agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti  
 
 
 

 Cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni
 

di Ghismunda

 
 

Devo ricredermi. Ho scritto in un post precedente che l’amore, come soggetto letterario, è un sentimento meno sfaccettato e più scontato, più prevedibile negli esiti, di quello dell’amicizia.
Non è vero. Non ci sono, a priori, soggetti più interessanti o profondi di altri; non c’è un letterario in sé, poetabile o narrabile che sia. In fondo, ho commesso lo stesso errore teorico in cui, a suo tempo, cadde Leopardi, anche se lui si riferiva alle parole e non ai soggetti della letteratura (“Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse”). Era lui, e non la parola usata, a fare poesia: non è ciò di cui si scrive che fa un’opera d’arte, ma il “come” e soprattutto il “chi”.

Se a scrivere è Gabriel García Márquez, un soggetto apparentemente scontato come l’amore è indagato e descritto in mille sfaccettature, mille casi, mille colori, quegli stessi dell’atmosfera magica e realistica del mitico Caribe (… allora si fece un silenzio così chiaro, che attraverso il disordine degli uccelli e le sillabe dell’acqua sulla pietra si coglieva il respiro struggente del mare). Ma ogni aspetto, ogni personaggio coglie parti di noi, frammenti di esistenze nella sintesi avvolgente e fascinosa di un canto unitario che traduce, in narrazione, come sempre nel Márquez migliore, l’intuizione di Borges: tutti gli uomini vivono lo stesso tempo e, anzi, sono la stessa persona. Ma ne “L’amore ai tempi del colera” c’è qualcosa di più, di diverso rispetto alle altre opere dello stesso autore. C’è l’ottimismo e la fiducia che l’amore, anzi, la capacità d’amare, unico antidoto alla solitudine che permea dolorosamente i cent’anni della nostra vita, esiste, è possibile, e prima o poi si realizza, a costo di aspettare cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese, tanto quanto aspetta Florentino Ariza prima di veder realizzato il suo sogno con Fermina Daza.

Giovanissimo lui, ancor più giovane lei, ne rimane folgorato: “gli sembrava così bella, così seducente, così distinta dalla gente comune, da non capire perché nessuno si scombussolasse come lui con il rumore ritmico dei suoi tacchi sul selciato della strada, né gli si disordinasse il cuore con l’aria dei sospiri dei suoi volants, né diventasse pazzo d’amore tutto il mondo con gli sventolii della sua treccia, col volo delle sue mani, con l’oro del suo ridere”. La sua andatura da cerva la faceva sembrare immune dalla gravità. Lei è l’unica figlia di un arricchito poco di buono, che vive per farne una gran signora, lui un figlio dell’amore, non riconosciuto, ma mantenuto. Umile, dimesso, scrive versi e lettere d’amore, legge come un forsennato, più un’ombra, che un uomo, ma tenace, irremovibile sulla panchina a vederla passare. E’ innamoramento accanito, stagioni di delirio, né lui né lei avevano vita per niente che non fosse pensare all’altro, per sognare l’altro, per aspettare le lettere con tanta ansia quanta ne avevano nel rispondere. Dopo notti insonni, con i capelli ingarbugliati d’amore, lui le lasciava lettere in nascondigli segreti, che lei leggeva prima di andare a scuola e a cui rispondeva chiusa nei bagni o facendo finta di prendere appunti durante le lezioni.

Ma un conto è l’illusione, un conto la realtà, un conto l’amore, un conto è il matrimonio.
Almeno fino a quando la vita non s’incaricherà di farci capire che dobbiamo lottare per unire i due termini. Che dobbiamo crederci.
Lei finisce sposa del più nobile, ricco e stimato medico del Caribe. Lunga e felice unione. E’ amore? “Ricordati sempre – le diceva lui – che la cosa più importante di un buon matrimonio non è la felicità ma la stabilità… La verità è che le pretese di Juvenal Urbino non erano mai state basate in termini d’amore, ed era perlomeno curioso che un militante cattolico come lui le offrisse solo beni terreni: la sicurezza, l’ordine, la felicità, cifre immediate che una volta sommate tra loro potevano forse assomigliare all’amore. Ma non lo erano…” Di questo le donne onorevolmente sposate si accorgevano solo quando restavano vedove: “In quei silenzi di solitudine prendevano a poco a poco coscienza di essere di nuovo padrone del loro arbitrio, dopo aver rinunciato non solo al loro nome di famiglia ma anche alla propria identità, e tutto questo in cambio di una sicurezza che era stata soltanto un’altra delle loro tante illusioni di spose. Solo loro sapevano quanto pesava l’uomo che amavano con follia, e che forse le amava, ma che avevano dovuto continuare ad allevare fino all’ultimo respiro, dandogli da poppare, cambiandogli i pannolini imbrattati, distraendolo con trucchetti da madre per alleviargli il terrore di uscire la mattina a vedere in faccia la realtà. E però, quando lo vedevano uscire di casa, istigato da loro stesse a bersi il mondo, allora erano loro a temere che l’uomo non tornasse più. Quella era la vita. L’amore, se c’era, era una cosa a parte: un’altra vita.
Nell’ozio riparatore della solitudine, invece, le vedove scoprivano che il modo onorevole di vivere era secondo la volontà del corpo, mangiando solo per fame, amando senza mentire, dormendo senza dover far finta di dormire per sfuggire all’indecenza dell’amore ufficiale, padrone finalmente del diritto a tutto un letto solo per loro in cui nessuno gli contendesse la metà del loro lenzuolo, la metà della loro aria da respirare, la metà della loro notte, finché il corpo era sazio di sognare con i loro propri sogni e si svegliava da solo
”. Fermina, pur nella condivisione di tutta una vita, se ne accorge ben presto: incominciò a scorgere il disincanto di non essere mai stata quella che sognava di essere quando era giovane, nel giardino de Los Evangelios, bensì qualcosa che non aveva mai osato dire neanche a se stessa: una domestica di lusso.
Florentino, che sa senza sapere, nel frattempo cambia per lei, diventa qualcuno, si cura, si conserva puro nell’anima e nel corpo, nonostante le donne e gli appunti e i racconti dei suoi amori, in cui non ha fatto altro che cercare lei: tante donne per una sola, per “la” donna, che aspettava: “l’amore non oltrepassò il limite dove arrivava sempre con lui: fin dove non avesse interferito con la sua decisione di mantenersi libero per Fermina Daza”.

E alla fine diventa possibile l’amore da vivere insieme. Ma non è il classico happy end, non può esserlo a settant’anni suonati. Non è nemmeno un amore da anziani, ma un amore nuovo, come lo è sempre questo sentimento ogni volta che c’è ed è vero. Un amore tutto da inventare, da cominciare.
Per sempre ogni volta.
“… tutto doveva essere diverso per suscitare nuove curiosità, nuovi intrighi, nuove speranze, in una donna che aveva già vissuto totalmente tutta una vita. Doveva essere un’illusione spropositata, capace di darle il coraggio che le sarebbe mancato di gettare nell’immondizia i pregiudizi di una classe che non era stata la sua in origine ma che aveva finito per esserlo più di qualsiasi altra. Doveva insegnarle a pensare all’amore come a uno stato di grazia che non era un mezzo per nulla, bensì un’origine e un fine di per se stesso”.

Buona lettura!


La voce di Ghismunda, 4 Agosto 2005

 

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7 agosto 2005

 

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