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Contro la pena
di morte
di
Norberto Bobbio
Conferenza tenuta a
Rimini il 3 aprile 1981 in occasione della VI assemblea nazionale di
Amnesty International (Sezione Italiana)
1 - Nel corso
dei secoli
Se noi
guardiamo al lungo corso della storia umana più che millenaria dobbiamo
riconoscere, ci piaccia o non ci piaccia, che il dibattito per
l’abolizione della pena di morte si può dire appena cominciato. Per
secoli il problema se fosse o non fosse lecito (o giusto) condannare a
morte un colpevole non è stato neppure posto. Che tra le pene da
infliggere a chi aveva infranto le leggi della tribù, o della città, o
del popolo, o dello stato, ci fosse anche la pena di morte, e che anzi
la pena di morte fosse la regina delle pene, quella che soddisfaceva a
un tempo il bisogno di vendetta, giustizia, e sicurezza del corpo
collettivo verso uno dei suoi membri infetti, non è mai stato messo in
dubbio. E tanto per cominciare, prendiamo un libro classico, il primo
grandi libro sulle leggi e sulla giustizia della nostra civiltà
occidentale: le Leggi, i Nòmoi di Platone. Nel libro IX Platone dedica
alcune pagine al problema delle leggi penali. Riconosce che <<la pena
deve avere lo scopo di rendere migliore>> ma aggiunge che <<se si
dimostra che il delinquente è incurabile, la morte sarà per lui il
minore dei mali>>. Non sto a dirvi tutte le volte che si parla in questo
libro della pena di morte riguardo a una serie molto ampia di delitti,
dai delitti contro le divinità e contro il culto, ai delitti contro i
genitori, contro il padre e la madre, o in genere agli omicidi
volontari. Proprio parlando degli omicidi volontari vi è detto a un
certo punto che essi debbono “necessariamente pagare la pena naturale”
quella cioè di “patire ciò che hanno fatto”. Richiamo la vostra
attenzione sull’aggettivo “naturale” e sul principio del “patire” ciò
che è stato fatto. Questo principio, che nasce dalla dottrina del
contraccambio, ancora più antica di quella di Platone, dei pitagorici, e
sarà formulato dai giuristi medievali e ripetuto per secoli con la
famosa espressione secondo cui il malum passionis deve corrispondere al
malum actionis, percorre tutta la storia del diritto penale e giunge
assolutamente intatto sino a noi. Come vedremo fra poco, è una delle più
comuni giustificazioni della pena di morte. Ho citato questo testo
celebre dell’antichità solo per dare una testimonianza - la più
autorevole possibile - di come la pena di morte sia stata considerata
non solo perfettamente legittima, ma “naturale” sin dalle origini della
nostra civiltà, e del fatto che l’accettarla come pena non costituiva
affatto un problema. Avrei potuto citare molti altri testi. L’afflizione
della pena di morte costituisce così poco un problema che una religione
della non-violenza, del noli resistere malo, una religione che pur
solleva soprattutto nei primi secoli il problema dell’obiezione di
coscienza al servizio militare ed all’obbligo di portare le armi, una
religione che ha per divino ispiratore un condannato a morte, non ha mai
intaccato sostanzialmente la pratica della pena capitale.
2 - Beccaria e
l’illuminismo
Bisogna
giungere all’illuminismo, nel cuore del Settecento, per trovarsi per la
prima volta di fronte a un serio e ampio dibattito sulla liceità o
opportunità della pena capitale, il che non vuol dire che prima d’allora
il problema non fosse mai stato sollevato. L’importanza storica, che non
sarà mai sottolineata abbastanza, del famoso libro di Beccaria (1764)
sta proprio qui: è la prima opera che affronta seriamente il problema e
offre alcuni argomenti razionali per dare ad esso una soluzione che
contrasta con una tradizione secolare. Occorre dir subito che il punto
di partenza da cui muove Beccaria per la sua argomentazione è la
funzione esclusivamente intimidatrice della pena. “Il fine [della pena]
non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi
concittadini e di rimuovere gli altri dal farne degli eguali”. Vedremo
in seguito quale importanza abbia questo punto di partenza per lo
svolgimento del tema. Se questo è il punto di partenza, si tratta di
sapere quale sia la forza intimidatrice della pena di morte rispetto ad
altre pene. Ed è questo il tema che si pone ancora oggi e che ha posto
la stessa Amnesty International più volte. La risposta di Beccaria
deriva dal principio introdotto nel paragrafo intitolato Dolcezza delle
pene. Il principio è il seguente: “Uno dei più grandi freni dei delitti
non è la crudeltà della pena ma l’infallibilità di essa, e per
conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice
inesorabile che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da
una dolce legislazione”. Mitezza delle pene. Non è necessario che le
pene siano crudeli per essere deterrenti. E’ sufficiente che siano
certe. Ciò che costituisce una ragione, anzi la ragione principale, per
non commettere il delitto, non è tanto la severità della pena quanto la
certezza di essere in qualche modo puniti. In via secondaria, Beccaria
introduce anche un secondo principio, oltre la certezza della pena:
l’intimidazione nasce non già dall’intensità della pena, ma dalla sua
estensione, p.es. l’ergastolo. La pena di morte è molto intensa, mentre
l’ergastolo è molto esteso. Dunque, la totale perpetua perdita della
propria libertà è più deterrente della pena di morte. I due argomenti di
Beccaria sono entrambi argomenti utilitaristici, nel senso che
contestano l’utilità della pena di morte (“né utile né necessaria”, così
si esprime Beccaria iniziando la sua argomentazione). A questi due
argomenti Beccaria ne aggiunge un altro, che ha provocato le maggiori
perplessità (e che infatti oggi è stato in gran parte abbandonato).
