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Il business delle armi nel nome della “sicurezza”

di  Roberto Cucchuni

 
     
 

In questi ultimi anni, la spesa per gli armamenti è aumentata in modo considerevole a causa della cosiddetta “guerra permanente contro il terrorismo”. Un recente studio ha mostrato che essa ha subito un incremento pari all’11%, raggiungendo così i 775 miliardi di euro. Come ha annotato l’anno scorso nel suo rapporto annuale l’Istituto di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), quella degli Stati Uniti rappresenta la metà di tale cifra.

Per quanto riguarda il commercio dei sistemi d’arma, se la Russia e gli Usa sono i principali esportatori mondiali, la Cina e l’India sono i primi importatori di armi russe; Taiwan, Egitto, Gran Bretagna, Grecia e Turchia rappresentano invece i migliori clienti degli Stati Uniti. La Germania, che concorre col 7% alle esportazioni mondiali, si piazza in quarta posizione dopo Russia, Stati Uniti e Francia.
Mai così armati, eppure così poco sicuri. Come mai? Il fatto è che la politica della “sicurezza” interna e internazionale non è che uno slogan pubblicitario per vendere più armi.

Contratti ad aziende americane

Stati Uniti, Gran Bretagna e Giordania stanno provvedendo all’assistenza e alla formazione del nuovo esercito di Baghdad, formato da circa 40mila uomini. Con la benedizione del Congresso americano, sono stati assegnati circa 2,1 miliardi di dollari per la sicurezza nazionale irachena, ovvero 2 miliardi per l’Esercito, e il rimanente per un corpo di difesa civile. Nel 2003 le autorità irachene avevano già comperato 50mila pistole mod.19 dalla Glock (Austria), pari a 19 milioni di dollari, con l’opzione di riacquistarne altrettante; 421 jeep UAZ Hunter dalla Russia, carri armati dal Brasile e dall’Ucraina per milioni di dollari, veicoli militari ed equipaggiamenti vari.
Anche se il più grande affare è stato un contratto di 327 milioni di dollari stipulato proprio con una ditta americana, la decisione di comprare le pistole dalla Glock, aveva suscitato in quell’occasione le più vive proteste del Pentagono. “C’era un gran numero di imprese americane che potevano benissimo fornire queste armi”, ebbe a esclamare irritato il deputato repubblicano Jeb Bradley, rivolgendosi al segretario della Difesa Rumsfeld. “Perché sono stati trascurati i produttori americani?“, domandò. Una protesta un po’ ingenerosa, se si pensa che le aziende d’armi statunitensi avevano già recapitato ai servizi di sicurezza iracheni, tra luglio e agosto dell’anno passato, decine di migliaia di pistole, 26mila fucili d’assalto AK-47 e 4000 mitragliatrici PKM e RPK. Inoltre, il settore ingegneristico dell’Esercito Usa aveva assegnato proprio ad alcune ditte statunitensi due contratti per la ricostruzione delle infrastrutture irachene, per un valore di 2,7 milioni di dollari. Un terzo contratto di 7,8 milioni per la fornitura di un cellulare digitale, di un sistema di controllo e comando attraverso cui connettere i vari siti delle forze armate irachene con le forze della coalizione alleata, era già stato assegnato ad un’altra azienda made in Usa. Sempre Washington ne aveva stipulato uno per 150 milioni di dollari: si trattava di ristrutturare quattro basi militari situate a Umm Qasr, Al-Kasik, Tadji e Numaniyah. E il Pentagono aveva nel cassetto già i piani per espandere quelle di Mosul, Baghdad e Kut. Quest’ultimo contratto è stato stimato attorno ai 600 milioni di dollari.
Così, mentre decine di miliardi di dollari vengono spesi per la guerra, molto poco è stato messo in bilancio per soddisfare i bisogni più urgenti della popolazione irachena: la sanità, l’acqua e le infrastrutture igieniche. Un ufficiale iracheno ha dichiarato al Washington Post: “Le autorità d’occupazione hanno speso fino a questo momento molti dei nostri soldi (degli iracheni), ma pochi dei loro (degli alleati)”. Anche l’ufficio generale per la contabilità (Usa) ha sottolineato criticamente che la trasparenza nello spendere i soldi del fondo per lo sviluppo dell’Iraq sarebbe stata essenziale per garantire che essi venissero usati per la popolazione. Ma dato che il governo ci ha messo un anno ad assumere un revisore esterno, le transazioni economiche di parecchi miliardi di dollari che intanto venivano fatte, non sono state sottoposte ad alcuna verifica”.

