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In questi ultimi anni, la
spesa per gli armamenti è aumentata in modo considerevole a causa della
cosiddetta “guerra permanente contro il terrorismo”. Un recente studio
ha mostrato che essa ha subito un incremento pari all’11%, raggiungendo
così i 775 miliardi di euro. Come ha annotato l’anno scorso nel suo
rapporto annuale l’Istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri),
quella degli Stati Uniti rappresenta la metà di tale cifra.
Per
quanto riguarda il commercio dei sistemi d’arma, se la Russia e gli Usa
sono i principali esportatori mondiali, la Cina e l’India sono i primi
importatori di armi russe; Taiwan, Egitto, Gran Bretagna, Grecia e
Turchia rappresentano invece i migliori clienti degli Stati Uniti. La
Germania, che concorre col 7% alle esportazioni mondiali, si piazza in
quarta posizione dopo Russia, Stati Uniti e Francia.
Mai così armati, eppure così poco sicuri. Come mai? Il fatto è che
la politica della “sicurezza” interna e internazionale non è che uno
slogan pubblicitario per vendere più armi.
Contratti
ad aziende americane
Stati Uniti, Gran Bretagna e Giordania stanno provvedendo all’assistenza
e alla formazione del nuovo esercito di Baghdad, formato da circa 40mila
uomini. Con la benedizione del Congresso americano, sono stati assegnati
circa 2,1 miliardi di dollari per la sicurezza nazionale irachena,
ovvero 2 miliardi per l’Esercito, e il rimanente per un corpo di difesa
civile. Nel 2003 le autorità irachene avevano già comperato 50mila
pistole mod.19 dalla Glock (Austria), pari a 19 milioni di dollari, con
l’opzione di riacquistarne altrettante; 421 jeep UAZ Hunter dalla
Russia, carri armati dal Brasile e dall’Ucraina per milioni di dollari,
veicoli militari ed equipaggiamenti vari.
Anche se il più grande affare è stato un contratto di 327 milioni
di dollari stipulato proprio con una ditta americana, la
decisione di comprare le pistole dalla Glock, aveva suscitato in quell’occasione
le più vive proteste del Pentagono. “C’era un gran numero di imprese
americane che potevano benissimo fornire queste armi”, ebbe a esclamare
irritato il deputato repubblicano Jeb Bradley, rivolgendosi al
segretario della Difesa Rumsfeld. “Perché sono stati trascurati i
produttori americani?“, domandò. Una protesta un po’ ingenerosa, se si
pensa che le aziende d’armi statunitensi avevano già recapitato ai
servizi di sicurezza iracheni, tra luglio e agosto dell’anno passato,
decine di migliaia di pistole, 26mila fucili d’assalto AK-47 e 4000
mitragliatrici PKM e RPK. Inoltre, il settore ingegneristico
dell’Esercito Usa aveva assegnato proprio ad alcune ditte statunitensi
due contratti per la ricostruzione delle infrastrutture irachene, per un
valore di 2,7 milioni di dollari. Un terzo contratto di 7,8 milioni per
la fornitura di un cellulare digitale, di un sistema di controllo e
comando attraverso cui connettere i vari siti delle forze armate
irachene con le forze della coalizione alleata, era già stato assegnato
ad un’altra azienda made in Usa. Sempre Washington ne aveva stipulato
uno per 150 milioni di dollari: si trattava di ristrutturare quattro
basi militari situate a Umm Qasr, Al-Kasik, Tadji e Numaniyah. E il
Pentagono aveva nel cassetto già i piani per espandere quelle di Mosul,
Baghdad e Kut. Quest’ultimo contratto è stato stimato attorno ai 600
milioni di dollari.
Così, mentre decine di miliardi di dollari vengono spesi per la guerra,
molto poco è stato messo in bilancio per soddisfare i bisogni più
urgenti della popolazione irachena: la sanità, l’acqua e le
infrastrutture igieniche. Un ufficiale iracheno ha dichiarato al
Washington Post: “Le autorità d’occupazione hanno speso fino a
questo momento molti dei nostri soldi (degli iracheni), ma pochi dei
loro (degli alleati)”. Anche l’ufficio generale per la contabilità (Usa)
ha sottolineato criticamente che la trasparenza nello spendere i soldi
del fondo per lo sviluppo dell’Iraq sarebbe stata essenziale per
garantire che essi venissero usati per la popolazione. Ma dato che il
governo ci ha messo un anno ad assumere un revisore esterno, le
transazioni economiche di parecchi miliardi di dollari che intanto
venivano fatte, non sono state sottoposte ad alcuna verifica”.