L’argomento cosiddetto contrattualistico, che deriva dalla teoria del
contratto sociale o dell’origine convenzionale della società politica.
Questo argomento si può enunciare in questo modo: se la società politica
deriva da un accordo degli individui che rinunciano a vivere nello stato
di natura e si danno delle leggi per proteggersi a vicenda, è
inconcepibile che questi individui abbiano messo a disposizione dei loro
simili anche il diritto alla vita. Che il libro di Beccaria abbia avuto
uno strepitoso successo è noto. Basti pensare all’accoglienza che fece
ad esso Voltaire: gran parte della fama del libro di Beccaria è dovuta
soprattutto al fatto che fu accolto con favore da Voltaire. Beccaria era
un illustre ignoto; mentre nella patria dei lumi, che era la Francia,
Voltaire era Voltaire. E’ altresì ben noto che per influenza del
dibattito che sulla pena di morte si svolse in quegli anni fu emanata la
prima legge penale che abolì la pena di morte: la legge toscana del
1786, la quale nel §51, dopo una serie di considerazioni tra cui emerge,
ancora una volta, soprattutto la funzione intimidatrice, ma non è
trascurata la funzione emendatrice, della pena (“la correzione del reo,
figlio anch’esso della società e dello stato”), dichiara di “abolire per
sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia
contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto
dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte
vogliamo in questa parte cessate ed abolite”. Forse ancora più clamoroso
l’eco che ebbe nella Russia di Caterina II, nella cui celebre Istruzione
del 1765, quindi immediatamente dopo l’uscita del libro di Beccaria, si
legge: “L’esperienza di tutti i secoli prova che la pena di morte non ha
giammai resa migliore una nazione”. Segue una frase che sembra tolta di
peso dal libro di Beccaria: “Se dunque si dimostra che nello stato
ordinario di una società la morte di un cittadino non è né utile né
necessario, avrò vinta la causa dell’umanità”.
3 - Rosseau,
Kant, Hegel
Bisogna però
aggiungere che nonostante il successo letterario del libro presso il
pubblico colto, non solo la pena di morte non fu abolita nei paesi
civili rispetto ai tempi e ai paesi considerati barbari, se non
addirittura selvaggi, ma la causa dell'abolizione non era destinata a
prevalere nella filosofia penale del tempo, nonostante questa eco. Si
potrebbero fare molte citazioni. Ne scelgo tre, fra i più illustri
pensatori del tempo: Rosseau, dal Contratto sociale intitolato Della
vita e della morte, Rosseau aveva confutato in anticipo l'argomento
contrattualistico. Non è vero, aveva sostenuto, che l'individuo
accordandosi con gli altri per costituire lo stato si riservi un diritto
alla vita in ogni caso: "E' per non essere vittima di un assassinio che
si acconsente a morire se tale si diventa". Dunque l'attribuire allo
stato anche il diritto alla propria vita serve non già a distruggerla ma
a garantirla dagli attacchi altrui. Pochi anni dopo la pubblicazione Dei
delitti e delle pene, un altro scrittore politico italiano, il
Filangieri, nella Scienza della legislazione (1783), la maggior opera
italiana di filosofia politica della seconda metà del Settecento, taccia
di "sofismo" l'argomento contrattualistico di Beccaria, e sostiene che,
sì, nello stato di natura l'uomo ha diritto alla vita, ed e' altresì
vero che non può rinunciare a quel diritto, ma può perderlo con i suoi
delitti. Se può perderlo nello stato di natura non si vede perché non
possa perderlo nello stato civile, il quale viene istituito proprio allo
scopo non già di creare un nuovo diritto, ma di rendere sicuro
l'esercizio dell'antico diritto, del diritto dell'offeso di reagire con