Uccisi da armi “made in Usa”

A tutto il 2004, solo il 6% dei fondi destinati alla sicurezza nazionale dell’Iraq erano stati spesi. Secondo l’ufficio statunitense del bilancio, 194 milioni di dollari, su un totale di 3,2 miliardi stanziati, erano andati per la preparazione della polizia e dei militari. Molto di questo denaro è così finito nelle casse di varie società americane. Nel giugno 2003, una di queste, la Vinnell, con sede in Virginia, aveva vinto un contratto del valore di 48 milioni di dollari per l’addestramento di nove battaglioni del nuovo esercito di Baghdad, con l’opzione di continuare ad addestrare tutti i rimanenti (27), se il tirocinio fosse stato coronato da successo. La Vinnell, per poter onorare il contratto, ha coinvolto cinque subappaltatori, sempre statunitensi: Military Professional Resources Incorporated, Science Applications International Corporation, Eagle Group International Inc., e Omega Training Group and Worldwide Language Resources Inc.
È quasi certo che la società capocommessa otterrà il rinnovo del contratto, nonostante la qualità scadente del lavoro intrapreso. In un articolo pubblicato dalla Union Tribune di San Diego (California), il generale Paul Eaton ha dichiarato che il programma di addestramento non era andato per niente bene. “In un anno, non c’è stato alcun progresso”. L’ufficio americano della contabilità sosteneva nel 2004 la stessa cosa, ammettendo che “la polizia e le unità di sicurezza del nuovo Iraq stanno soffrendo a causa di numerosi atti di diserzione, oltre che ad essere malamente addestrate ed equipaggiate”.
I primi abbandoni di massa si erano avuti già nel dicembre del 2003, dopo che il comando Usa aveva cessato di pagare i soldati iracheni (70 dollari al mese). Nel aprile del 2004, invece, durante gli scontri a Falluja tra le forze americane e le milizie di Moqtada al Sadr, moltissimi altri avevano abbandonato le forze di sicurezza. “Invece di aiutare gli Stati Uniti nello sconfiggere l’insurrezione, alcune migliaia di membri delle forze di polizia hanno disertato”, ha detto Frida Berrigan, una ricercatrice americana che lavora presso il Centro studi sul commercio delle armi. “E molti di loro, per giunta, hanno ceduto le loro armi ai combattenti delle milizie. Quanti dei soldati americani uccisi hanno dovuto fronteggiare armi americane?”.
Questo mentre l’allora neo primo ministro Iyad Allawi aveva chiesto che i membri della polizia di Saddam potessero entrare nei nuovi servizi di sicurezza, così come i membri di nove milizie armate con le quali il governo ad interim aveva raggiunto un accordo. Si trattava di circa 100mila uomini. Amnesty International espresse allora la preoccupazione che questi, una volta incorporati nelle forze armate irachene o nei servizi di polizia, potessero essere coinvolti in atti contrari ai diritti umani. Come se ciò non bastasse, Bush, nel settembre del 2004, aveva chiesto al Congresso di spostare sulla voce “sicurezza” i fondi già stanziati per la ricostruzione del Paese arabo. Circa il 20% dei 18 miliardi di dollari dedicati alle infrastrutture sarebbero quindi stati impiegati per rafforzare la polizia irachena e l’esercito.