Uccisi da
armi “made in Usa”
A tutto il 2004, solo il 6% dei fondi destinati alla sicurezza nazionale
dell’Iraq erano stati spesi. Secondo l’ufficio statunitense del
bilancio, 194 milioni di dollari, su un totale di 3,2 miliardi
stanziati, erano andati per la preparazione della polizia e dei
militari. Molto di questo denaro è così finito nelle casse di varie
società americane. Nel giugno 2003, una di queste, la Vinnell, con
sede in Virginia, aveva vinto un contratto del valore di 48 milioni di
dollari per l’addestramento di nove battaglioni del nuovo esercito di
Baghdad, con l’opzione di continuare ad addestrare tutti i
rimanenti (27), se il tirocinio fosse stato coronato da successo. La
Vinnell, per poter onorare il contratto, ha coinvolto cinque
subappaltatori, sempre statunitensi: Military Professional Resources
Incorporated, Science Applications International Corporation, Eagle
Group International Inc., e Omega Training Group and Worldwide Language
Resources Inc.
È quasi certo che la società capocommessa otterrà il rinnovo del
contratto, nonostante la qualità scadente del lavoro intrapreso.
In un articolo pubblicato dalla Union Tribune di San Diego
(California), il generale Paul Eaton ha dichiarato che il programma di
addestramento non era andato per niente bene. “In un anno, non c’è stato
alcun progresso”. L’ufficio americano della contabilità sosteneva nel
2004 la stessa cosa, ammettendo che “la polizia e le unità di sicurezza
del nuovo Iraq stanno soffrendo a causa di numerosi atti di diserzione,
oltre che ad essere malamente addestrate ed equipaggiate”.
I primi abbandoni di massa si erano avuti già nel dicembre del 2003,
dopo che il comando Usa aveva cessato di pagare i soldati iracheni (70
dollari al mese). Nel aprile del 2004, invece, durante gli scontri a
Falluja tra le forze americane e le milizie di Moqtada al Sadr,
moltissimi altri avevano abbandonato le forze di sicurezza. “Invece di
aiutare gli Stati Uniti nello sconfiggere l’insurrezione, alcune
migliaia di membri delle forze di polizia hanno disertato”, ha detto
Frida Berrigan, una ricercatrice americana che lavora presso il Centro
studi sul commercio delle armi. “E molti di loro, per giunta, hanno
ceduto le loro armi ai combattenti delle milizie. Quanti dei
soldati americani uccisi hanno dovuto fronteggiare armi americane?”.
Questo mentre l’allora neo primo ministro Iyad Allawi aveva chiesto che
i membri della polizia di Saddam potessero entrare nei nuovi servizi di
sicurezza, così come i membri di nove milizie armate con le quali il
governo ad interim aveva raggiunto un accordo. Si trattava di circa
100mila uomini. Amnesty International espresse allora la
preoccupazione che questi, una volta incorporati nelle forze armate
irachene o nei servizi di polizia, potessero essere coinvolti in atti
contrari ai diritti umani. Come se ciò non bastasse, Bush, nel
settembre del 2004, aveva chiesto al Congresso di spostare sulla voce
“sicurezza” i fondi già stanziati per la ricostruzione del Paese arabo.
Circa il 20% dei 18 miliardi di dollari dedicati alle infrastrutture
sarebbero quindi stati impiegati per rafforzare la polizia irachena e
l’esercito.
Amici e
nemici sempre piu’ armati
“Non sembra saggio introdurre nuovi armamenti e capacità militari in un
Iraq coinvolto in guerre e occupazioni, insurrezioni e transizioni
politiche”, ha osservato ancora la Berrigan. “In media, ogni giorno
vengono uccisi più di due soldati americani, e la violenza all’interno
dell’Iraq sta infliggendo delle perdite mortali ai civili e agli stessi
membri del governo”.
Inoltre “si sa che l’Iraq è pieno di armi e munizioni, in particolare di
fucili e altre armi leggere”, ha aggiunto Mouin Rabbani, un analista di
questioni mediorientali che vive in Giordania. “Questo è uno dei motivi
delle difficoltà statunitensi a sradicare i movimenti di guerriglia. I
ribelli non paiono essere dipendenti da flussi di armi che arrivano
dall’esterno dei confini statali”, ha precisato ancora Rabbani. E ha
aggiunto: “Sarebbero da rimproverare quegli esportatori di armi,
americani o di altri Paesi, se sfruttassero il loro controllo dell’Iraq
e del suo governo, per imporre l’acquisto di sistemi d’arma costosi e in
fondo non necessari. Se essi si comportassero in questa maniera,
ripeterebbero un sistema già adottato nei passati decenni.