la forza alla forza, di respingere con l'offesa alla vita altrui
l'offesa alla vita propria. I due maggiori filosofi del tempo, l'uno
prima, l'altro dopo la Rivoluzione francese, Kant ed Hegel, sostengono
una rigorosa teoria retributiva della pena e giungono alla conclusione
che la pena di morte è addirittura doverosa. Kant, partendo dalla
concezione retributiva della pena, secondo cui la funzione della pena
non è di prevenire i delitti ma puramente di rendere giustizia, cioè di
fare in modo che ci sia una corrispondenza perfetta fra il delitto e il
castigo (si tratta della giustizia come eguaglianza, di quella specie di
uguaglianza che gli antichi chiamavano "uguaglianza correttiva")
sostiene che il dovere della pena di morte spetta allo stato ed è un
imperativo categorico, non un imperativo ipotetico, fondato sul rapporto
mezzo-fine. Cito direttamente il testo, trascegliendo la frase più
significativa: "Se egli ha ucciso, egli deve morire. Non vi è nessun
surrogato, nessuna commutazione di pena, che possa soddisfare la
giustizia. Non c'è nessun paragone possibile fra una vita, per quanto
penosa, e la morte, e in conseguenza nessun altro compenso fra il
delitto e la punizione, fuorché nella morte, giuridicamente inflitta al
criminale, spogliandola però di ogni malizia che potrebbe nel paziente
rivoltare l'umanità". Hegel va ancora oltre. Dopo aver confutato
l'argomento contrattualistico di Beccaria negando che lo stato possa
nascere da un contratto, sostiene che il delinquente non solo deve
essere punito con una pena corrispondente al delitto compiuto, ma ha il
diritto di essere punito perché solo la punizione lo riscatta ed è solo
punendolo che lo si riconosce come essere razionale (anzi lo si "onora",
dice Hegel). Nell'aggiunta al paragrafo ha però la lealtà di riconoscere
che l'opera di Beccaria ebbe il almeno l'effetto di ridurre il numero
delle condanne a morte.
4 - Robespierre
Sfortuna
volle che mentre i maggiori filosofi del tempo continuavano a sostenere
la legittimità della pena di morte, uno dei maggiori sostenitori della
sua abolizione fu, com'è noto, in un famoso discorso all'Assemblea
Costituente del maggio 1791, Robespierre, colui che sarebbe passato alla
storia, nell'epoca della Restaurazione (l'epoca in cui Hegel scriveva la
sua opera) come il maggior responsabile del terrore rivoluzionario,
dell'assassinio indiscriminato (di cui egli stesso fu vittima quasi a
dimostrare la inesorabilità della legge che la rivoluzione divora i
propri figli, la violenza genera violenza, ecc.). Questo discorso di
Robespierre è da ricordare perché contiene una delle condanne più
persuasive, dal punto di vista dell'argomentazione, della pena di morte.
Confuta prima di tutto l'argomento della deterrenza, sostenendo non è
vero che la pena di morte sia più deterrente delle altre pene, e adduce
l'esempio quasi rituale, già addotto da Montesquieu, del Giappone:
allora si sosteneva che in Giappone le pene fossero atroci e che
tuttavia il Giappone fosse un paese di criminali. Poi, oltre a
quest'argomento, confuta anche l'argomento fondato sul consenso delle
genti e naturalmente quello fondato sulla giustizia. Adduce infine
l'argomento, che Beccaria non aveva ricordato, della irreversibilità
degli errori giudiziari. Tutti il discorso è ispirato al principio che
la mitezza delle pene (e qui la derivazione da Beccaria è evidente) è
prova di civiltà, mentre la crudeltà delle pene caratterizza i popoli
barbari (ancora una volta, il Giappone). Non si va tanto lontano dal
vero affermando che il più celebre e intelligente continuatore (quasi
ripetitore) di Beccaria sia stato - malauguratamente - Robespierre.
