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“Recentemente ho
perso una causa. Avevo cercato di impedire la distruzione della casa di
un giovane, un kamikaze palestinese che si era fatto esplodere,
uccidendo otto militari di una base presso Tel Aviv. Secondo la legge
mandataria britannica, la casa di una persona colpevole di un atto di
‘terrorismo’ deve essere distrutta. Quando ho chiamato la famiglia per
dire che avevamo perso, la mamma del kamikaze mi ha detto: ‘Sapevo di
non avere speranze. Abbiamo già evacuato la casa’.
Solo di rado abbiamo il tempo di andare in tribunale in questi casi.
Le demolizioni di solito puniscono un’intera famiglia. Molto spesso
vengono condotte senza avvertimento. ‘Avete cinque minuti di
tempo per uscire di casa’, è tutto ciò che viene loro concesso. I
demolitori sfasciano tutto - abiti, mobili. Chiedo spesso alle famiglie
cos’è che prendono in quei cinque minuti ed esse rispondono: ‘Per prima
cosa, i certificati scolastici dei bambini’. Il loro ottimismo è
meraviglioso”. Leah Tsemel – avvocato che da quasi trent’anni difende
prigionieri politici palestinesi nelle corti israeliane – parla come un
fiume in piena. Ecco il suo resoconto sugli ultimi sviluppi in Medio
Oriente, dal piano di disimpegno unilaterale da Gaza al sogno di una
vita finalmente “normale”.
Alcuni parlano
dello Stato d’Israele come dell’unica democrazia in Medio Oriente. Altri
denunciano le pratiche del suo Esercito che violano i più fondamentali
fra i diritti umani. Chi ha ragione?
Le risponderò con un parallelo. L’ex primo ministro israeliano Golda
Meir disse che aveva degli incubi, poiché i palestinesi si riproducevano
troppo velocemente: 20 anni fa, la sua dichiarazione fece scandalo. Il
29 agosto 2003, la Knesset israeliana ha varato una legge: “In caso di
matrimonio tra una israeliana e un palestinese dei Territori Occupati,
lo sposo non potrà entrare in Israele, e tutti i figli nati da tale
matrimonio non saranno registrati all’anagrafe israeliana a meno che non
siano registrati entro un anno dalla nascita”. Abbiamo cercato con ogni
mezzo di contrastare questa politica, che può essere solo definita
razzista.
Che cosa pensa del
piano di disimpegno da Gaza voluto dal governo Sharon?
Penso Sharon l’abbia ideato per aggiudicarsi, alla fin fine, una
grande parte della Cisgiordania, l’area che più gli interessa.
Egli ritiene che, facendo questa concessione (di restituire la Striscia
di Gaza agli originari proprietari), azzittisce almeno per un po’ le
critiche dell’opinione pubblica nei confronti del suo governo. E il
primo ministro non ci ha nemmeno detto come intende mantenere il
contatto fra Gaza e la Cisgiordania... Ma anche se l’origine del piano è
negativa, sionista, io resto per ogni disimpegno dai Territori Occupati;
quindi sarei molto contenta se questo ritiro divenisse realtà. L’altra
parte del disimpegno è più tragico: ci mostra quanto a destra è andata
l’opinione pubblica israeliana. I coloni sono diventati, in
pratica, i padroni di questo Paese: essi decidono qual è
l’agenda, che cosa si deve o non si deve fare. Sono stati nutriti e
pompati talmente tanto e talmente a lungo dall’establishment
israeliano, che ora hanno molti soldi, molto potere, e sono attivissimi
contro il disimpegno in un modo – devo dire – estremamente efficace. Non
hanno bisogno di lavorare e possono per così dire “sprecare” il loro
tempo in dimostrazioni che coinvolgono tutti: bambini, soldati, ecc.
Qualche tempo fa
Lei denunciò l’utilizzo della tortura nelle carceri israeliane. È
cambiato qualcosa dopo Abu Ghraib?
No. Questo non è stato un punto di svolta per le carceri israeliane.
