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Israele: un’occupazione che nega il conflitto

Intevista a Leah Tsemel
a cura di
Alessandra Garusi

 
     
 

“Recentemente ho perso una causa. Avevo cercato di impedire la distruzione della casa di un giovane, un kamikaze palestinese che si era fatto esplodere, uccidendo otto militari di una base presso Tel Aviv. Secondo la legge mandataria britannica, la casa di una persona colpevole di un atto di ‘terrorismo’ deve essere distrutta. Quando ho chiamato la famiglia per dire che avevamo perso, la mamma del kamikaze mi ha detto: ‘Sapevo di non avere speranze. Abbiamo già evacuato la casa’.
Solo di rado abbiamo il tempo di andare in tribunale in questi casi. Le demolizioni di solito puniscono un’intera famiglia. Molto spesso vengono condotte senza avvertimento. ‘Avete cinque minuti di tempo per uscire di casa’, è tutto ciò che viene loro concesso. I demolitori sfasciano tutto - abiti, mobili. Chiedo spesso alle famiglie cos’è che prendono in quei cinque minuti ed esse rispondono: ‘Per prima cosa, i certificati scolastici dei bambini’. Il loro ottimismo è meraviglioso”. Leah Tsemel – avvocato che da quasi trent’anni difende prigionieri politici palestinesi nelle corti israeliane – parla come un fiume in piena. Ecco il suo resoconto sugli ultimi sviluppi in Medio Oriente, dal piano di disimpegno unilaterale da Gaza al sogno di una vita finalmente “normale”.

Alcuni parlano dello Stato d’Israele come dell’unica democrazia in Medio Oriente. Altri denunciano le pratiche del suo Esercito che violano i più fondamentali fra i diritti umani. Chi ha ragione?
Le risponderò con un parallelo. L’ex primo ministro israeliano Golda Meir disse che aveva degli incubi, poiché i palestinesi si riproducevano troppo velocemente: 20 anni fa, la sua dichiarazione fece scandalo. Il 29 agosto 2003, la Knesset israeliana ha varato una legge: “In caso di matrimonio tra una israeliana e un palestinese dei Territori Occupati, lo sposo non potrà entrare in Israele, e tutti i figli nati da tale matrimonio non saranno registrati all’anagrafe israeliana a meno che non siano registrati entro un anno dalla nascita”. Abbiamo cercato con ogni mezzo di contrastare questa politica, che può essere solo definita razzista.

Che cosa pensa del piano di disimpegno da Gaza voluto dal governo Sharon?
Penso Sharon l’abbia ideato per aggiudicarsi, alla fin fine, una grande parte della Cisgiordania, l’area che più gli interessa. Egli ritiene che, facendo questa concessione (di restituire la Striscia di Gaza agli originari proprietari), azzittisce almeno per un po’ le critiche dell’opinione pubblica nei confronti del suo governo. E il primo ministro non ci ha nemmeno detto come intende mantenere il contatto fra Gaza e la Cisgiordania... Ma anche se l’origine del piano è negativa, sionista, io resto per ogni disimpegno dai Territori Occupati; quindi sarei molto contenta se questo ritiro divenisse realtà. L’altra parte del disimpegno è più tragico: ci mostra quanto a destra è andata l’opinione pubblica israeliana. I coloni sono diventati, in pratica, i padroni di questo Paese: essi decidono qual è l’agenda, che cosa si deve o non si deve fare. Sono stati nutriti e pompati talmente tanto e talmente a lungo dall’establishment israeliano, che ora hanno molti soldi, molto potere, e sono attivissimi contro il disimpegno in un modo – devo dire – estremamente efficace. Non hanno bisogno di lavorare e possono per così dire “sprecare” il loro tempo in dimostrazioni che coinvolgono tutti: bambini, soldati, ecc.
 