5 - Dopo
Beccaria
Nonostante il
persistere e il prevalere delle teorie antiabolizionistiche, non si può
dire che il dibattito sulla pena di morte, sollevato da Beccaria, sia
stato senza effetto. La contrapposizione tra abolizionisti ed
antiabolizionisti è troppo semplicistica e non rappresenta esattamente
la realtà. Il dibattito intorno alla pena di morte non ebbe di mira
soltanto la sua abolizione, ma prima di tutto la sua limitazione ad
alcuni dei suoi reati gravi, specificatamente determinati, poi la
eliminazione dei supplizi (o crudeltà inutili) che di solito
l'accompagnavano e, in terzo luogo, la sua ostentata pubblicità. Quando
si deplora che la pena di morte esista ancora nella maggior parte degli
stati si dimentica che il grande passo in avanti compiuto dalle
legislazioni di quasi tutti i paesi negli ultimi due secoli è consistito
nella diminuzione di reati punibili con la pena di morte. In Inghilterra
erano ancora all'inizio dell'800 più di duecento, e tra questi anche
reati che oggi vengono puniti con pochi anni di prigione. Anche negli
ordinamenti in cui la pena di morte sopravvisse, e sopravvive ancora,
essa è inflitta quasi esclusivamente per l'omicidio premeditato. Accanto
alla rarefazione dei delitti capitali, si annovera tra le misure
attenuatrici la soppressione dell'obbligo di infliggerla nei casi
previsti, sostituito dal potere discrezionale del giudice e della giuria
di infliggerla o meno. Per quel che riguarda la crudeltà
dell'esecuzione, basta la lettura di quell'affascinante libro di Focault
che è Sorvegliare e punire, pubblicato da Einaudi in traduzione
italiana, il quale descrive, nel capitolo intitolato "Lo splendore dei
supplizi" alcuni episodi raccapriccianti di esecuzioni capitali
precedute da lunghe ed efferate sevizie. Scrive un autore inglese del
secolo XVIII, citato da Focault, "la morte-supplizio è l'arte di
trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in mille morti e
ottenendo, prima che l'esistenza cessi, le più raffinate agonie". Il
supplizio è per così dire la moltiplicazione della pena di morte: come
se la pena di morte non bastasse, il supplizio raffinato uccide una
persona più volte. Il supplizio risponde a sue esigenze: dev'essere
infamante (sia per le cicatrici che lascia sul corpo, sia per la
risonanza da cui è accompagnato) e clamoroso, cioè deve essere
constatato da tutti. Questo elemento ci richiama all'elemento della
pubblicità, e quindi alla necessità, che l'esecuzione fosse pubblica
(pubblicità che scompare, si badi, con la soppressione delle pubbliche
esecuzioni, perché si estende alla sfilata in mezzo alla folla dei
deportati in catene verso i lavori forzati). Oggi la maggior parte degli
stati che hanno conservato la pena di morte la eseguono con la
discrezione e il riserbo con cui si esegue un doloroso dovere. Molti
stati non abolizionisti hanno cercato non soltanto di eliminare i
supplizi, ma di rendere la pena di morte quanto più possibile indolore
(o meno crudele). Naturalmente, non è detto che ci siano riusciti: basta
leggere resoconti sulle tre forme di esecuzione più comuni: la
ghigliottina francese, l'impiccagione inglese e la sedia elettrica negli
Stati Uniti, per rendersi conto che non è del tutto vero che sia stato
eliminato anche il supplizio, perché la morte non è sempre così
istantanea come si lascia credere o si cerca di far credere da parte di
coloro che sostengono la pena capitale. Ad ogni modo essa è sottratta
agli sguardi pubblici (anche se l'eco di un'esecuzione capitale sulla
stampa - e non bisogna dimenticare che in un regime di libertà di stampa
ha ampio spazio e diffusione la stampa scandalistica - fa le veci della
presenza d'un tempo del pubblico sulla piazza davanti al patibolo).
Sulla vergogna della pubblicità, come argomento contro la pena di morte,
vorrei limitarmi a ricordare le invettive di Victor Hugo che la combatté
per tuta la vita strenuamente, con tutta la potenza del suo stile
eloquente (anche se oggi ci può apparire magniloquente). Recentemente è
stato pubblicato in Francia un libro che raccoglie gli scritti di Victor
Hugo sulla pena di morte: una miniera di citazioni. Dalla lettura di
queste pagine risulta che egli si batté dalla giovinezza fino alla
vecchiaia contro la pena di morte, in ogni occasione, anche come uomo
politico e poi attraverso gli scritti, le poesie ed i romanzi. Le
invettive prendono quasi sempre lo spunto dalla vista o dalla
descrizione di un'esecuzione. Scrive nei Miserabili: "Il patibolo,
quando è la, drizzato in alto, ha qualcosa di allucinante. Si può essere
indifferenti verso la pena di morte e non pronunciarsi, non dire né sì
né no, sino a che non si è visto una ghigliottina. Ma se se ne incontra
una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prendere partito pro o
contro". Ricorda che a sedici anni vide una ladra che un boia marchiava
col ferro rovente: "...ho ancora nell'orecchio dopo più di quarant'anni,
e avrò sempre nell'anima, lo spaventoso grido della donna. Era una
ladra, ma da quel momento divenne per me una martire". Ho voluto
richiamare la vostra attenzione su questa evoluzione all'interno
dell'istituto della pena di morte per mostrarvi che sebbene la pena di
morte non sia stata abolita, la polemica illuministica non è rimasta
senza effetto. Vorrei ancora aggiungere che spesso, anche quando la pena
di morte è stata pronunciata da un tribunale, non sempre viene eseguita:
o viene sospesa o tramutata o il condannato viene graziato. Negli Stati
Uniti il caso di Gary Gilmore, che fu giustiziato nel gennaio del 1977
nello stato di Utah, fece grande scalpore perché dal 1967 (da dieci
anni) non era più stato giustiziato nessuno. Nel 1972 una famosa
sentenza della Corte suprema aveva stabilito che molte delle circostanze
in cui la pena capitale era applicata erano anticostituzionali, sulla
base dell'VIII emendamento che proibisce di imporre pene crudeli e
inusitate ("unusual"). Però nel 1976 un'altra decisione aveva mutato
l'interpretazione affermando che la pena di morte non sempre viola la
costituzione e aveva aperto la strada ad una nuova esecuzione, appunto
quella di Gilmore. Il fatto che una condanna a morte e abbia rianimato
le associazioni abolizionistiche mostra che anche nei paesi dove esiste
ancora la pena di morte c'è una vigile e sensibile opinione pubblica che
ostacola la sua applicazione.
