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Simona, l'altra
Simona, Enzo sono di quelle persone che finiscono sui giornali solo
quando succede loro qualcosa di eccezionale.
Hanno bisogno, per essere "persone importanti", di essere tirate dentro
alle storie dei grandi capi del mondo, quelli che ammazzano a massa per
nobili ragioni e son dunque i protagonisti ufficiali dei giornali.
Ma i nostri amici non sono importanti perché aggrediti ora. Sono
importanti per la loro vita normale, quella in cui il pericolo - come il
pericolo del minatore o del ferroviere - è semplicemente un aspetto di
un lavoro da fare, non uno spirito di guerra.
Nell'indifferenza ufficiale, sono stati loro - loro, e quelli come loro
- a costruire le cose che resteranno. Enzo è stato fra i pochissimi
giornalisti a raccontare le storie del mondo così, come le vive la gente
comune. Non credo che gli editoriali del Corriere saranno di qualche
utilità per chi vorrà ricostruire la crisi irachena fra vent'anni. I
blog di Baldoni invece sì.
Così, fra tanto sbraitare di lotta al terrorismo, il Ponte per Bagdad,
le Ong, le due Simone, sono gli unici che l'hanno fatta veramente. Gli
unici a contrastare il terrorismo nella testa della gente. Di tanti
generali, politici, commentatori strategici e presidenti, nessuno è
riuscito a ottenere un minimo non dico di solidarietà ma di comprensione
dalla gente di Bagdad. I nostri amici sì. Sono loro ad aver portato le
donne irachene, i sunniti, gli sciti, tutti quanti, a dire "siamo nemici
del terrore". Non l'hanno fatto con le armi nè con la propaganda, ma con
l'esempio. Uomini e donne buoni, senza interessi da difendere, senza
secondi fini: convivendo con loro, guardandoli vivere, anche i più
diffidenti hanno capito che forse occidente e oriente hanno qualcosa in
comune, che forse sull'amicizia reciproca si può costruire qualcosa.
Questo è un risultato fortissimo, storico, che ci aiuta a pensare che
fra vent'anni, probabilmente, il solco del terrorismo reciproco sarà un
ricordo passato, inutilmente alimentato da pochi politici ma
irrimediabilmente datato per il senso comune.
Non sarebbe la prima volta. L'Iraq, il mondo arabo, non è il primo ad
essere tentato dalla violenza di massa contro "l'occidente".
Laggiù, nonostante le occupazioni militari, le repressioni durissime, lo
sfruttamento economico e la morte civile, è solo una parte della
popolazione, e solo occasionalmente, che dà credito al terrorismo. Da
noi in Europa, sessant'anni fa, la situazione era molto peggiore. Su
ottanta milioni di tedeschi erano molto pochi quelli che non
approvassero il terrorismo di massa contro i russi o gli ebrei. Eppure,
nel giro di appena due o tre generazioni, i tedeschi sono diventati il
paese più umanitario e civile d'Europa.
Non sono state Dresda o Hiroshima a ottenere questo risultato. E' stata
la chitarra, la chewing-gum, il rock, l'esempio della vita libera, il
non-razzismo con cui complessivamente i vincitori hanno saputo
amichevolmente "invadere", nel dopoguerra, coloro che avevano appena
vinto. La libertà è contagiosa, e l'America di allora lo sapeva.
Adesso non lo sa più. Convinta che conta vincere, e che tutto il resto è
poesia, non è più in grado di trasmettere altro che
violenza. Se gli americani di ora avessero dovuto gestire, con i metodi
attuali, il dopoguerra di allora probabilmente a Berlino metà della
popolazione sarebbe ancora nazista e in Giappone si esalterebbero ancora
le gesta di Tojo.
Dopo l'undici settembre, la risposta è stata l'invasione e il
bombardamento, non la lotta al terrorismo. In Russia, adesso, i generali
annunciano la guerra preventiva e totale. In entrambi i casi, da un lato
si è lasciato campo libero - per incompetenza e incapacità professionale
- ai veri e propri terroristi, dall'altro si è fatto il possibile per
punire (e dunque coinvolgere) i rispettivi popoli al loro posto. Non
sembra che nella politica ufficiale di americani e russi qualcosa stia
cambiando. Le prospettive del terrorismo sono dunque sempre più rosee,
molto migliori di tre anni fa.
* * *
Per fortuna, ci sono
persone come Baldoni, Pari, Torretta, Strada, Zanotelli, Frisullo.
Diciamo persone, ma in realtà ciascono di questi singoli è sicuramente
espressione, ognuno a suo modo ma con un'omogeneità impressionante, di
qualcosa di ormai molto collettivo. Il movimento pacifista italiano (il
Ponte per Bagdad, per esempio) ha ormai una storia lunga dieci anni. Non
è più una storia di entusiasmi, ma di consapevole e pratica maturità. E'
stato questo movimento, per la prima volta nella nostra storia, a
impedire in un primo momento la partecipazione italiana una guerra
coloniale, e a ridurla al minimo anche dopo. E' stato esso e esprimere
una politica non velleitaria, realistica, per ricucire i rapporti col
Terzo Mondo. E' riuscito ad affrontare questioni difficilissime e
radicali senza ideologizzarsi più di tanto e mantenendo un legame
strettissimo fra componenti "cattoliche" e "comuniste". E' stato esso ad
esprimere i militanti civili in cui tutto il paese oggi si riconosce.
* * *
Tutto ciò è ancora ai
margini, pur essendo la minoranza più consistente del paese e forse, in
certi momenti, la maggioranza. Si riflette solo occasionalmente sulla
politica ufficiale, che è, quanto a questi problemi, estranea quanto un
uomo del settecento al primo socialismo. Ci si chiede quanto tutto
questo potrà durare, e quando una cultura come questa comincerà - come
ci sembra naturale - a governare esplicitamente qualche paese europeo.
La catena di San Libero
n. 248
Riccardo Orioles |
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