Qualche tempo fa Lei denunciò l’utilizzo della tortura nelle carceri israeliane. È cambiato qualcosa dopo Abu Ghraib?
No. Questo non è stato un punto di svolta per le carceri israeliane. Dopo che l’Esercito israeliano aveva rioccupato alcune città della Cisgiordania, nell’ambito dell’operazione “Muro difensivo” dell’aprile 2002, assieme ad Hamoked – un’organizzazione israeliana di difesa dei diritti dell’uomo – ho scoperto l’esistenza di una prigione segreta: l’Edificio 1391. Un giornale ebraico l’ha definita la “Guantanamo d’Israele”, a causa dell’uso sistematico della tortura. Poco dopo la nostra denuncia, è scoppiato il caso di Abu Ghraib in Iraq. Sono convinta che se non avessimo fatto questa scoperta un anno e mezzo fa, Israele avrebbe reso agli Stati Uniti il “servizio” di interrogare prigionieri iracheni in carceri israeliane. Non ho prove da esibire, ma tutto sembra quadrare perfettamente.
 

Come descriverebbe la situazione nelle carceri israeliane oggi?
La situazione resta disastrosa. Fra i detenuti non ho proprio percepito alcun senso di speranza. Sono ancora moltissimi quelli che vengono arrestati e incarcerati senza che sia stato reso noto un capo d’accusa. Restano a marcire, in attesa di un processo, per parecchio tempo. Quando questo arriva, la punizione in genere è pesantissima: decine e decine di anni di carcere. Gli israeliani non fanno alcuna distinzione fra i militanti che scelgono obiettivi civili e quelli che scelgono solo obiettivi militari. La logica direbbe che chi sceglie obiettivi militari, dovrebbe andare incontro a condanne più leggere (perché i soldati sono armati, e questa potrebbe essere una guerra legittima contro l’occupazione). Ma non è affatto così. A volte i tribunali condannano ancor più duramente questi ultimi.
 

Ha mai incontrato Marwan Barghouti?
Sì. Varie volte.

In Europa viene spesso descritto come “il nuovo Nelson Mandela”. È d’accordo?
È possibile. Gode di una grandissima popolarità. È un uomo molto semplice, alla mano. Non lo sappiamo ancora, ma è possibile che diventi il Nelson Mandela del futuro.
 

Come farebbe, se fosse Lei il primo ministro d’Israele?
Dire questo: innanzitutto via da tutti i Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est, il Golan. E poi negoziazioni per un futuro migliore, per un Paese comune dove israeliani e palestinesi possano vivere alla pari.
 
Qual è stata la più grande soddisfazione nella sua vita personale?
I figli.
 

E nel lavoro?
La più grande soddisfazione è stata quando abbiamo vinto la causa contro le torture. E cioè quando l’Alta Corte di Giustizia d’Israele dichiarò ufficialmente – e poi mise per iscritto – che “le torture sono illegali” e che i servizi segreti in quegli anni avevano dunque agito fuori dalla legge. Era il 1999. Non sono stata per niente felice nel constatare che, con un colpo di spugna, era possibile tornare indietro. Oggi, purtroppo, la pratica delle torture è tornata in auge nel mio Paese.
 

Come è stato possibile?
Lo è stato, perché adesso c’è l’ottima scusa della “sicurezza”. I palestinesi si fanno esplodere; noi israeliani dobbiamo utilizzare misure più forti.

Lei ha auspicato l’uso delle sanzioni economiche da parte dell’Europa contro lo Stato d’Israele affinché si ritorni a una trattativa di pace. È davvero convinta che sarebbero efficaci?
Sì che lo sarebbero. E moltissimo. Ma la domanda è semmai questa: oserà l’Europa, vincendo i propri sensi di colpa e i propri fantasmi della Seconda Guerra mondiale, a boicottare Israele?
 

Ha un sogno?
Sogno un posto dove non ci siano spargimenti di sangue, dove la gente possa circolare liberamente senza la paura di essere colpita da un soldato israeliano o da un kamikaze palestinese. Penso che questo sia possibile soltanto se vige l’uguaglianza.
 

Da dove deriva la sua speranza?
La speranza arriva, ad esempio, da quegli eroici genitori palestinesi che, nonostante l’occupazione, crescono i loro figli parlando delle differenze che esistono tra un israeliano e l’altro, che non vedono tutti noi come dei demoni, che insegnano ai loro bambini a giudicare la gente secondo ciò che fa e non secondo ciò che è o il luogo da cui proviene. Vorrei dire a questi genitori palestinesi di essere pazienti e ottimisti. Di preparare la prossima generazione, perché nel futuro vi è una promessa.

 

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9 agosto 2005

 

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