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Avevo, di Gaza, un
ricordo doloroso e aspro, come di un luogo polveroso e cencioso: una
specie di miserabile Hong Kong, per via della densità della popolazione,
ma, poi, a differenza della frenetica arrività di quella metropoli, come
sospesa in una dimensione fuori del tempo. Gli enormi campi profughi,
inchiodati dagli occupanti alla loro precarietà di strutture, sempre
sull'orlo di epidemie evitate soltanto dall'eroismo dei medici
palestinesi, i posti di blocco israeliani che frammentavano la già
esigua Striscia, la protervia dei villaggi dei coloni, con la loro
abbondanza di acqua sottratta alla popolazione araba; le spiagge
circondate di filo spinato, le famiglie divise a forza, essendo
impossibile tornare nella zona, se per qualche ragione la si era dovuta
lasciare, le scuole perennemente chiuse dagli occupanti come luoghi
pericolosi, i coprifuoco, le frontiere sbarrate con la conseguenza della
disoccupazione di massa, le case distrutte dai bulldozer dell'esercito …
Un inferno di miseria e di odio, un popolo tenuto per 38 anni sotto un
regime crudele, che distruggeva, giorno dopo giorno, ogni parvenza di
diritto. (Nel 1991, a una delegazione di parlamentari italiani da me
presieduta, il generale Zach e il signor Phines Avivi - i due massimi
espoenti della cosiddetta "Ammi-nistrazione civile" dei territori
occupati dichiararono senza vergogna che nella Strisica applicavano
volta a volta le vecchie leggi del Protettorato britanico o quelle
egiziane oppure i bandi militari).
Vedere adesso, negli schermi televisivi, la festa di Gaza sbiadisce in
me la tristezza delle immagini che mi portavo nel cuore: e provoca, una
volta di più, il rispetto e l'ammirazione per un popolo che, confinato
in un ghetto di vinti, ha saputo conservare la propria identità e la
propria ansia di libertà.
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Più che doloroso, è vedere l'assalto palestinese alle sinagoghe dei
coloni: luoghi, a suo tempo, consacrati al culto e - aggiungo per quel
che mi riguarda come cristiano - sedi in cui si proclamava quella
Scrittura, in cui è contenuta la rivelazione dell'amore di Dio. E però
non si deve dimenticare che le sinagoghe dei coloni sono state spesso i
luoghi del nazionalismo e razzismo teocratico più acceso: e che negli
ultimi tempi erano addirittura trasformate in fortini dai quali i
peggiori sionisti hanno combattuto contro i soldati della loro stessa
nazione. Andandosene, i coloni hanno ottenuto che le loro case fossero
distrutte perché nessuno dei palestinesi potesse entrarvi, neppure
quelli che a suo tempo furono cacciati dalle proprie case dall'invasione
israeliana. Avere abbandonato le sinagoghe in un territorio su cui esse
sono state per due generazioni di palestinesi il simbolo
dell'occupa-zione militare è stata una scelta provocatoria. Era stato
annunziato dal governo israeliano che le sinagoghe, sconsacrate,
sarebbero state demolite come le case dei coloni o smontate e rimosse.
Non lo si è fatto: mentre finge un passo avanti sul cammino della pace,
Sharon non dimentica di inchiodare i palestinesi al sospetto
dell'opinione pubblica internazionale.
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No, non è un passo verso la pace quello compiuto da Sharon, ma una
decisione puramente strategica. Non si cammina verso la pace imponendo
scelte unilaterali e continuando a erigere i muri della vergogna. Non si
aprono spiragli di pace creando un territorio dichiarato libero ma i cui
confini sono sigillati: in cui non si può costruire (o far funzionare)
un porto né un aeroporto né si possono avere collegamenti con le altre
aree della Palestina. Per ridare libertà a un carcerato, non basta fare
uscire il secondino dalla sua cella, è la porta che va aperta. Gaza
rimane, nella volontà di Sharon, una specie di bantustan, una parvenza
di entità statale, sotto il controllo di Israele. Né si va verso la pace
indurendo le richieste all'Autorità palestinese, chiedendole, come
condizione di effettivo riconoscimento statale, di spegnere subito e
definitivamente i focolai della violenza dei gruppi armati. Come
dimenticare che, durante la seconda Intifada, Sharon ha fatto
sistematicamente distruggere le caserme e gli arsenali della polizia
palestinese, le sue linee di comunicazione, gli automezzi e persino le
carceri? E i governanti di Israele, che a suo tempo favorirono la
creazione di Hamas per indebolire l'OLP, non possono pretendere che
l'odio palestinese, dopo 38 anni di feroce occupazione, perda di colpo i
suoi aculei mortiferi.
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Tuttavia, se pure il ritiro da Gaza non è un passo verso la pace dei
trattati. rimane pur sempre un soffio di libertà che riempie i polmoni
dei due popoli della Palestina: di quello musulmano, poiché rinvigorisce
le sue speranze; e di quello israeliano perché rianima l'opinione
pacifista.
Non c'è dubbio che il popolo israeliano, nella sua grande maggioranza,
vuole sicuramente la pace, ma non tutti hanno avuto ben chiare, in tutti
questi anni, le dimensioni della tragedia di un regime militare che
inevitabilmente ha inasprito (ma forse si dovrebbe dire: imbarbarito)
gli occupanti e i vinti. Penso che l'opinione pubblica israeliana (come
anche quella mondiale) abbia avuto sino a qualche mese fa un deficit di
informazione e di consapevolezza sulla situazione dei palestinesi: che
era invece patrimonio di tutti i suoi intellettuali che hanno visitato i
territori occupati e persino di molti militari Ma ora la vicenda dei
coloni, della loro irriducibilità e della loro violenza ha aperto molti
occhi. Gran parte di Israele comincia non solo a capirlo ma a
testimoniarlo. L'estate scorsa, a Roma, in un grande convegno di
psicoanalisti, uno dei maggiori psichiatri israeliani, Uri Hadar, ha
introdotto la sua relazione con queste parole: "Voglio ringraziare gli
organizzatori per avermi invitato in questa meravigliosa città. Sono
particolarmente grato per questo invito perché considero, date le
circostanze, assolutamente non scontato che la comunità internazionale
accetti noi accademici israeliani. Come certamente sapete bene, noi
siamo stati complici - per il fatto stesso di non avere protestato ad
alta voce - del maltrattamento continuo dei palestinesi nei territori
occupati, e della continua violazione dei loro più elementari diritti
civili e umani. Dico questo in segno di sfida nei confronti di questa
complicità, come assunzione di un obbligo morale, strettamente connesso
alla nostra posizione di privilegio nella società, di far risuonare le
sirene d'allarme ogni qualvolta vengono calpestati diritti umani
fondamentali. Dico questo anche per una condizione di disperazione e
indignazione personale, uno stato affettivo che è costitutivo della mia
identità di israeliano nella comunità internazionale".
Il professor Uri Hadar parla di "disperazione e indignazione" perché,
sembra, non crede che la sua sensibilità possa essere contagiosa in
Israele. Io credo, invece, che questo sia un vero passo verso la pace:
che la vicenda "coloniale" di Gaza abbia aperto molti occhi e molti
cuori. La pace non comincia dalle bandiere ammainate ma dalla
comprensione della crudeltà del passato.
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