Amici e nemici sempre piu’ armati

“Non sembra saggio introdurre nuovi armamenti e capacità militari in un Iraq coinvolto in guerre e occupazioni, insurrezioni e transizioni politiche”, ha osservato ancora la Berrigan. “In media, ogni giorno vengono uccisi più di due soldati americani, e la violenza all’interno dell’Iraq sta infliggendo delle perdite mortali ai civili e agli stessi membri del governo”.
Inoltre “si sa che l’Iraq è pieno di armi e munizioni, in particolare di fucili e altre armi leggere”, ha aggiunto Mouin Rabbani, un analista di questioni mediorientali che vive in Giordania. “Questo è uno dei motivi delle difficoltà statunitensi a sradicare i movimenti di guerriglia. I ribelli non paiono essere dipendenti da flussi di armi che arrivano dall’esterno dei confini statali”, ha precisato ancora Rabbani. E ha aggiunto: “Sarebbero da rimproverare quegli esportatori di armi, americani o di altri Paesi, se sfruttassero il loro controllo dell’Iraq e del suo governo, per imporre l’acquisto di sistemi d’arma costosi e in fondo non necessari. Se essi si comportassero in questa maniera, ripeterebbero un sistema già adottato nei passati decenni. Si ricordi, a questo proposito, gli armamenti venduti all’Arabia Saudita o agli altri Stati del Golfo, e passato alla storia come riciclaggio dei petrodollari”.
Previsioni alla mano, le spese militari annuali in tutta la regione mediorientale, passeranno dai 52 miliardi di dollari del 2003, ai 55 entro il 2007. I grandi clienti sono rappresentati in primo luogo dall’Arabia Saudita, che in media spende nella Difesa, ogni anno, più di 18 miliardi di dollari; segue Israele con più di 9 miliardi, l’Iran con 4,5, gli Emirati Arabi con circa 3,7, e l’Egitto la cui spesa si aggirerà da oggi al 2007 attorno ai 3 miliardi di dollari l’anno. Una grande parte delle risorse economiche assegnate all’acquisto delle armi entrerà così nelle casse degli Usa, Gran Bretagna, Francia e Russia.
“Le prime decisioni che prenderà la nuova leadership irachena a proposito degli acquisti per la Difesa, saranno critiche”, ha sostenuto Rabbani, “perché determineranno le compatibilità per gli acquisti futuri. Perciò mi sembra giusto che tali scelte vengano prese da un governo indipendente in base a valutazioni ponderate e sulla base dei bisogni reali del Paese”. Ma gli eventuali prestiti di armi da parte degli Usa o di altri Stati che possiedono tali industrie, interferiranno sicuramente con questo processo. Conosciamo ormai molto bene lo schema che si è imposto in circostanze simili. L’Iraq è considerato una specie di miniera d’oro: sono già sul campo imprenditori come Halliburton e Bechtel, coinvolti nello scandalo sui profitti di guerra. Ora si aspettano la Lockheed e la Raytheon in primis, che vedranno aumentare i loro guadagni proprio grazie all’incremento delle spese militari Usa. La mega corporazione rappresentata proprio da Halliburton, Bechtel e DynCorp (tutti amici di Bush e Cheney) sta spartendosi lucrosi contratti per la “ricostruzione” dell’Iraq senza passare dalle normali gare d’appalto. Si parla di un giro d’affari di 5 miliardi di dollari.

Il Presidente e i contribuenti

Dicono che rientrando in California dopo aver annunciato alla nazione la fine della guerra contro Saddam, l’aereo presidenziale fosse seguito da una grande scritta: ”United Defense”. United Defense è un’azienda che fornisce armamenti al Pentagono, e il cui proprietario è il Carlyle Group. George Bush padre è il principale testimonial di questa società, e fa grossi affari con Jim Baker, Frank Carlucci e altri personaggi conosciuti al tempo dell’Iran-contras. Così quando un cittadino americano vede volare Bush figlio seguito dalla pubblicità di un fabbricante di bombe, sa che le azioni in mano a Bush padre cresceranno di valore. Tutto in famiglia. La guerra garantisce grossi profitti. Non si vuole dire che sia un “gioco”, ma per loro è così.
Non lo è invece per il contribuente americano. Poco meno del 50% dei fondi federali vanno a finanziare una macchina da guerra che ha bisogno di essere permanentemente alimentata. Ma finora i risultati sono i seguenti: i militari americani uccisi hanno superato abbondantemente la quota di 1.700, mentre più di 190 sono i caduti della “coalizione dei volonterosi”. I feriti superano rispettivamente i 12mila e i 350. Cifre irrisorie se paragonate ai soldati iracheni e afgani morti in battaglia: 22mila. Ma in questo bilancio vanno inclusi i civili iracheni e afgani uccisi (i “danni collaterali”): più di 22mila, a cui vanno sommati 17mila feriti.
Tutto questo accade mentre in tutto il mondo 24mila persone al giorno muoiono di fame, e 14mila per mancanza di acqua potabile. Un sondaggio ha rilevato che il 53% degli cittadini europei pensano che gli Usa siano una minaccia per la pace mondiale, mentre poco meno della metà del popolo americano crede che il loro Paese sia meno sicuro da quando è iniziata la carneficina irachena. E allora, dove sta il rapporto virtuoso tra armi e sicurezza?

 

Roberto Cucchini - Missione Oggi

 

 

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8 agosto 2005

 

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