agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti  
 
 
 

Archeologie interiori

di Marisa Lepore

 
 

Archi, colonne, scale, finestre. Interni di un andare dentro se stessi, dove gli ingombri sono le piccole stasi del quotidiano, a stupirci di quanto siano poche le forme essenziali dell’esistere, benché moltiplicate nella prospettiva, fino alla ricomparsa e al ri-ritrovamento un poco più in là del visibile.
Smarrimenti in sguardi bidirezionali divergenti dove ri-convergere passato e futuro, memoria e proiezione, già detto e riformulazione, legati ad un tempo sincrono finalmente afferrato, fissato, emozionale istantanea del vissuto.
Prospettive antiche, antri della sibilla di un oracolo che ha in sé ogni responso, perché nella stasi non ci sono domande e non ci sono risposte e tutto si ripete uguale. Non vivono né dei né eroi nella contemplazione e nel disincanto.
Prospettive futuribili, mondi virtuali di sincrone probabilità, dove il racconto è nell’incontro-attacco-proliferazione di infinite linee e innumerevoli piani di architetture improbabili, funzionali ad un incedere concentrico, ossessivo e compulsivo per claustrofobie leggere come danze, gioiose come il gioco a incastro di un bambino, piacevoli come esercizi di stile, rassicuranti come esercitazioni di vita.
Prospettive reiterate in cui scoprire variazioni nella modularità, particolarità nella ripetitività, diversità nella riproposizione.
I personaggi vivono la stasi, la dilatazione del già vissuto, arcaiche figure virtuali, sorprese in stand by prima di ricominciare il quotidiano evolversi dell’azione entro i limiti del programmato.
Gesti ripetitivi antichi e semplici che hanno la forza e la saggezza del ciclico ritorno di un tempo circolare.
Architetture come prove di esistenza, dove puntare cursori di fattibilità.
Strutture che hanno il peso dei secoli, così note e amiche perché ineluttabili prodotti di saggezze umane, risultati di verificate funzionalità; strutture antropomorfe, di cui ascoltare il respiro, vederne il ghigno, il sorriso o lo sberleffo, di cui percorrere ogni materialità; strutture come meandri di vagine troppo conosciute dove perdere e ritrovare il desiderio.
Interno-esterno, dove il fuori è l’occhio che guarda dentro sé stessi. Alieno, altro da noi-in noi, immenso e perscrutabile, laddove, microcosmo, noi ci misuriamo con la rassicurante attrezzatura-dotazione dello spazio limitato.
Comune materia originaria divengono l’esterno di cielo acqua campi alberi vento e stelle, foglia luce piuma ramo fiorito e l’interno-rifugio di intonaci, piastrellati, scale, finestre e strumenti e suppellettili per le pratiche dell’esercizio alla vita.
All’interno, la stasi di sedie sghembe adeguate a sorreggere pesi immateriali come un pensiero superato; tavoli azzurri rubati a un cielo notturno o al grigio di travi e muri; chiuse cassapanche colme di arabeschi familiari; valigie per viaggi mai intrapresi o per ritorni forzati.
All’esterno, il dinamismo dell’irreale convergere di alberi e architetture, attrazione fatale, reminiscenza di matrice comune; orizzonti aperti di campi immoti dove pochi disseminati leggeri fusti di alberi protendono chiome, insolite come vele spiegate sull’acqua; case cubiche essenziali con minuscole scale sotto porticine a feritoie, oltre cui umanità sconosciute consumano le pratiche quotidiane dell’esistenza.
Ritratti come autoritratti. Teatri dell’anima con singoli spettatori autoriflessi, che assumono la densità degli intonaci su cui cresce il muschio del vissuto, stratificati dall’esistenza rinnovata, in un rimando sfondo-personaggi che imprigiona e sorregge e affranca da ogni responsabilità.
Donne, figure arcaiche, penelopi in attesa cosmica che lo scorrere del tempo storico dota di segni contemporanei e pur riproponibili; tuniche-sottovesti su corpi di femminilità rassicuranti con chiome blu, giallo-arancio, verde, viola, scomposte dagli eventi, scolpite dall’emozione, cornici surreali a fragili e duttili esseri plasmati e plasmabili.
Donne come gioconde leonardesche, con sguardi ineffabili su paesaggi incorniciati da sghembe finestre, squarci di orizzonti interiori; donne come madonne medievali su paesaggi diafani o cortigiane rinascimentali sapienti di intrighi e di malie; donne come compagne di vita, smarrite nella grandezza di sogni inavverabili, nell’attesa di gesti rinnovati.
Donne. L’accenno di un pube su una ciotola che ne raccolga gli umori; mani raccolte a custodire una piuma o il filo di un ricamo per una tela senza inizio né fine; mani composte a trattenere gambe divaricate verso desideri inconfessati; sovrapposte ad avvinghiare pesci non più guizzanti come vani e inutili possessi o incrociate a custodire stelle di comete, metafore di antichi amori smarriti.
Mani socchiuse a riparare fiamme di candele fioche come desideri spenti; mani prossime a sessi soddisfatti in un languore caldo e nostalgico; sollevate come barriera al darsi o morbide sul grembo per un’offerta d’amore; mani vezzosamente sorrette a tende o veli sospesi nonsisadove nonsisacome da fantasie neoromantiche.
Donne distese su letti disfatti, dove rinvenire il pudore di gesti leggeri soltanto immaginati o l’abbandono dell’amore dietro occhi ciechi, pieni del ricordo.
Donne in piedi dietro pareti spoglie di ogni racconto; confuse su intonaci come tavolozze materiche o nettamente stagliate, figurette da catalogare; sedute, ricolme di maternità rassegnate, sgomente del futuro di un incontro negato, sorprese inondate dall’oro argento di foglie ondeggianti.
Gonne di donne sollevate di fianco a pianoforti socchiusi a ricordare le volte che ne hanno suonato l’anima; a solcare acque come piscine termali contornate da campi gialli e verdi di grano, erba e solitarie chiome di alberi; a scoprire universi prossimi e remoti per viaggi della mente e del cuore e dell’animo.
Uomini. Soli con i propri sorrisi, le idee, i ricordi; attivi a cercare l’acqua, rabdomanti metropolitani nei campi della memoria; grassi come lo straripare dell’inutile sovrabbondanza; duri come la pietra delle proprie resistenze; morbidi languidi sognanti nella levità dell’incanto.
Coppie. Rare e sovente chiuse in abbracci sereni e rasserenanti come la stasi dei sentimenti consolidati.
All’ombra del controluce di Carlo Ravaioli, un altrove possibile per costruire archeologie interiori.

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pubblicato il
25/09/05

 

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