agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti

 
 

Lettura

Lettura

 
 

“C’eravamo anche noi”. A proposito di Osip Mandel’štam
 

di Silvia Golfera

 
 

Negli anni trenta, a Mosca, è in funzione un tribunale che si occupa delle controversie fra gli scrittori. Lo presiede il conte Aleksej Tolstoj, devoto sostenitore di Stalin. A lui si rivolge Osip Mandel’štam per ottenere giustizia dello schiaffo di Sergej Borodin a sua moglie Nadežda. Giustizia però non l’ottiene. Il conte Tolstoj, uomo scaltro e accorto, sapeva bene che era preferibile non dare corda a chi fosse caduto in disgrazia. Sentenziò quindi che l’incidente era da imputarsi all’atteggiamento sconveniente dello stesso Mandel’štam. Che al contrario non era né scaltro né accorto, e troppo impulsivo rispetto a ciò che la sua condizione di paria gli consentiva. Infatti, in occasione di un incontro, schiaffeggiò il conte, rivendicando l’onore della moglie offesa.
Sembrava deciso, secondo l’usurata espressione, a scavarsi la fossa con le sue mani. “Voi stesso vi prendete per mano e vi accompagnate sul patibolo” lo aveva ammonito il poeta Markiš, la cui prudenza tuttavia non avrebbe preservato da un destino simile.
“La morte di un artista non è un semplice caso, ma il suo ultimo atto creativo che, come un fascio di luce, ne illumina il cammino vitale…Egli aveva scelto per sé la morte con la folla e con l’armento” scrive Nadežda Mandel’štam nel libro di memorie “L’epoca e i lupi”.
Nello stesso periodo, senza curarsi del capillare controllo cui nessuno riusciva a sottrarsi, scrive una poesia satirica su Stalin, che gli varrà l’esilio dal 1934 al 1937.
A un anno dal termine della pena, Ezov, capo della polizia segreta, ne decide l’eliminazione, su sollecitazione di Vladimir Stavskij, segretario del sindacato degli scrittori, che gli scrive il 16 marzo 1938:
“…Il termine del suo esilio è scaduto…Spesso fa visita agli amici, gente soprattutto di lettere, a Mosca. Loro lo appoggiano, raccolgono denaro per lui, lo considerano un ‘martire’…E io mi rivolgo a lei… chiedendole aiuto. Mandel’štam ha appena scritto una serie di poesie…Ma non hanno particolare valore”. La richiesta d’aiuto fu esaudita.
Nell’anno 2000, in occasione dell’inaugurazione delle sale italiane all’Hermitage di San Pietroburgo, il Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, parlando dei profondi legami fra la cultura italiana e quella russa, ha ricordato proprio Osip Mandel’štam. “Vorrei citare una memoria appassionata del nostro reciproco legame culturale: anni prima di sparire per sempre in un campo di concentramento sovietico il grande poeta Osip Mandel’štam, legatissimo alla cultura latina e a quella italiana, rivolgendosi idealmente a un grande poeta del ‘500, scriveva queste righe di struggente poesia:. -Ariosto gentile, il secolo forse passerà e in un vasto, fraterno azzurro mischieremo il tuo celeste, il nostro neromare. C’eravamo anche noi…”.
Ebreo russo di cultura europea, Mandel’štam aveva studiato in Francia e Germania. Scelse tuttavia di restare nella sua terra, quando, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, cui per altro aveva aderito, questa poteva risultare una decisione fatale. Ma mai rinnegherà il profondo legame con l’Europa. Considera Grecia e Roma i luoghi dove l’uomo è nato alla cultura e alla civiltà, senza le quali non può esservi storia. L’area del Mediterraneo, in cui include anche Crimea e Transcaucasia, assurge a spazio mitico, quasi una ‘terra santa’, meta di veri e propri pellegrinaggi. L’Armenia poi, per i legami col mondo greco e quale baluardo della cultura cristiana che resiste all’islamizzazione, costituisce un ponte verso la cultura mondiale. Non condivideva invece la passione di molti suoi contemporanei verso l’islamismo, imbevuto di determinismo. Espressione di un mondo dove ogni singola personalità si dissolve in una sacra milizia e la cui possente architettura non innalza, ma opprime lo spirito umano.
