agli incroci dei venti: società

 
 
 
 

 Paure d’estate
di Sergio Tardetti
 

 
 

C’era un tempo in cui si attendeva con trepidazione l’arrivo dell’estate, una stagione che avrebbe recato con sé, inevitabilmente, caldo, zanzare e disturbi alimentari: condizionatori, frigoriferi e norme igieniche erano ancora di là da venire. Insieme a questi spiacevoli inconvenienti, che la moderna civiltà avrebbe contribuito, anche se a caro prezzo, a risolvere, si poteva godere del notevole vantaggio di disporre di tanto tempo libero, da usare e sprecare a piacere di ognuno. La televisione stava facendo le sue prime apparizioni nelle case di alcuni fortunati, che nel quartiere si consideravano, a torto o a ragione, benestanti, se non altro perché riuscivano a riportare qualche lira a casa tutti i giorni. Ma anche chi poteva permetterselo, consentiva ai propri figli la possibilità di sostare davanti al piccolo schermo solo per pochi minuti al giorno; una folta platea, composta anche da amici, vicini e conoscenti, assisteva alle trasmissioni come ad un rito solenne. L’uso dell’apparecchio veniva fortemente limitato dagli adulti, convinti che un’esposizione prolungata al tubo catodico facesse male agli occhi, il che era probabilmente vero, e anche un po’ al cervello, il che era quasi certamente vero. L’abbigliamento ridotto ai minimi termini, le giornate totalmente incontrollate, scandite solo dai pasti principali, per i quali non erano concesse deroghe, tanto tempo da trascorrere insieme ad amici o anche da soli, ad inventare giochi per esercitare una fantasia senza confini. Alcuni potevano trascorrere due settimane o – i rari facoltosi – un intero mese al mare. Tutti, comunque, finivano per tornare a fine agosto, di solito con un’abbronzatura assai simile a quella che, nel frattempo, anche noi cittadini avevamo ottenuto, certamente con minore spesa, ma con non minore divertimento. Era bastato, per raggiungere lo scopo, scorazzare nelle campagne che circondavano i nostri moderni edifici anni cinquanta, ancora separati nettamente dalla città vera e propria, che si scorgeva in lontananza, quasi come un miraggio. Eravamo per la maggior parte figli di operai precari e modesti artigiani, che provenivano originariamente dalle frazioni rurali, piccoli agglomerati urbani allora infinitamente distanti e mal collegati alla grande città. Quest’ultima era immaginata e fantasticata come una novella Utopia, nella quale i nostri genitori cercavano quotidianamente quel lavoro che avrebbe consentito a ciascuno di vivere meglio e, magari, consentire a noi fanciulli alle soglie dell’adolescenza di dedicarci a quegli studi, che portavano quasi obbligatoriamente con sé la speranza di costruirci “un futuro migliore”, vera parola d’ordine di quegli anni. Parte del tempo disponibile veniva usato da ciascuno in maniera più o meno consapevole per non fare niente, se non lasciare vagare i pensieri in completa libertà, ed attendere che tornassero a noi rinnovati e trasformati. L’osservazione assorta di una lumaca, che strisciava su un muro con il suo seguito di bava argentata, o di un piccolo verme, occupato a rosicchiare tenacemente una foglia fino a ridurla alle sole nervature, potevano impegnare lunghissimi minuti, nel corso dei quali ci sforzavamo di penetrare i molteplici segreti e l’intima natura di quegli esseri. Lontani ormai i tempi di questa infanzia felice, senza dubbio un po’ mitizzata dal trascorrere degli anni, adesso l’estate porta con sé non più momenti di immersione nel mondo che ci circonda, per ricercare una empatica intimità, ma piuttosto ansie e preoccupazioni causate dall’assoluta necessità di “divertirsi”, di allontanarsi quanto più possibile da un mondo reale, del quale avvertiamo l’ostilità e la pesantezza, per immergerci in un mondo virtuale, più amichevole e leggero. Di questo mondo subiamo talmente il fascino da non accorgerci di quanto possa essere solo il frutto