6 - Due teorie
in contrasto
Da quello che
ho detto sin qui risulta già abbastanza chiaramente che gli argomenti
pro e contro dipendono quasi sempre dalla concezione che i due
contendenti hanno della funzione della pena. Le concezioni tradizionali
sono soprattutto due: quella retributiva che riposa sulla regola della
giustizia come eguaglianza (l'abbiamo già visto in Kant e in Hegel) o
corrispondenza tra eguali, secondo la massima che è giusto che chi ha
compiuto un'azione malvagia venga colpito dallo stesso male che ha
causato ad altri (la legge del taglione, del contraccambio, del
contrappasso di cui è esempio notissimo l'inferno di Dante) e dunque è
giusto (giustizia vuole) che chi uccide sia ucciso (non ha diritto alla
vita chi non la rispetta, perde il diritto alla vita chi l'ha tolta ad
altri ecc.); e quella preventiva, secondo cui la funzione della pena è
di scoraggiare le azioni che un determinato ordinamento considera
dannose con la minaccia di un male, la funzione cosiddetta deterrente o
dissuasiva. in base a questa concezione della pena va da sé che la pena
di morte è giustificata soltanto se si può dimostrare che il suo effetto
deterrente è grande ed è superiore a quello di ogni altra pena (ivi
compreso l'ergastolo). Le due concezioni della pena si contrappongono
anche come concezione etica e concezione utilitaristica, e si fondano su
due concezioni diverse dell'etica, la prima su un'etica dei principi o
della giustizia, la seconda su un'etica utilitaristica, che ha prevalso
negli ultimi secoli ed anche oggi prevale nel mondo anglosassone. Si può
dire in generale che gli anti-abolizionisti si appellano alla prima (per
esempio, Kant e Hegel), gli abolizionisti alla seconda (per esempio,
Beccaria). Permettetemi di esporvi un episodio storico che risale
nientemeno che al 428 a.C., tratto dalle Storie di Tucidide. Gli
Ateniesi debbono decidere della sorte degli abitanti di Mitilene che si
sono ribellati. Parlano due oratori: Cleone sostiene che i ribelli
debbono essere condannati a morte perché dev'essere reso loro il
contraccambio e debbono essere puniti come meritano; inoltre aggiunge
che gli altri alleati sapranno che chi si ribella sarà punito con la
morte; Diodoto al contrario, sostiene che la pena di morte non serve a
nulla perché "è impossibile - e dà prova di grande ingenuità chi lo
pensa - che la natura umana, quando è bramosamente lanciata a realizzare
qualche progetto, possa avere un freno nella forza delle leggi o in
qualche altra minaccia, onde bisogna evitare di avere troppa fiducia che
si abbia nella pena di morte una garanzia sicura ad impedire il male".
Continua suggerendo di attenersi a un criterio di utilità e, anziché
uccidere gli abitanti di Mitilene, farseli alleati. Facendo un brusco
salto di secoli, il dibattito che si è svolto poco più di un mese fa
sulla "Stampa" fra due miei vecchi amici di parere contrario, Alessandro
Galante Garrone e Massimo Mila, era della stessa natura, in quanto
fondato sugli stessi argomenti. Il primo scrisse un articolo contro la
pena di morte traendo il massimo argomento dal fatto che non era affatto
dimostrato che ottenesse l'effetto che i fautori della pena di morte (si
riferiva nel caso specifico alla campagna del MSI) si ripromettevano.
Mila rispose che non gli importava nulla del maggiore o minore effetto
di questa o quella pena, perché la pena di morte doveva essere inflitta
a chi aveva commesso delitti orrendi, come la strage di Bologna, per una
elementare considerazione di giustizia.
