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Incontri letterari del mio tipo

Incontri letterari del mio tipo di Gianfranco Fabbri

 
 

Le dichiarazioni poetiche dei dieci, giovani autori di "Oltre il tempo"
 

di Gianfranco Fabbri

 
 

Ritorniamo a sfogliare Oltre il tempo, l’antologia che Gian Ruggero Manzoni ha curato lo scorso anno per l’editore Diabasis, all’interno della quale sono presenti dieci giovani poeti, tutti nati negli anni Settanta. Lo scopo, qui, è quello di estrapolare una personalissima e senz’altro fallibile impressione sulle poetiche dei singoli autori. I ragazzi che hanno raccolto l’invito del curatore sono: Danni Antonello, Luca Ariano, Alessandro Berton, Davide Brullo, Francesco Camerini, Rino Cavasino, Sebastiano Gatto, Luca Nannipieri, Andrea Ponso e Salvatore Scafiti. Tutti, indistintamente, forniscono un’idea esaustiva sulla loro poetica e sull’idea italiana di intendere oggi il verso (e quindi il mondo). Da una siffatta “spalmatura” deduciamo che quattro sono le regioni che più appaiono vive e stimolanti: il Veneto, la Toscana, la Sicilia e la Lombardia. Sono veneti Antonello, Berton, Gatto e Ponso; toscani, Nannipieri e Camerini; siciliani, Cavasino e Scafiti; lombardi, Ariano e Brullo.
Come si accennava sopra, le loro affermazioni sulla poesia sono assai suggestive.
Potremmo dividere l’intero corredo in quattro parti distinte: c’è quella a cui appartengono Antonello, Berton e Gatto, la quale apporta contributi di immagini torturanti, dannate e sottilmente venate di violenza e crudeltà mentali: si identifica poi la linea che raggruppa in sé i due pisani Nannipieri e Camerini –linea costituita prevalentemente da tenerezze parentali e grandi sensibilità nei confronti della Natura- ; c’è poi la linea siculo-mediterranea, composta da Cavasino e Scafiti, la più raziocinante ed analitica, e infine la linea lombardo-veneta, con le presenze di Ariano, Brullo e Ponso (quest’ultimo sulla linea di confine tra le due zone geografiche).
Sulle riflessioni di Antonello, Berton e Gatto viene a fior di pelle l’idea dell’esistenza negata, che va dalla consapevolezza della dannazione all’incubo della perdita corporale, nonché all’interazione della droga, alla discoperta del cadavere umano e agli attacchi di panico, che rendono l’inferno il posto più adatto alla condizione dell’uomo. Un cattivo stato della cenestesi, del rigore dell’abitudine, dello sfolgorio quasi barocco dell’inusitato e della morte (dove perfino la scrittura è datrice di suicidio o comunque di vita matrigna).
L’aria del Tirreno centro-settentrionale tende a partorire tematiche più lievi, anche se ugualmente crude. Nannipieri, ad esempio, con la sua “Preghiera”, si domanda un’infinità di cose e dichiara con stupore e sbalordimento quanto sia labile l’equilibrio per tirare avanti. Le minime cose della vita, i fatti micro, o trascurabili, come il gattino schiacciato dalla macchina e ancora caldo. In poche parole, l’arte di salire dall’iper-soggettivo per giungere così all’”uguale per tutti”, al “totalmente condivisibile”. Quella stessa aria, marina plastica e profumata di pinete, che induce Camerini ad auscultare la Natura, testimoniando l’esistenza degli uccelli, dei loro nidi, che il poeta chiama “cucce”, e degli alberi, sacrali e virili, come potrebbe aver detto benissimo un moderno San Francesco.
Gli interventi di questi giovani poeti sono anche molto sofisticati. D’accordo, da ragazzi che hanno appena concluso gli studi universitari, uno si attende senz’altro considerazioni non banali: ma è il modo soffuso e umile, con cui il Tutto viene esplicitato, che meraviglia ed incoraggia. Possiamo affermare che la generazione dei ’70 è quindi ben oleata ed agguerrita? Potremmo dire di sì, leggendo questi auto-commenti. Pare più che mai giusta la scelta di Manzoni (sempre poroso e intuitivo su quel che “sta per accadere”).
Ma riprendiamo il percorso geo-poetico.