di un’attenta e premeditata finzione, nella quale è dolce naufragare e smarrirsi. E’ questo il mondo del “tutto va per il meglio”, il migliore dei mondi possibili, direbbe uno dei tanti moderni Pangloss, che, dando voce al pensiero dei potenti, quotidianamente si affacciano dagli schermi televisivi, sempre sfrontatamente pervicaci nel negare l’evidenza inconfutabile di segnali lanciati dalla società e dal mondo dell’economia, che rappresentano e sottolineano l’assoluto malessere di una realtà tutt’altro che rosea. A una visione falsa e artatamente distorta del mondo corrisponde una rappresentazione altrettanto falsa e distorta dell’estate, stagione ingannevole, una “stagione di plastica”, tempo del lungo sonno, dal quale verremo inevitabilmente e bruscamente risvegliati dalle prime piogge d’autunno. L’estate non è più la stagione in cui tutte le ansie e le paure, legate alla precarietà dell’esistere quotidiano, finivano per placarsi e sciogliersi in una assoluta e totale immersione nella natura, fosse stata essa campagna o città, montagna o mare. L’estate è ormai diventata la stagione delle paure, viviamo con ansia e trepidazione il suo approssimarsi, avvertendone tutte le insidie, dal caldo tropicale, che agita le nostre notti insonni, agli esodi e controesodi, che guastano inevitabilmente le piacevoli sensazioni raccolte nel corso delle nostre sempre più brevi frequentazioni con la natura e con noi stessi. Ma, al di là di tutto, la paura maggiore è quella di avere tanto, troppo tempo a disposizione, tanto da potersi guardare allo specchio, trovarsi di fronte a se stessi, soli e indifesi, confrontarsi con la propria esistenza e interrogarsi, in ultima analisi: riflettere. Nel mondo reale, nella vita di tutti i giorni abbiamo la possibilità di sfuggire a noi stessi, immersi come siamo continuamente tra gli altri, sia in presenza che a distanza, nel posto di lavoro come nell’intimità delle nostre case, ormai letteralmente infestate da reality show, che pervadono la nostra esistenza come Grandi Fratelli orwelliani o come la Famiglia profetizzata da Bradbury in “Fahrenheit 451”, incombente dalle pareti del salotto trasformate in altrettanti megaschermi. Ovunque e sempre, non siamo mai soli e facciamo di tutto per non esserlo. Certamente quello che vogliamo evitare è il rischio di scoprire, attraverso una lettura non superficiale e non sfuggente, la complessità del mondo in cui viviamo e, magari, dover affrontare la paura di comprendere ed ammettere a noi stessi la trascurabile parte che rappresentiamo nelle vicende dell’universo. Siamo certamente consapevoli di non essere né i primi né, ed è quanto si spera, gli ultimi membri di questa umanità, quantunque indiscutibilmente unici. Altri, prima e spesso più intensamente di noi, hanno avvertito il vuoto e l’inconsistenza del nostro esistere; ad essi possiamo senz’altro rivolgerci in cerca di conforto. Più che ricette o regole di vita, quello che ci viene in mente è qualche consiglio, magari ormai per la prossima estate. Intanto il primo e più importante: ogni tanto, chiudiamo la porta al “troppo commercio con la gente”, assecondando la sapiente parola di Kavafis. Se poi cadiamo in preda all’ansia e alla frenesia di evadere da un’esistenza che giudichiamo troppo grigia e monotona, fermiamoci, al contrario, a riflettere per qualche istante su parole altrettanto sagge. Il valore della nostra esistenza consiste in ciò che siamo, nel luogo in cui ci troviamo, ovunque esso sia e chiunque ciascuno di noi sia. Evitiamo, dunque, di allontanarci da questa realtà e da noi stessi e proviamo a riconsiderarne il valore e il pregio; in questo teniamo sempre davanti a noi l’ammonimento del poeta: “…sciupando la tua vita in questo angolo discreto / tu l’hai sciupata su tutta la terra.

commenti
 

 
   

18/09/05

 
 
 

HOME

Società

Politica

Arti visive

Lettura

Scrittura

Punto rosa

Legalità

Paesi in guerra

Mondo