sociali che li sostenevano sono stati sostituiti dalle amministrazioni coloniali. A questo punto non erano più in grado di controllare il fenomeno “fame”. Di chi la responsabilità?

Vince il modello occidentale
L’indipendenza politica è arrivata ad un gran numero di Paesi del Sud soprattutto all’inizio degli anni sessanta. La lotta contro la fame - così come il mantenimento della pace - fu sentita come una responsabilità internazionale. Nel 1964 si tenne il primo Congresso mondiale dell’alimentazione, a Washington D.C. L’allora presidente Kennedy dichiarò che la fame nel mondo era un crimine: “Fra dieci anni - disse -, nessun bambino dovrà andare a letto con la pancia vuota”.
Al secondo Congresso mondiale, nel 1974, emerse un cauto ottimismo. Era in atto una “rivoluzione verde”. Il potere tecnologico dell’occidente fu indirizzato a mettere a punto alcune varietà di sementi - riso e mais in particolare - in grado di accrescere la produttività dei raccolti. Si dava per scontato che l’Europa e l’America del Nord avessero trovato la strada giusta che portava al tanto invocato “sviluppo”. I Paesi “arretrati” dovevano essere aiutati ad imboccare la stessa via di quelli “avanzati” con massicce iniezioni di tecnologia e capitali occidentali. La Banca Mondiale, le banche private e altri “professionisti dello sviluppo”, elaborarono così dei programmi molto costosi basati sull’introduzione di sementi migliorate e sui fattori di produzione di derivazione chimica che necessariamente li accompagnavano. Tutto ciò abbisognava, inoltre, di enormi sistemi di irrigazione e di impianti industriali di trasformazione. Questi programmi vennero negoziati con governi che erano culturalmente succubi di una certa idea di modernità; essi credevano che i “professionisti dello sviluppo” da una parte e le élite nazionali dall’altra, agendo di comune accordo, avrebbero costretto i “contadini ignoranti” a compiere dei passi verso il progresso.
Ma qualcosa andò storto. Un decennio dopo era diventato evidente che era aumentato enormemente il divario tra quei pochi ricchi dei Paesi del Terzo mondo che potevano permettersi di investire nella tecnologia della “rivoluzione verde”, e la massa di contadini che non se lo potevano permettere. Si scoprì che i faraonici investimenti degli anni ‘70 e dell’inizio degli anni ’80, erano stati mal diretti. Soltanto una piccola parte di queste risorse arrivarono a quei contadini cui erano, in teoria, destinate, e che non erano mai stati consultati quando erano stati elaborati i programmi.
Le risorse generate dall’agricoltura venivano così investite soprattutto nei centri urbani dove il malcontento sociale era più temibile che quello delle zone rurali. I governi cominciarono a non trovarsi nelle condizioni di pagare i prestiti che avevano sottoscritto per finanziare i programmi che i loro consiglieri internazionali li avevano convinti di attuare. Bisognava fare qualcosa. E quel “qualcosa” fu l’aggiustamento strutturale, la liberalizzazione, la privatizzazione. Così, a partire dalla metà degli anni ‘80, in cambio del salvataggio dei governi indebitati dalla bancarotta, il Fondo monetario e la Banca mondiale imposero una ricetta secondo la quale essi dovevano ridurre drasticamente le loro spese al fine di equilibrare il budget e di generare risorse finanziarie con cui ripagare i loro debiti. Si dovevano così annullare i sussidi agli agricoltori che servivano per l’acquisto dei fertilizzanti e degli altri fattori della produzione. I governi erano costretti poi a ritirarsi dai servizi di sostegno all’agricoltura; le tariffe che regolavano l’afflusso di prodotti di importazione, proteggendo quelli locali, dovevano essere tagliate. La mano bonaria e imparziale del mercato libero avrebbe fatto il resto. Questa ricetta fu rinforzata nel 1995 quando l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) adottò una linea il cui obiettivo era quello di abbattere tutte le barriere al libero commercio dei prodotti agricoli. In teoria, si diceva, gli agricoltori del Sud avrebbero tratto beneficio da un libero accesso ai ricchi mercati del Nord.