Dopo che l’Esercito israeliano aveva rioccupato alcune città della
Cisgiordania, nell’ambito dell’operazione “Muro difensivo” dell’aprile
2002, assieme ad Hamoked – un’organizzazione israeliana di
difesa dei diritti dell’uomo – ho scoperto l’esistenza di una prigione
segreta: l’Edificio 1391. Un giornale ebraico l’ha definita la
“Guantanamo d’Israele”, a causa dell’uso sistematico della
tortura. Poco dopo la nostra denuncia, è scoppiato il caso di Abu Ghraib
in Iraq. Sono convinta che se non avessimo fatto questa scoperta un anno
e mezzo fa, Israele avrebbe reso agli Stati Uniti il “servizio” di
interrogare prigionieri iracheni in carceri israeliane. Non ho prove da
esibire, ma tutto sembra quadrare perfettamente.
Come descriverebbe
la situazione nelle carceri israeliane oggi?
La
situazione resta disastrosa. Fra i detenuti non ho proprio
percepito alcun senso di speranza. Sono ancora moltissimi quelli
che vengono arrestati e incarcerati senza che sia stato reso noto un
capo d’accusa. Restano a marcire, in attesa di un processo, per
parecchio tempo. Quando questo arriva, la punizione in genere è
pesantissima: decine e decine di anni di carcere. Gli israeliani
non fanno alcuna distinzione fra i militanti che scelgono obiettivi
civili e quelli che scelgono solo obiettivi militari. La logica
direbbe che chi sceglie obiettivi militari, dovrebbe andare incontro a
condanne più leggere (perché i soldati sono armati, e questa potrebbe
essere una guerra legittima contro l’occupazione). Ma non è affatto
così. A volte i tribunali condannano ancor più duramente questi ultimi.
Ha mai incontrato
Marwan Barghouti?
Sì. Varie volte.
In Europa viene
spesso descritto come “il nuovo Nelson Mandela”. È d’accordo?
È possibile. Gode di una grandissima popolarità. È un uomo molto
semplice, alla mano. Non lo sappiamo ancora, ma è possibile che
diventi il Nelson Mandela del futuro.
Come farebbe, se
fosse Lei il primo ministro d’Israele?
Dire questo:
innanzitutto via da tutti i Territori Occupati, compresa
Gerusalemme Est, il Golan. E poi negoziazioni per un futuro
migliore, per un Paese comune dove israeliani e palestinesi possano
vivere alla pari.
Qual è stata la
più grande soddisfazione nella sua vita personale?
I figli.
E nel lavoro?
La più grande soddisfazione è stata quando abbiamo vinto la causa
contro le torture. E cioè quando l’Alta Corte di Giustizia
d’Israele dichiarò ufficialmente – e poi mise per iscritto – che “le
torture sono illegali” e che i servizi segreti in quegli anni avevano
dunque agito fuori dalla legge. Era il 1999. Non sono stata per niente
felice nel constatare che, con un colpo di spugna, era possibile tornare
indietro. Oggi, purtroppo, la pratica delle torture è tornata in
auge nel mio Paese.
Come è stato
possibile?
Lo è stato,
perché adesso c’è l’ottima scusa della “sicurezza”. I
palestinesi si fanno esplodere; noi israeliani dobbiamo utilizzare
misure più forti.
Lei ha auspicato
l’uso delle sanzioni economiche da parte dell’Europa contro lo Stato
d’Israele affinché si ritorni a una trattativa di pace. È davvero
convinta che sarebbero efficaci?
Sì che lo sarebbero. E moltissimo. Ma la domanda è semmai questa:
oserà l’Europa, vincendo i propri sensi di colpa e i propri fantasmi
della Seconda Guerra mondiale, a boicottare Israele?
Ha un sogno?
Sogno un
posto dove non ci siano spargimenti di sangue, dove la gente possa
circolare liberamente senza la paura di essere colpita da un
soldato israeliano o da un kamikaze palestinese. Penso che questo sia
possibile soltanto se vige l’uguaglianza.
Da dove deriva la
sua speranza?
La speranza
arriva, ad esempio, da quegli eroici genitori palestinesi che,
nonostante l’occupazione, crescono i loro figli parlando delle
differenze che esistono tra un israeliano e l’altro, che non
vedono tutti noi come dei demoni, che insegnano ai loro bambini a
giudicare la gente secondo ciò che fa e non secondo ciò che è o il luogo
da cui proviene. Vorrei dire a questi genitori palestinesi di essere
pazienti e ottimisti. Di preparare la prossima generazione, perché
nel futuro vi è una promessa.
Missione Oggi
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