Del poeta Mandel’štam solo ora si riprende a parlare in Italia, grazie anche alla biografia di Elisabetta Rasy, ‘La scienza degli addii’, che ne ha resuscitato la vicenda umana. Eppure i rapporti col nostro paese, che ha conosciuto attraverso due veloci, ma appassionati soggiorni prima del 1914, erano intensi e profondi. Durante l’ultimo, durissimo anno dell’esilio a Voronež, nel 1937, Mandel’štam si interroga sul perché non abbia optato per l’Italia, quando, nei primi anni della rivoluzione, Lenin aveva invitato gli intellettuali non allineati ad andarsene e gli altri ad adeguarsi alle direttive del governo. Trova la risposta in quella che definisce ‘serena nostalgia’: “E una serena nostalgia/ non mi permette di lasciare/ le ancora giovani colline di Voronež/ per quelle toscane, terse, universali”.
Il suggestivo libro di memorie che ha scritto la moglie Nadežda negli anni sessanta del secolo scorso, tradotto nel 1990 in Italia da Mondatori, è ormai fuori commercio. La sua poesia resta semisconosciuta non solo al grande pubblico, ma anche a molti appassionati. Inoltre l’ostracismo di cui è stato oggetto in epoca sovietica, ha fatto si che molti testi andassero persi, rendendo difficile la ricostruzione del suo percorso poetico. Ancora oggi la nuova Russia fatica a tributargli il riconoscimento che merita.
Chi conosca anche superficialmente quel paese sa bene quale risonanza vi si dia ad ogni personalità che abbia minimamente recato lustro alla patria. Le strade di Mosca e di San Pietroburgo sono disseminate di targhe in memoria di questo e di quello, al di là delle case museo di scrittori e artisti che costituiscono percorso non secondario del turismo che affluisce nell’ex impero sovietico. Ebbene, nel vicolo Furmanov, tranquilla e silenziosa strada del centro moscovita, dove per alcuni anni i coniugi Mandel’štam usufruirono di un modestissimo alloggio, non si legge a tutt’oggi alcuna indicazione per individuare il luogo dove abitò. Eppure si tratta dell’unico appartamento in una vita tutta trascorsa fra case in coabitazione, le famose ‘comunalnije’, o miserabili stanzette in subaffitto, spesso solo un angolino chiuso da un tramezzo. Proprio in quella casa Pasternak andò a trovarli, per vedere come si fossero finalmente sistemati.
Uomo di indole gaia, neanche la feroce persecuzione con cui il nuovo regime lo colpì, e la difficile lotta per l’esistenza in un momento in cui vivere, per un intellettuale, era quasi un azzardo, lo piegarono alla disperazione. “Quest’uomo così amante della vita, attingeva forza da tutto ciò che poteva soltanto portare alla disperazione gli altri…come, per esempio, date le nostre condizioni di vita, la fanghiglia autunnale o il freddo” testimonia la moglie.
Nato a Varsavia nel 1891 da una famiglia della borghesia ebraica, si trasferì presto a Pietroburgo. Sotto gli Zar generalmente gli ebrei non potevano risiedere nella capitale. Si faceva eccezione per i grandi mercanti e per gli artigiani specializzati. Pittori già affermati potevano ottenere un permesso di soggiorno in qualità di imbianchini. Anton Rubinstein, pianista e fondatore del celebre Conservatorio cittadino, dovette ricorrere alla conversione. Lo stesso Mandel’štam si farà battezzare per aver finalmente accesso all’università, ma non solo. Nello spirito cristiano ravviserà sempre un anelito di libertà, la valorizzazione dell’uomo e della sua autonomia in contrapposizione ad una società totalizzante che mira ad estirpare tutti i valori dell’umanesimo.
Assieme ad Anna Achmatova, con cui tutta la vita mantenne un rapporto di stretta amicizia, aveva fondato il movimento degli Acmeisti, dal greco aχme, culmine, che si propone di raggiungere i vertici dell’espressione poetica, in polemica con le oscurità e ‘l’ermetismo’ dei simbolisti. Vagheggia il sogno, anzi la nostalgia, verso ‘una cultura mondiale’, oltre i nazionalismi e le ideologie di supremazia, così attivi in quegli anni.