Si ricordi, a questo proposito, gli armamenti venduti all’Arabia Saudita
o agli altri Stati del Golfo, e passato alla storia come riciclaggio dei
petrodollari”.
Previsioni alla mano, le spese militari annuali in tutta la
regione mediorientale, passeranno dai 52 miliardi di dollari del 2003,
ai 55 entro il 2007. I grandi clienti sono rappresentati in
primo luogo dall’Arabia Saudita, che in media spende nella Difesa, ogni
anno, più di 18 miliardi di dollari; segue Israele con più di 9
miliardi, l’Iran con 4,5, gli Emirati Arabi con circa 3,7, e l’Egitto la
cui spesa si aggirerà da oggi al 2007 attorno ai 3 miliardi di dollari
l’anno. Una grande parte delle risorse economiche assegnate all’acquisto
delle armi entrerà così nelle casse degli Usa, Gran Bretagna, Francia e
Russia.
“Le prime decisioni che prenderà la nuova leadership
irachena a proposito degli acquisti per la Difesa, saranno critiche”, ha
sostenuto Rabbani, “perché determineranno le compatibilità per gli
acquisti futuri. Perciò mi sembra giusto che tali scelte vengano prese
da un governo indipendente in base a valutazioni ponderate e sulla base
dei bisogni reali del Paese”. Ma gli eventuali prestiti di armi da parte
degli Usa o di altri Stati che possiedono tali industrie, interferiranno
sicuramente con questo processo. Conosciamo ormai molto bene lo schema
che si è imposto in circostanze simili. L’Iraq è considerato una
specie di miniera d’oro: sono già sul campo imprenditori come
Halliburton e Bechtel, coinvolti nello scandalo sui profitti di guerra.
Ora si aspettano la Lockheed e la Raytheon in primis, che
vedranno aumentare i loro guadagni proprio grazie all’incremento delle
spese militari Usa. La mega corporazione rappresentata proprio da
Halliburton, Bechtel e DynCorp (tutti amici di Bush e Cheney) sta
spartendosi lucrosi contratti per la “ricostruzione” dell’Iraq senza
passare dalle normali gare d’appalto. Si parla di un giro d’affari di 5
miliardi di dollari.
Il
Presidente e i contribuenti
Dicono che rientrando in California dopo aver annunciato alla nazione la
fine della guerra contro Saddam, l’aereo presidenziale fosse seguito da
una grande scritta: ”United Defense”. United Defense è
un’azienda che fornisce armamenti al Pentagono, e il cui proprietario è
il Carlyle Group. George Bush padre è il principale testimonial di
questa società, e fa grossi affari con Jim Baker, Frank Carlucci e altri
personaggi conosciuti al tempo dell’Iran-contras. Così quando un
cittadino americano vede volare Bush figlio seguito dalla pubblicità di
un fabbricante di bombe, sa che le azioni in mano a Bush padre
cresceranno di valore. Tutto in famiglia. La guerra garantisce grossi
profitti. Non si vuole dire che sia un “gioco”, ma per loro è così.
Non lo è invece per il contribuente americano. Poco meno del 50% dei
fondi federali vanno a finanziare una macchina da guerra che ha bisogno
di essere permanentemente alimentata. Ma finora i risultati sono i
seguenti: i militari americani uccisi hanno superato abbondantemente la
quota di 1.700, mentre più di 190 sono i caduti della “coalizione dei
volonterosi”. I feriti superano rispettivamente i 12mila e i 350. Cifre
irrisorie se paragonate ai soldati iracheni e afgani morti in battaglia:
22mila. Ma in questo bilancio vanno inclusi i civili iracheni e
afgani uccisi (i “danni collaterali”): più di 22mila, a cui vanno
sommati 17mila feriti.
Tutto questo accade mentre in tutto il mondo 24mila persone al giorno
muoiono di fame, e 14mila per mancanza di acqua potabile. Un
sondaggio ha rilevato che il 53% degli cittadini europei pensano che gli
Usa siano una minaccia per la pace mondiale, mentre poco meno
della metà del popolo americano crede che il loro Paese sia meno sicuro
da quando è iniziata la carneficina irachena. E allora, dove sta il
rapporto virtuoso tra armi e sicurezza?
Roberto Cucchini -
Missione Oggi
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