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Archi, colonne,
scale, finestre. Interni di un andare dentro se stessi, dove gli
ingombri sono le piccole stasi del quotidiano, a stupirci di quanto
siano poche le forme essenziali dell’esistere, benché moltiplicate nella
prospettiva, fino alla ricomparsa e al ri-ritrovamento un poco più in là
del visibile.
Smarrimenti in sguardi bidirezionali divergenti dove ri-convergere
passato e futuro, memoria e proiezione, già detto e riformulazione,
legati ad un tempo sincrono finalmente afferrato, fissato, emozionale
istantanea del vissuto.
Prospettive antiche, antri della sibilla di un oracolo che ha in sé ogni
responso, perché nella stasi non ci sono domande e non ci sono risposte
e tutto si ripete uguale. Non vivono né dei né eroi nella contemplazione
e nel disincanto.
Prospettive futuribili, mondi virtuali di sincrone probabilità, dove il
racconto è nell’incontro-attacco-proliferazione di infinite linee e
innumerevoli piani di architetture improbabili, funzionali ad un
incedere concentrico, ossessivo e compulsivo per claustrofobie leggere
come danze, gioiose come il gioco a incastro di un bambino, piacevoli
come esercizi di stile, rassicuranti come esercitazioni di vita.
Prospettive reiterate in cui scoprire variazioni nella modularità,
particolarità nella ripetitività, diversità nella riproposizione.
I personaggi vivono la stasi, la dilatazione del già vissuto, arcaiche
figure virtuali, sorprese in stand by prima di ricominciare il
quotidiano evolversi dell’azione entro i limiti del programmato.
Gesti ripetitivi antichi e semplici che hanno la forza e la saggezza del
ciclico ritorno di un tempo circolare.
Architetture come prove di esistenza, dove puntare cursori di
fattibilità.
Strutture che hanno il peso dei secoli, così note e amiche perché
ineluttabili prodotti di saggezze umane, risultati di verificate
funzionalità; strutture antropomorfe, di cui ascoltare il respiro,
vederne il ghigno, il sorriso o lo sberleffo, di cui percorrere ogni
materialità; strutture come meandri di vagine troppo conosciute dove
perdere e ritrovare il desiderio.
Interno-esterno, dove il fuori è l’occhio che guarda dentro sé stessi.
Alieno, altro da noi-in noi, immenso e perscrutabile, laddove,
microcosmo, noi ci misuriamo con la rassicurante attrezzatura-dotazione
dello spazio limitato.
Comune materia originaria divengono l’esterno di cielo acqua campi
alberi vento e stelle, foglia luce piuma ramo fiorito e
l’interno-rifugio di intonaci, piastrellati, scale, finestre e strumenti
e suppellettili per le pratiche dell’esercizio alla vita.
All’interno, la stasi di sedie sghembe adeguate a sorreggere pesi
immateriali come un pensiero superato; tavoli azzurri rubati a un cielo
notturno o al grigio di travi e muri; chiuse cassapanche colme di
arabeschi familiari; valigie per viaggi mai intrapresi o per ritorni
forzati.
All’esterno, il dinamismo dell’irreale convergere di alberi e
architetture, attrazione fatale, reminiscenza di matrice comune;
orizzonti aperti di campi immoti dove pochi disseminati leggeri fusti di
alberi protendono chiome, insolite come vele spiegate sull’acqua; case
cubiche essenziali con minuscole scale sotto porticine a feritoie, oltre
cui umanità sconosciute consumano le pratiche quotidiane dell’esistenza.
Ritratti come autoritratti. Teatri dell’anima con singoli spettatori
autoriflessi, che assumono la densità degli intonaci su cui cresce il
muschio del vissuto, stratificati dall’esistenza rinnovata, in un
rimando sfondo-personaggi che imprigiona e sorregge e affranca da ogni
responsabilità.
Donne, figure arcaiche, penelopi in attesa cosmica che lo scorrere del
tempo storico dota di segni contemporanei e pur riproponibili;
tuniche-sottovesti su corpi di femminilità rassicuranti con chiome blu,
giallo-arancio, verde, viola, scomposte dagli eventi, scolpite
dall’emozione, cornici surreali a fragili e duttili esseri plasmati e
plasmabili.
Donne come gioconde leonardesche, con sguardi ineffabili su paesaggi
incorniciati da sghembe finestre, squarci di orizzonti interiori; donne
come madonne medievali su paesaggi diafani o cortigiane rinascimentali
sapienti di intrighi e di malie; donne come compagne di vita, smarrite
nella grandezza di sogni inavverabili, nell’attesa di gesti rinnovati.
Donne. L’accenno di un pube su una ciotola che ne raccolga gli umori;
mani raccolte a custodire una piuma o il filo di un ricamo per una tela
senza inizio né fine; mani composte a trattenere gambe divaricate verso
desideri inconfessati; sovrapposte ad avvinghiare pesci non più
guizzanti come vani e inutili possessi o incrociate a custodire stelle
di comete, metafore di antichi amori smarriti.
Mani socchiuse a riparare fiamme di candele fioche come desideri spenti;
mani prossime a sessi soddisfatti in un languore caldo e nostalgico;
sollevate come barriera al darsi o morbide sul grembo per un’offerta
d’amore; mani vezzosamente sorrette a tende o veli sospesi nonsisadove
nonsisacome da fantasie neoromantiche.
Donne distese su letti disfatti, dove rinvenire il pudore di gesti
leggeri soltanto immaginati o l’abbandono dell’amore dietro occhi
ciechi, pieni del ricordo.
Donne in piedi dietro pareti spoglie di ogni racconto; confuse su
intonaci come tavolozze materiche o nettamente stagliate, figurette da
catalogare; sedute, ricolme di maternità rassegnate, sgomente del futuro
di un incontro negato, sorprese inondate dall’oro argento di foglie
ondeggianti.
Gonne di donne sollevate di fianco a pianoforti socchiusi a ricordare le
volte che ne hanno suonato l’anima; a solcare acque come piscine termali
contornate da campi gialli e verdi di grano, erba e solitarie chiome di
alberi; a scoprire universi prossimi e remoti per viaggi della mente e
del cuore e dell’animo.
Uomini. Soli con i propri sorrisi, le idee, i ricordi; attivi a cercare
l’acqua, rabdomanti metropolitani nei campi della memoria; grassi come
lo straripare dell’inutile sovrabbondanza; duri come la pietra delle
proprie resistenze; morbidi languidi sognanti nella levità dell’incanto.
Coppie. Rare e sovente chiuse in abbracci sereni e rasserenanti come la
stasi dei sentimenti consolidati.
All’ombra del controluce di
Carlo Ravaioli, un altrove possibile
per costruire archeologie interiori.
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