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L’aria tenue
dell’Italia centrale, i paesaggi dell’Umbria proto novecentesca e la
francescanità dei luoghi – presi a prestito perfino da D’Annunzio –
dovettero pesare non poco nella caratura estetica di
Sandro Penna,
il quale, durante tutta la sua irregolare esistenza, non fece altro che
produrre segni di una rinnovata classicità (greca, più che latina),
attraverso l’uso frequente, ma non esclusivo, del frammento, la forma di
scrittura poetica che lo condusse alle vette più alte dell’eleganza
formale, nell’ambito di tutto il Novecento letterario italiano.. Certo,
non è sufficiente dire che Penna fu solo un rifacitore della grecità:
egli estese la gamma delle similitudini anche ad autori a lui
contemporanei – vedi Umberto Saba, con il quale intrattenne una notevole
amicizia -.
Penna si ricollega subito al gruppetto degli autori irregolari del
Ventesimo secolo: gli facevano compagnia Cardarelli, Vittorini,
Quasimodo e lo stesso Montale. Nonostante questa caratteristica da
peccato “irreversibile”, la critica gli fu subito vicina e favorevole,
forse stanca dei tanti sfinimenti “cocottiani” del Gabriel D’Annunzio e
dell’esasperazione esistenzial-incestuosa pascolizzante. L’aria stava
cambiando, il secolo nuovo procedeva innanzi, così come il modo ermetico
di scrivere poesia e quant’altro potesse distaccarsi dalle matrici
ottocentesche. Ripeterò di nuovo il confronto con gli impiastri
mitologici del Vate pescarese e gli esercizi latini (impeccabili, per
carità!) altrettanto mitologici del Giovannone Romagnolo.
Penna era quindi:
•
puro, stilisticamente, come e più del D’Annunzio, quanto impuro nella
dimensione umana;
•
isolato,
nevrotico e incorruttibile, a livello “di vita vissuta”. (Prese le
distanze da un Pasolini, che pure lo incensava in modo inverecondo) ;
•
poeta tenue e leggerissimo nel verso, quanto, letterariamente parlando,
maledetto. Non credo, infatti, al Penna manniano, che segue Tadzio in
“Morte a Venezia”, animato solo dal tentativo di sistemare l’ideale di
Bellezza. Credo, piuttosto, a un Penna veramente intriso di desideri
omo-erotici a tutto tondo, sul registro di un mero e teorico
mercantaggio di sesso e di giovani. Un affare un po’ equivoco (e proprio
per questo intrigante), vicino a un vago senso di strappo contro la
natura, considerata matrigna secondo i parametri di Leopardi.
Il colore di una siffatta poesia è l’azzurro, vuoi nelle tinte dei cieli
quasi “tizianeschi” – vuoi nella concordanza popolare e popolana che
ammette il celeste come emblema della virilità maschile. L’azzurro
accoglie anche un’accezione più implicita e vede le proprie radici nel
campo dell’esattezza matematica. Con tale affermazione si approda così
al senso aristocratico del verso, alla costruzione cioè di un
pentagramma costituito da note che rimandano direttamente al “numero”.
Nella melica penniana si ravvisa la perfezione, calda dapprima e fredda
poi, che rimanda a pittori chic e formali come Simone Martini e Piero
della Francesca.
•
Penna come cameo,
allora. Il “perugino” conosce a menadito il senso intimo e gioioso dello
“scandalo”: egli dà al proprio registro un tono altissimo della
provocazione e della compromissione, - non ravvisabile negli altri poeti
italiani del Novecento, eccezion fatta per il “narrativo” Saba di
“Ernesto” -. L’umbro e il triestino, nelle rispettive competenze,
forniscono spunti felici di innocente colpevolezza e paganità. In ogni
loro quadro si dipana la trama –soave ed incontaminata-
dell’indipendenza dalle pastoie beghine dell’ambiente sociale a loro
coevo . Una sorta di Arcadia albeggia soprattutto in Penna, di cui oggi
si sente il bisogno di leggere e di ri-leggere il suo “canzoniere
amoroso”, che, ad ogni nuova indagine, appare velato e chiaro, elegante
e scabroso, a dispetto del cono d’ombra che oggi investe ognuno di noi,
così perduti nelle spire di un falso moralismo e del più bieco
opportunismo.
Pubblicato in
La costruzione del verso & altre
cose,
26 luglio 2005
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