7 - Altre
teorie
In realtà il
dibattito è un po' più complicato dal fatto che le concezioni della pena
non sono soltanto queste due (anche se queste due sono di gran lunga le
prevalenti). Ne ricordo almeno altre tre: la pena come espiazione, come
emenda e come difesa sociale. Di queste la prima sembra la più
favorevole alla abolizione della pena di morte che non alla sua
conservazione: per espiare bisogna continuare a vivere. Ma si può anche
sostenere che la vera espiazione sia la morte, la morte intesa come
purificazione della colpa, la cancellazione della macchia: il sangue si
lava col sangue. A rigore questa concezione della pena è compatibile
tanto con la tesi del mantenimento quanto con la tesi dell'abolizione
della pena di morte. La seconda - quella dell'emenda - è la sola che
escluda totalmente la pena di morte. Anche il più perverso dei criminali
può redimersi: se lo uccidete, gli sbarrate la via del perfezionamento
morale che non può essere rifiutato ad alcuno. Quando gli illuministi
ritennero di dover sostituire la pena di morte con i lavori forzati essi
giustificarono spesso la loro tesi sostenendo che il lavoro redime. Nel
commento al libro di Beccaria, Voltaire scrisse, a proposito della
politica penalistica di Caterina II, favorevole all'abolizione: "I
delitti non si sono moltiplicati in seguito a questa umanità, e accade
quasi sempre che i colpevoli, relegati in Siberia, vi diventano persone
per bene", e poco oltre aggiunse: "Costringete gli uomini al lavoro, voi
li renderete persone oneste" (Ci sarebbe da fare un lungo discorso su
questa ideologia del lavoro, vera e propria ideologia borghese la sui
estrema, abominevole, macabra, demoniaca conseguenza sarà nella scritta
che campeggerà all'ingresso dei lager nazisti: "Arbeit macht frei", "Il
lavoro rende liberi"). La terza concezione, quella della difesa sociale,
è anch'essa ambigua: generalmente i sostenitori della pena come difesa
sociale sono stati e sono abolizionisti, ma lo sono per ragioni
umanitarie (anche perché rifiutano il concetto di colpa che sta alla
base della concezione retributiva, la quale trova la propria
giustificazione soltanto ammettendo la libertà del volere e quindi la
colpa). Però a rigore la difesa sociale non esclude la pena di morte: si
potrebbe sostenere che il miglior modo per difendersi dai criminali più
pericolosi è quello di eliminarli.
8 - Concezione
etica e concezione utilitaristica
Per quanto
molte siano le teorie della pena, le due prevalenti sono quelle che ho
chiamato etica e utilitaristica. Si tratta del resto di un contrasto che
va al di là del contrasto fra due modi diversi di concepire la pena,
perché rinvia a un contrasto più profondo fra due etiche (o morali), tra
due criteri diversi di giudicare del bene e del male: in base ai
principi buoni accolti come assolutamente validi, o in base ai risultati
buoni, intendendosi per risultati buoni quelli che portano alla maggior
utilità del maggior numero, come sostenevano gli utilitaristi, Beccaria,
Bentham ecc. Altro infatti è dire che non si deve fare il male perché
esiste una norma che lo vieta (p.e. i dieci comandamenti), altro è dire
che non bisogna fare il male perché ha funeste conseguenze per l'umana
convivenza. Due criteri diversi e che non coincidono, perché può darsi
benissimo che un'azione giudicata cattiva in base ai principi abbia
delle conseguenze utilitaristicamente buone, e viceversa. A giudicare
dalla disputa pro e contro la pena di morte, come si è visto, si direbbe
che i fautori della pena di morte seguano una concezione etica della
giustizia mentre gli abolizionisti sono seguaci di una teoria
utilitaristica. Ridotti all'osso i due ragionamenti opposti potrebbero
essere riassunti in queste due affermazioni. Per gli uni "La pena di
morte è giusta", per gli altri "La pena di morte non è utile". Giusta,
per i primi, indipendentemente dalla sua utilità (il ragionamento
kantiano da questo punto di vista è ineccepibile: considerare il
condannato a morte come uno spauracchio, significherebbe ridurre la
persona a mezzo, oggi si direbbe che la si strumentalizza); non utile
per i secondi, indipendentemente da ogni considerazione di giustizia.
Detto altrimenti: per i primi, la pena di morte potrebbe essere anche
utile, ma non è giusta; per i secondi, potrebbe anche essere giusta, ma
non è utile. E non è utile perché non è tanto deterrente, come si crede,
essendovi altre pene più deterrenti. E quindi, mentre per coloro che
partono dalla teoria della retribuzione, la pena di morte è un male
necessario (e forse anche un bene, come abbiamo visto in Hegel, perché
ricostituisce l'ordine violato), per coloro che partono dalla teoria
intimidatrice la pena di morte è un male non necessario, e quindi non
può essere in alcun modo considerata come un bene.