Gli imbrogli del neoliberismo
L’esperienza ha dimostrato che, in realtà, i produttori del Sud hanno ben poco da guadagnare e molto da perdere. Perché? In primo luogo perché, come abbiamo visto, le agricolture industrializzate del Nord sono diventate smisuratamente più produttive delle agricolture familiari del Sud. Per di più, i governi del Nord hanno continuato a elargire sussidi ai loro agricoltori, al ritmo di circa trecento miliardi di dollari ogni anno, anche se gli accordi dell’Omc, in teoria, proibiscono questo tipo di sostegno. I governi del Sud, invece, non hanno i mezzi per dare questo tipo di supporto ai loro produttori, anche se gli accordi di aggiustamento strutturale glielo permetterebbero. Con la Politica agricola comune (Pac) dell’Unione Europea, e con il Farm Bill (legge agricola) degli Stati Uniti, i governi del Nord mettono in tasca agli agricoltori, ancora prima che portino al mercato i loro prodotti, una quantità di soldi tale che questi possono essere immessi sul mercato mondiale a dei prezzi inferiori agli stessi costi di produzione. Grazie a questa pratica - chiamata dumping - i prodotti del Nord inondano i mercati del Terzo mondo a dei prezzi artificiosamente bassi, con i quali i piccoli produttori del luogo non possono assolutamente competere. I contadini del Sud non riescono più a vendere nemmeno nei loro stessi mercati, tanto meno in quelli del Nord. Le scatole di pomodori coltivati, raccolti e trasformati in Italia e trasportati attraverso l’oceano, arrivano sul mercato nella capitale del Ghana ad un prezzo inferiore ai pomodori freschi prodotti dai contadini locali. Il cotone prodotto in Africa Occidentale, riconosciuto universalmente come il più competitivo sia per la qualità che per i costi di produzione, viene spazzato via dal mercato mondiale dal cotone super sussidiato degli Stati Uniti. Chi ottiene beneficio da questa situazione, non sono però i piccoli produttori del Nord (i sussidi vanno in grandissima misura alle imprese agricole di tipo industriale), e nemmeno i consumatori. Sono piuttosto le grandi agroindustrie che controllano la catena alimentare, che si trovano a disporre di materie prime a prezzi artificialmente bassi, a godere di tutti i vantaggi della situazione. Invece, i maggiori perdenti sono proprio i contadini del Terzo mondo e le loro famiglie, cioè i presunti beneficiari delle politiche agricole elaborate ed imposte dall’Occidente.

Promesse non mantenute
Eppure, ritornando alla lotta contro la fame, la vasta maggioranza degli affamati del mondo sono proprio i piccoli produttori del Sud e le loro famiglie. Le stesse persone i cui già fragili sistemi di sostentamento vengono attaccati ulteriormente dai regimi di liberalizzazione. Di chi è la responsabilità di tutto ciò?
Il vertice mondiale dell’alimentazione, organizzato dalla Fao nel 1996, chiamò a raccolta i capi di Stato e di governo di 186 Paesi del mondo per farla finita con la fame. Nella loro dichiarazione finale si erano impegnati a dimezzare, entro il 2015, il numero degli affamati nel mondo: circa 800 milioni di persone. “Abbiamo le conoscenze, abbiamo le risorse, adesso con queste dichiarazioni abbiamo dimostrato di avere anche la volontà politica necessaria”, ebbe a dire il direttore generale della Fao all’ultima seduta del vertice. I 1200 rappresentanti della società civile che si riunivano contemporaneamente al vertice, non erano così sicuri di tali affermazioni. Loro temevano che i leader mondiali stessero promettendo agli affamati del mondo proprio la stessa ricetta che, a loro avviso, aveva causato il problema: l’economia globalizzata, la liberalizzazione, un’agricoltura intensiva di tecnologie e di capitale. Dubitavano che tutte queste espressioni di volontà politiche si sarebbero poi tradotte in azioni. Avevano ragione. Nel giugno del 2002, preoccupata per gli insufficienti progressi compiuti verso il raggiungimento dell’obiettivo del vertice, la Fao chiamò di nuovo i capi di Stato e di governo ad un’altra conferenza intesa a risvegliare la volontà politica e a mobilitare altre risorse per la lotta contro la fame; si trattava del “Vertice mondiale dell’alimentazione: cinque anni dopo”. Ma questa volta arrivarono soltanto 73 capi di Stato e di governo, la maggior parte dei quali dai Paesi del Terzo mondo. I potenti erano preoccupati di altre cose. L’11 settembre era dietro l’angolo. Eppure doveva essere evidente come la fame e la povertà creano un terreno fertile a tutti i tipi di fondamentalismo, di odio, di distruzione cieca.