Non va trascurato l’influsso siciliano di questo consorzio intellettuale. Valga come definizione quello che Cavasino afferma nel proprio intervento: “Di solito i miei versi nascono, attraverso lente e laboriose stesure, con minime varianti come stratificazioni, da più o meno brevi prose scritte quasi di getto …” ; qui si parla quasi in modo “scientifico”; si soppesa l’agglutinamento della scrittura, la propria sommatoria addensante, che va di redazione in redazione, come farebbe un orafo o un chimico. L’altro isolano, Scafiti, diverge dal proprio conterraneo e si riallaccia ad echi già uditi in altri suoi compagni di viaggio. Egli parla di scale, forse come parlerebbe di un dito che si allunga verso l’esterno, o forse come di un ponte di s-collegamento tra due territori parimenti isolati, in modo tale da acuire l’afasia e la sottrazione agli altri. Egli si riconverte a studio sul corpo con una tentata violenza sul corpo cadaverico, in modo analogo al fare di Nannipieri, quando questi rievoca le morti dei nonni, aggiungendo ai versi un “di più” drammatico e tenerissimo e un senso acuto della perdizione. Il toscano Luca pratica un autentico insabbiamento della felicità extra-sensoriale, adducendo una nota che ci riporta rapidamente nel Veneto, con le voci austere e carnali, nonché straziate, di Gatto e Ponso: il primo destando nel lettore grave sgomento quando afferma che i suoi testi sono per lo più scritti con il pensiero rivolto alla pratica, attuata in Galizia, sulle vacche: ovvero sull’usanza che vede le povere bestie con le corna legate agli zoccoli, in modo tale da costringerle a tenere la testa china e obbligarle a mangiare in continuazione. Scrivere, quindi, per Gatto, potrebbe essere una “perenne condanna”, un obbligo doloroso; il secondo, il Ponso appunto, introducendoci in un piccolo, densissimo scampolo di prosa aristocratica (donata a pochi) in cui l’autore sciala, se così si può dire, dichiarazioni suggestive, le cui significanze affascinano in quanto misteriose, occulte, viscerali ed intellettuali. Una troncatura della cenestesi, un imbarazzo che conduce alla dimensione puntiforme come all’indistinta linea d’orizzonte del cielo aperto. Tra il “dentro” e il “fuori”, tra lo zero e l’infinito, ecco dunque la posizione mediana: ovvero, la superficie di una cella dove sentirsi vivere di silenzio, ove concludersi nella ferocia dell’ipodinamica, del pensiero geniale e meditativo. Sarà forse meglio condividere il plastico punto di vista di un Camerini, ove gli uccelli sono catalogati nome per nome e dove la natura ha la propria dignità di essere? Oppure si può condividere la saggia e calma narrazione di Ariano, il quale, legato alle estetiche della sua Lomellina, tiene conto e dà conto di annali preziosi che conservino il ricordo delle radici e della propria terra? O anche, restando in Lombardia, risentire della geniale riflessione di Brullo, che con sicurezza afferma di essere in compagnia di uno stato oltremondano, molto più popolato di cittadini, rispetto a quello di noi viventi: un commento, il suo, dove l’apparenza arriva alle guglie spirituali della realtà e dove l’Assoluto si ricongiunge al senso dell’Eternità?
Tutto ciò non è dato a sapere.
Questo, dunque, è il panorama che ci viene incontro: un panorama iper-soggettivo.
Al di là dei testi, che qui abbiamo volutamente trascurato per analizzarli in altra sede, dobbiamo registrare una cospicua positività del progetto. In “Oltre il tempo” si parla di vita a 360°, si progetta l’esistenza nella sua propulsione in avanti.
Oltre il tempo, appunto.
Che abbia ragione per davvero il curatore di questa bella antologia?


A cura di Gian Ruggero Manzoni

Oltre il tempo

Diabasis

Pubblicato in La costruzione del verso & altre cose,

 

Sotto licenza Creative Commons di tipo Attribution-NonCommercial 2.5

 
 

pubblicato il
25/09/05

 

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