9 - Pro e
contro la teoria utilitaristica
Non c'è
dubbio che, da Beccaria in poi, l'argomento fondamentale degli
abolizionisti è stato quello del potere deterrente. Però che la pena di
morte avesse minor potere deterrente della pena ai lavori forzati era
un'affermazione fondata, allora, sopra opinioni personali, a loro volta
derivate da una valutazione psicologica dello stato d'animo del
criminale, non suffragata da alcuna prova di fatto. Da quando si è
applicato allo studio della criminalità il metodo della ricerca
positiva, sono state fatte ricerche empiriche sulla maggiore o minore
deterrenza delle pene, confrontando i dati della criminalità in periodi
o in luoghi con o senza pena di morte. Queste indagini sono state
naturalmente facilitate negli Stati Uniti dal fatto che ci sono stati in
cui vige la pena di morte e altri in cui è stata abolita. Nel Canada un
moratorium act del 1967, che sospese la pena di morte per cinque anni,
ha permesso di studiare l'incidenza sulla criminalità paragonando il
presente con il passato. Un esame molto accurato di questi studi
(pubblicato a Toronto nel 1977, C.H.S. Jayewardene, The Penality of
Death) mostra in realtà che nessuna di queste ricerche ha dato risultati
del tutto persuasivi. Basta pensare a tutte le variabili concomitanti di
cui bisogna tener conto, oltre a quella del rapporto semplice tra
diminuzione delle pene e aumento o diminuzione dei delitti. Per esempio,
la certezza della pena, problema già posto dal Beccaria: è più
deterrente la gravità della pena o la sua certezza? Solo se la certezza
rimane stabile nei due momenti, il paragone è possibile. E' il caso del
terrorismo in Italia: che cosa contribuisce maggiormente alla sconfitta
del terrorismo, l'aggravamento delle pene oppure il miglioramento dei
mezzi per scoprire i terroristi? Di fronte ai risultati sinora
accertati, non sempre probanti, di quest'analisi, ci si rifugia spesso
nei sondaggi d'opinione (l'opinione dei giudici, dei condannati a morte
o del pubblico). Ma tanto per cominciare in materia di bene e di male il
principio di maggioranza non vale; e lo sapeva del resto il Beccaria che
aveva scritto: "Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutti i secoli, e
di quasi tutte le nazioni che hanno dato pena di morte ad alcuni
delitti, io risponderò ch'egli si annienta in faccia alla verità, contro
della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà
l'idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a
grandi intervalli distanti, verità soprannotano". In secondo luogo i
sondaggi d'opinione provano poco, perché sono soggetti al mutare degli
umori della gente che reagisce emotivamente di fronte ai fatti di cui è
spettatrice. E' noto che l'atteggiamento del pubblico di fronte alla
pena di morte varia a seconda della situazione di minore o maggiore
tranquillità sociale. Se non ci fosse stato il terrorismo e l'aumento di
criminalità in questi anni, probabilmente il problema della pena di
morte non sarebbe stato neppure posto. Com'è noto, l'Italia fu uno dei
primi stati che abolì la pena di morte (1889, codice penale Zanardelli):
quando Croce scrisse la "Storia d'Italia" nel 1928 affermò che
l'abolizione della pena di morte era diventata un fatto di costume e che
l'idea stessa della restaurazione della pena di morte era inconciliabile
col sentimento nazionale. Eppure dopo pochi anni il fascismo l'avrebbe
restaurata senza grande turbamento nell'opinione pubblica salvo la
sterile protesta di qualche antifascista. Tra i quali ricordo il libro
del 1932 di Paolo Rossi che è diventato ministro della repubblica e
anche presidente della Corte Costituzionale, "La pena di morte e la sua
critica", dove contro il progetto che si stava allora elaborando del
nuovo codice penale, pronunciò una netta condanna della pena di morte,
ricorrendo principalmente all'argomento dell'emenda. Il lato debole
dell'argomento che fonda la richiesta di abolire la pena di morte sulla
sua minor forza deterrente dipende dal fatto che se si potesse
dimostrare in modo inconfutabile che la pena di morte ha, per lo meno in
determinate situazioni, un potere deterrente maggiore di altre pene,
dovrebbe essere mantenuta o ripristinata. Non ci si può nascondere la
gravità dell'obiezione. Perciò ritengo che sia non dico un errore, ma un
grande limite, fondare la tesi dell'abolizione solo sull'argomento
utilitaristico. E' vero che ci sono altri argomenti secondari, ma non
sono a mio parere decisivi. C'è l'argomento dell'irreversibilità della
pena di morte e quindi dell'irrimediabilità dell'errore giudiziario. Ma
gli abolizionisti possono sempre ribattere che la pena capitale appunto
per la sua gravità e irrimediabilità deve essere inflitta solo in caso
di certezza assoluta di colpa. In questo caso si tratterebbe di
introdurre una ulteriore limitazione nell'applicazione. Però, se la pena
di morte è giusta e deterrente, non importa che sia poco applicata,
importa che esista. C'è poi un argomento contrario che ha il suo peso ed
è quello dei recidivi. In un'operetta recentissima (1980) sulla pena di
morte, l'ultima che ho avuto occasione di leggere, pubblicata nella
popolare collana "Que sais-je?" l'autore, Marcel Normand, sostiene a
spada tratta la pena di morte e insiste sull'argomento della recidiva:
cita alcuni casi - devo dire impressionanti - di assassini condannati a
morte, poi graziati, che, ritornati in libertà, nonostante i molti anni
di prigione, hanno commesso altri omicidi. Donde la domanda inquietante:
se la condanna a morte fosse stata eseguita, si sarebbe risparmiata una
o più vite umane? E la conclusione: per risparmiare la vita a un
delinquente, la società ha sacrificato la vita di un innocente. Il
leit-motiv dell'autore è il seguente: gli abolizionisti si pongono dal
punto di vista del criminale, gli anti-abolizionisti da quello delle
vittime. Chi ha più ragione?