Pur abbracciandone i principi, la Rivoluzione non sarà generosa con lui, né con gli altri acmeisti, perché ‘troppo estetizzanti e di gusto borghese’. Nikolaj Gumilëv, esponente di spicco del movimento e primo marito della Achmatova, viene fucilato nell’agosto del 1921.
Già nel 23 Osip Brik, marito di Lili Brik, compagna e ispiratrice di Majakovskij, aveva definito Mandel’štam e Achmatova ‘emigranti interni’. Si rimproverava loro di costituire un anacronismo, di non avere spirito di classe.
La carestia dei primi anni rivoluzionari porta al razionamento dei viveri. Chi non ha un’occupazione non ha diritto alla tessera alimentare, né al carbone per riscaldarsi. Ridotto alla fame, come molti altri in città, negli anni venti andò a vivere in un ricovero per artisti disoccupati, la ‘Casa delle arti’, in un palazzo sulla prospettiva Nevskij, all’incrocio col fiume Mojka. Era stato aperto per intercessione di Maxim Gorkij, che spesso interveniva presso Lenin in aiuto a uomini di cultura rimasti senza lavoro o perseguitati dalla polizia politica. Un palazzo austero che oggi è tornato alla antica destinazione di dimora di lusso e sede di banca.
In una Pietroburgo che i contemporanei definiscono ‘una nave impazzita alla deriva’, sono pochi a resistere e Mandel’štam cerca nuove opportunità a Mosca. Ma dopo la morte di Lenin, l’indifferenza del regime si trasforma in aperta ostilità. Riceve l’ordine di non scrivere più poesie, cosa molto difficile per chi si riconosca inesorabilmente poeta. I versi infatti ‘zampillano come torrente in piena’ e inizia a comporli senza scriverli, li tiene dentro di sé, li conserva a memoria, li recita agli amici. Per sfuggire alla morsa dello stalinismo compie diversi viaggi, realizzati grazie alla protezione di Bucharin. Ne escono cronache, racconti, reportage. Fra cui ‘Viaggio in Armenia’, che viene prima pubblicato, poi proibito.
Pian piano pubblicare non gli è più permesso. Ormai gli attacchi si succedono. Viene indicato come prototipo dell’artista “ non è al passo coi tempi, che non è in grado di riorientarsi secondo le esigenze del presente, che non produce secondo le richieste della società sovietica”.
Sono anni cupi, in cui nonostante il motto coniato da Stalin “La vita si è fatta più bella, la vita si è fatta più allegra” dilaga il terrore. Chi appartiene a una categoria sospetta, chi è in odore di eresia o non sufficientemente ortodosso, o semplicemente scomodo per qualsiasi imponderabile motivo, sa di vivere su un abisso e la notte non si spoglia per andare a dormire. A molti sembrava disdicevole farsi trovare dalla polizia segreta in pigiama, quando di notte le piccole automobili nere della polizia segreta si fermavano sui portoni dei caseggiati e inghiottivano la vittima di turno.
Nel 1933 Mandel’štam, matura una più chiara consapevolezza riguardo alla realtà che lo circonda. Definitivamente irregimentata la letteratura, una cosa è certa: per lui non c’è spazio. È l’anno della liquidazione dei kulaki e benché il regime compia il suo operato in sordina, fra i più attenti qualcosa trapela. Nell’estate del 1933 i coniugi sono a Staryi Krym dove ancora fresche sono le tracce dell’eccidio. Nelle poesie compaiono parole a testimoniarlo. Ormai Stalin è un “assassino”. Consapevolezza non facile da raggiungere, in una società ipnotizzata dalla figura del capo e dall’ideologia ufficiale. Resistere è difficile. Ma non è solo questo a insinuare il dubbio di essere nel torto. Brucia il timore di restare tagliati fuori dai grandi cambiamenti in atto, di non essere al passo con la storia. La parola ‘Rivoluzione’, più della paura, riesce ad imbrigliare l’intelligenzija, nessuno vuole rinunciarvi. Una visione del mondo unitaria e organica, applicabile ad ogni aspetto della vita, unita alla fede nel trionfo definitivo dei vincitori, esercita una fortissima pressione sulle coscienze.
Nonostante questo nel 1934 Mandel’štam compone una poesia satirica sul ‘montanaro del Cremlino’. Cosa innocente con gli occhi di oggi, ma inaudita allora:
“Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio

Come ferri da cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
Cuccagna ed un ampio torace d’osseta”.
Come le altre non la trascrive, la recita a qualche amico fidatissimo. Ma la notte successiva la sua casa viene perquisita. Lui portato alla Lubianka, sede della polizia politica. Ha con sé una copia della Divina Commedia, in edizione tascabile, per poterla conservare nei momenti estremi.
All’arresto, nella notte fra il 13 e il 14 maggio 1934, assiste anche Anna Achmatova, arrivata il giorno stesso a Mosca, ospite dell’amico. “…Improvvisamente, verso l’una di notte,…risuonò alla porta una colpo netto, di un’eloquenza intollerabile. -Vengono a prendere Osja- dissi io, e andai ad aprire…Arrivò la mattina del 14 maggio…I non invitati portarono via il padrone di casa. Restammo a guardarci in faccia Anna Andreevna e io…somigliavamo a due annegate”.
Molte le supposizioni sul possibile delatore. Qualcuno ha fatto il nome di Pasternak, forse costretto ad una implicita ammissione. Versione difficile da sostenere, incompatibile con la pena che si diede presso Stalin, per salvarlo. Intervenne Bucharin e il verdetto non fu dei peggiori: “isolare, ma mantenere in vita”. Confinato per tre anni in località fuori mano, a Cerdyn , poi a Voronež. Ma dalla Lubianka Mandel’štam era uscito terribilmente provato. Violenti interrogatori ne avevano scosso l’equilibrio, anche se dai verbali emerge l’atteggiamento dignitoso e fermo di chi riconosce e rivendica la propria poesia. L’angoscia della persecuzione si era trasformata in vera e propria malattia. Ha allucinazioni, si sente braccato. Tenta il suicidio gettandosi dalla finestra di un ospedale in cui è ricoverato.
Al termine della pena rientra nell’agognata Mosca e può riabbracciare gli amici. La Achmatova in primo luogo, che lo sosterrà finché possibile. E lo stesso farà con Nadežda, messa al bando, senza lavoro, costretta a spostarsi continuamente per non essere arrestata. Il soggiorno moscovita dura poco: chi ha precedenti penali può vivere a una distanza di almeno cento chilometri dalla città.
Lui e la moglie si stabiliscono in un piccolo villaggio sul Volga dove la ferrovia consente qualche breve puntata nella capitale, alla ricerca di aiuto. Gli ex confinati non trovano lavoro e i Mandel’štam, costretti a una miseria estrema, vivono di elemosine. Nell’inutile tentativo di sfuggire ad una sorte ormai segnata - “la vita è incomparabile” usava ripetere-, Osip scrive un ode celebrativa a Stalin, piena di doppi sensi e di metafore, giocate soprattutto sull’omonimia fra il poeta e il dittatore, che certo non piacque al destinatario e non ne mitigò i propositi