Alternative possibili
Se i governi del Nord non si fanno avanti per concorrere a vincere la lotta contro la fame, c’è qualche speranza di spuntarla? La risposta è “si”. La speranza viene da diverse direzioni. Innanzitutto un coro sempre più ampio di eminenti personalità alza la voce per criticare le politiche economiche dominanti. Tra queste due famosi economisti che hanno vinto il premio Nobel: Joseph Stiglitz, che è stato capo della Banca mondiale fino a poco tempo fa e che oggi ne fa una severa critica, e Amartya Sen, autore di un libro dove sostiene che la libertà è il fine ultimo dello sviluppo. Ma questo coro non è composto soltanto da note personalità. Una vera e propria piattaforma alternativa “anti-fame” è stata promossa dalle organizzazioni della società civile e dei movimenti sociali che si erano riuniti per la prima volta nel 1996, proprio in occasione del già ricordato vertice mondiale. Da allora hanno rafforzato le loro organizzazioni, le loro reti, e sono passati dalla denuncia degli abusi a elaborare proposte politiche concrete e proporre pratiche alternative. Il Forum della società civile che si è riunito in parallelo al vertice del giugno del 2002, ha approvato una piattaforma basata sostanzialmente su quattro linee di azione.
Il punto di partenza è quello di adottare un approccio alla lotta contro la fame che faccia appello ai diritti umani universalmente riconosciuti. L’accesso da parte di tutti i cittadini ad un cibo sano e adeguato per condurre una vita attiva e soddisfacente, non è soltanto un optional desiderabile ma un diritto primario, e i governi hanno l’obbligo di assicurarlo. Questo non significa distribuire il cibo alla gente, tranne nei casi estremi in cui non c’è veramente nessuna altra possibilità. Significa piuttosto mettere le popolazioni povere nelle condizioni di poter badare a se stesse. E siccome, come abbiamo visto, la stragrande maggioranza di chi soffre la fame e la povertà si trova nelle zone rurali dei Paesi in via di sviluppo, garantire il loro diritto al cibo significa permettere il loro accesso alle risorse produttive di cui hanno bisogno per produrre cibo: la terra, l’acqua, il reddito, la biodiversità.
Significa anche elaborare e mettere in atto delle politiche e dei programmi che riconoscono e che sostengono le molteplici funzioni dell’agricoltura familiare, in contrasto con l’agricoltura industriale: non soltanto quelle di produrre ma anche di creare lavoro, di proteggere l’ambiente, di mantenere la solidarietà sociale, di trasmettere la cultura. In ultima analisi, nessun accordo internazionale dovrebbe poter interferire con quello che si chiama la “sovranità alimentare” di ogni Paese, e cioè il diritto e l’obbligo di decidere con tutti i settori della società, come meglio garantire la sicurezza alimentare.
Le organizzazioni della società civile e i movimenti sociali si stanno mobilitando in tutto il mondo intorno a questo tipo di piattaforma. In Brasile il sostegno dei movimenti sociali è stato determinante nella vittoria di Lula, il cui governo ha messo la lotta contro la fame, con il progetto “Fame zero”, come una delle sue maggiori priorità. In Africa le organizzazioni contadine di tutte le regioni del continente hanno adottato una piattaforma comune in cui chiedono la protezione dei mercati locali contro lo scandalo del dumping, e un accresciuto investimento pubblico nelle zone rurali dove vive la maggioranza della popolazione. I governi africani iniziano ad ascoltarle. “I nostri cittadini sono con noi”, ha dichiarato un gruppo africano alla riunione dell’Omc che si è tenuta a Cancun, quando hanno rifiutato il pacchetto che gli Usa e l’UE proponevano loro.
La mobilitazione intorno a queste piattaforme è altrettanto forte nel Nord che nel Sud: esse sono state elaborate in diversi Paesi dell’Europa, compresa l’Italia. Sono in corso pressioni presso i governi nazionali e l’Unione Europea per ottenere delle politiche agricole e commerciali che promuovano il cibo sano per i consumatori e prezzi remunerativi per i produttori, che proteggano l’ambiente e la diversità culturale, e che esprimano solidarietà con i piccoli produttori del Sud del mondo. Uno dei punti di forza di questa lotta contro la fame è rappresentato dal fatto di riconoscere che non si tratta solo di un problema che affligge popolazioni lontane i cui visi sofferenti e anonimi ci aggrediscono per un attimo quando accendiamo la televisione. Al contrario, è una lotta comune per un mondo in cui tutti noi, e anche le generazioni future, possano vivere meglio. Ed è altrettanto ovvio, più di quanto lo fosse stato dieci millenni fa, che si tratta di una lotta che riguarda tutti.


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