10 - Non
uccidere
Ma ancora più
imbarazzante è la domanda che mi sono posto poco prima, a proposito
della tesi utilitaristica: il limite della tesi sta in una pura e
semplice presunzione che la pena di morte non serva a diminuire i
delitti di sangue. Ma se si riuscisse a dimostrare che li previene? Ecco
allora che l'abolizionista deve fare ricorso ad un'altra istanza, a un
argomento di carattere morale, a un principio posto come assolutamente
indiscutibile (un vero e proprio postulato etico).E questo argomento non
può esser desunto che dall'imperativo morale: Non Uccidere, da
accogliersi come un principio che ha valore assoluto. Ma come? Si
potrebbe ribattere, l'individuo singolo ha diritto di uccidere per
legittima difesa, e la collettività no? Rispondo: la collettività non ha
questo diritto perché la legittima difesa nasce e si giustifica soltanto
come risposta immediata in istato di impossibilità di fare altrimenti;
la risposta della collettività è mediata attraverso un procedimento,
talora anche lungo, in cui si dibattono argomenti pro e contro; in altre
parole, la condanna a morte in seguito a un procedimento non è più un
omicidio per legittima difesa, ma un omicidio legale, legalizzato,
perpetrato a freddo, premeditato. Un omicidio che richiede degli
esecutori, cioè persone autorizzate ad uccidere. Non per nulla
l'esecutore della pena di morte, per quanto autorizzato ad uccidere, è
sempre stato considerato un personaggio infame: si legga il libro di
Charles Duff, "Manuale del boia", recentemente tradotto, dove il boia è
presentato in modo grottesco come il cane, l'amico fedele della società.
Vi si adduce, fra l'altro, per negare l'efficacia deterrente della pena
di morte, il caso di un boia che diventa a sua volta assassino e deve
essere giustiziato. E' una autorizzazione che non giustifica l'atto
autorizzato e non lo giustifica perché l'atto è ingiustificabile ed è
ingiustificabile perché è degradante per chi lo compie e per chi lo
subisce (come si vede, usando "degradante", uso un giudizio morale). Lo
stato non può porsi sullo stesso piano del singolo individuo.
L'individuo singolo agisce per rabbia, per passione, per interesse, per
difesa. Lo stato risponde meditatamente, riflessivamente, razionalmente.
Anch'esso ha il dovere di difendersi. Ma è troppo più forte del singolo
individuo per aver bisogno di spegnerne la vita a propria difesa. Lo
stato ha il privilegio e il beneficio del monopolio della forza. Deve
sentire tutta la responsabilità di questo privilegio e di questo
beneficio. Capisco benissimo che è un ragionamento arduo, astratto, che
può essere tacciato di moralismo ingenuo, di predica inutile. Ma
cerchiamo di dare una ragione alla nostra ripugnanza alla pena di morte.
La ragione è una sola: il comandamento di non uccidere. Io non ne vedo
altra. Al di fuori di questa ragione ultima, tutti gli argomenti valgono
poco o nulla, possono essere ritorti con argomenti che hanno, più o
meno, la stessa forza persuasiva. Lo ha detto magnificamente
Dostoevskij, mettendo in bocca al principe Mirskij le parole: "E' detto:
'Non uccidere '. E allora perché se uno ha ucciso s’ha da uccidere anche
lui? Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del
delitto stesso. L'assassinio legale è incomparabilmente più orrendo
dell'assassinio brigantesco." Del resto proprio perché la ragione ultima
della condanna della pena di morte è così alta e ardua, la grande
maggioranza degli stati continua a praticarla, e continuerà a praticarla
nonostante le dichiarazioni internazionali, gli appelli, le associazioni
abolizionistiche, l'azione nobilissima di Amnesty International, che io
condivido. Ciononostante crediamo fermamente che la scomparsa totale
della pena di morte dal teatro della storia sia destinata a
rappresentare un segno indiscutibile di progresso civile. Espresse molto
bene questo concetto John Stuart Mill (un autore che amo):"L'intera
storia del progresso umano è stata una serie di transizioni attraverso
cui un costume o un'istituzione dopo l'altra sono passate dall'essere
presunte necessarie all'esistenza sociale, nel rango di ingiustizie
universalmente condannate". Sono convinto che anche questo sia il
destino della pena di morte. Se mi chiedete quando si compirà questo
destino, vi rispondo che non lo so. So soltanto che il compimento di
questo destino sarà un segno indiscutibile di progresso morale.
Mobiglia Flavio in GARGONZA@Perlulivo.it
via
Caludio Giusti
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