La fine di Osip Mandel’štam è rimasta a lungo avvolta nel mistero, e solo oggi, con l’accesso ad ulteriori documenti, si è potuta chiarire. I fatti andarono così: improvvisamente, nel ’38 riceve un invito a recarsi in una casa di cura a Samaticha, la retta è già pagata. La gioia è immensa, la coppia si illude che l’Unione degli scrittori si sia finalmente ricordata di loro. Invece è un modo per tenerlo al sicuro, in attesa che venga firmato l’ordine d’arresto. La polizia non dovrà correre di qua e di là per trovarlo. Arrivano a destinazione, sono accolti con riguardo e fanno amicizia con una giovane donna gentile e cordiale. L’immancabile Dante a fare da tramite, Mandel’stam riprende a recitare le sue poesie. Poi la ragazza scompare. Lui s’insospettisce e vorrebbe allontanarsi, ma il direttore dell’istituto gli nega un mezzo per raggiungere la stazione, distante 25 chilometri. Il primo maggio del 1938 due agenti lo prelevano, senza consentirgli di portare nulla con sé. Solo poche ore e tornerà a casa, assicurano. Nessun processo regolare viene celebrato, eppure si viene a sapere che Osip è stato condannato a cinque anni di lavori forzati e trasferito in un campo di smistamento presso Vladivostok. Nadežda trova lavoro come operaia e appena può corre a Mosca, alla polizia, per spedire pacchi e denaro al marito. L’ultimo tornerà indietro, “non consegnato, per morte del destinatario”. Ma solo nel giugno del ’40 il fratello riceve notifica ufficiale della sua morte, avvenuta, pare, il 27 dicembre 1938, per arresto cardiaco.
Un altro grande scrittore russo, Varlam Salamov, che di campi a sua volta se ne intendeva, avendo trascorso diciassette anni nella Kolima, (“Maledetta sii tu, Kolima/ che chiamano glorioso pianeta/ volente o nolente ci impazzisci:/ di là non c’è ritorno” recitava una canzone della mala) così immagina la fine del poeta nel racconto “Cherry Brandy”, dal titolo di una sua famosa poesia: “Il poeta stava morendo. Le sue grandi mani gonfiate dalla fame, con le bianche dita esangui e le unghie sporche, lunghe e ricurve, riposavano sul suo petto senza proteggersi dal freddo…Il poeta stava morendo da così tanto tempo che ormai non capiva più che moriva…La poesia era la forza vivifica di cui lui viveva. Era esattamente così. Non viveva per la poesia, viveva di poesia.”
La moglie cercò di rintracciare i pochi superstiti fra coloro che avevano condiviso la prigionia del marito. Ne mette a confronto le testimonianze, cerca di vagliarne l’attendibilità. E arriva a ricostruire gli ultimi momenti di un uomo che non mangia quasi nulla, perché ha paura di essere avvelenato, che si confonde e perde la sua razione di pane. Che accetta dalla mano sudicia di un compagno qualche zolletta di zucchero che si può comprare ad uno spaccio. Un uomo agitato che sfoga la sua inquietudine con un’ipercinesi che lo fa oggetto di continui attacchi da parte dei sorveglianti. Tutti si rendono conto che è un uomo stremato e non gli viene imposto alcun lavoro. Da subito è a mezza razione. Un giorno, nonostante gli urli e gli spintoni, non si alza più dalla cuccetta. Muore in ospedale e viene gettato nudo (nulla che potesse servire andava sprecato) in una fossa comune, il suo numero di prigioniero legato alla caviglia. “Polvere da campi” definiva Stalin coloro che non riusciva a ridurre a semplici ingranaggi del suo sistema. E anche questa volta ebbe ragione.
 

 
 

25/09/05

 

HOME

Società

Politica

Arti visive

Lettura

Scrittura

Punto rosa

Legalità

Paesi in guerra

Mondoo