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Contro la pena di morte

di Norberto Bobbio
 

Conferenza tenuta a Rimini il 3 aprile 1981 in occasione della VI assemblea nazionale di Amnesty International (Sezione Italiana)

 



1 - Nel corso dei secoli
Se noi guardiamo al lungo corso della storia umana più che millenaria dobbiamo riconoscere, ci piaccia o non ci piaccia, che il dibattito per l’abolizione della pena di morte si può dire appena cominciato. Per secoli il problema se fosse o non fosse lecito (o giusto) condannare a morte un colpevole non è stato neppure posto. Che tra le pene da infliggere a chi aveva infranto le leggi della tribù, o della città, o del popolo, o dello stato, ci fosse anche la pena di morte, e che anzi la pena di morte fosse la regina delle pene, quella che soddisfaceva a un tempo il bisogno di vendetta, giustizia, e sicurezza del corpo collettivo verso uno dei suoi membri infetti, non è mai stato messo in dubbio. E tanto per cominciare, prendiamo un libro classico, il primo grandi libro sulle leggi e sulla giustizia della nostra civiltà occidentale: le Leggi, i Nòmoi di Platone. Nel libro IX Platone dedica alcune pagine al problema delle leggi penali. Riconosce che <<la pena deve avere lo scopo di rendere migliore>> ma aggiunge che <<se si dimostra che il delinquente è incurabile, la morte sarà per lui il minore dei mali>>. Non sto a dirvi tutte le volte che si parla in questo libro della pena di morte riguardo a una serie molto ampia di delitti, dai delitti contro le divinità e contro il culto, ai delitti contro i genitori, contro il padre e la madre, o in genere agli omicidi volontari. Proprio parlando degli omicidi volontari vi è detto a un certo punto che essi debbono “necessariamente pagare la pena naturale” quella cioè di “patire ciò che hanno fatto”. Richiamo la vostra attenzione sull’aggettivo “naturale” e sul principio del “patire” ciò che è stato fatto. Questo principio, che nasce dalla dottrina del contraccambio, ancora più antica di quella di Platone, dei pitagorici, e sarà formulato dai giuristi medievali e ripetuto per secoli con la famosa espressione secondo cui il malum passionis deve corrispondere al malum actionis, percorre tutta la storia del diritto penale e giunge assolutamente intatto sino a noi. Come vedremo fra poco, è una delle più comuni giustificazioni della pena di morte. Ho citato questo testo celebre dell’antichità solo per dare una testimonianza - la più autorevole possibile - di come la pena di morte sia stata considerata non solo perfettamente legittima, ma “naturale” sin dalle origini della nostra civiltà, e del fatto che l’accettarla come pena non costituiva affatto un problema. Avrei potuto citare molti altri testi. L’afflizione della pena di morte costituisce così poco un problema che una religione della non-violenza, del noli resistere malo, una religione che pur solleva soprattutto nei primi secoli il problema dell’obiezione di coscienza al servizio militare ed all’obbligo di portare le armi, una religione che ha per divino ispiratore un condannato a morte, non ha mai intaccato sostanzialmente la pratica della pena capitale.

2 - Beccaria e l’illuminismo
Bisogna giungere all’illuminismo, nel cuore del Settecento, per trovarsi per la prima volta di fronte a un serio e ampio dibattito sulla liceità o opportunità della pena capitale, il che non vuol dire che prima d’allora il problema non fosse mai stato sollevato. L’importanza storica, che non sarà mai sottolineata abbastanza, del famoso libro di Beccaria (1764) sta proprio qui: è la prima opera che affronta seriamente il problema e offre alcuni argomenti razionali per dare ad esso una soluzione che contrasta con una tradizione secolare. Occorre dir subito che il punto di partenza da cui muove Beccaria per la sua argomentazione è la funzione esclusivamente intimidatrice della pena. “Il fine [della pena] non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne degli eguali”. Vedremo in seguito quale importanza abbia questo punto di partenza per lo svolgimento del tema. Se questo è il punto di partenza, si tratta di sapere quale sia la forza intimidatrice della pena di morte rispetto ad altre pene. Ed è questo il tema che si pone ancora oggi e che ha posto la stessa Amnesty International più volte. La risposta di Beccaria deriva dal principio introdotto nel paragrafo intitolato Dolcezza delle pene. Il principio è il seguente: “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà della pena ma l’infallibilità di essa, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione”. Mitezza delle pene. Non è necessario che le pene siano crudeli per essere deterrenti. E’ sufficiente che siano certe. Ciò che costituisce una ragione, anzi la ragione principale, per non commettere il delitto, non è tanto la severità della pena quanto la certezza di essere in qualche modo puniti. In via secondaria, Beccaria introduce anche un secondo principio, oltre la certezza della pena: l’intimidazione nasce non già dall’intensità della pena, ma dalla sua estensione, p.es. l’ergastolo. La pena di morte è molto intensa, mentre l’ergastolo è molto esteso. Dunque, la totale perpetua perdita della propria libertà è più deterrente della pena di morte. I due argomenti di Beccaria sono entrambi argomenti utilitaristici, nel senso che contestano l’utilità della pena di morte (“né utile né necessaria”, così si esprime Beccaria iniziando la sua argomentazione). A questi due argomenti Beccaria ne aggiunge un altro, che ha provocato le maggiori perplessità (e che infatti oggi è stato in gran parte abbandonato). L’argomento cosiddetto contrattualistico, che deriva dalla teoria del contratto sociale o dell’origine convenzionale della società politica. Questo argomento si può enunciare in questo modo: se la società politica deriva da un accordo degli individui che rinunciano a vivere nello stato di natura e si danno delle leggi per proteggersi a vicenda, è inconcepibile che questi individui abbiano messo a disposizione dei loro simili anche il diritto alla vita. Che il libro di Beccaria abbia avuto uno strepitoso successo è noto. Basti pensare all’accoglienza che fece ad esso Voltaire: gran parte della fama del libro di Beccaria è dovuta soprattutto al fatto che fu accolto con favore da Voltaire. Beccaria era un illustre ignoto; mentre nella patria dei lumi, che era la Francia, Voltaire era Voltaire. E’ altresì ben noto che per influenza del dibattito che sulla pena di morte si svolse in quegli anni fu emanata la prima legge penale che abolì la pena di morte: la legge toscana del 1786, la quale nel §51, dopo una serie di considerazioni tra cui emerge, ancora una volta, soprattutto la funzione intimidatrice, ma non è trascurata la funzione emendatrice, della pena (“la correzione del reo, figlio anch’esso della società e dello stato”), dichiara di “abolire per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte vogliamo in questa parte cessate ed abolite”. Forse ancora più clamoroso l’eco che ebbe nella Russia di Caterina II, nella cui celebre Istruzione del 1765, quindi immediatamente dopo l’uscita del libro di Beccaria, si legge: “L’esperienza di tutti i secoli prova che la pena di morte non ha giammai resa migliore una nazione”. Segue una frase che sembra tolta di peso dal libro di Beccaria: “Se dunque si dimostra che nello stato ordinario di una società la morte di un cittadino non è né utile né necessario, avrò vinta la causa dell’umanità”.

3 - Rosseau, Kant, Hegel
Bisogna però aggiungere che nonostante il successo letterario del libro presso il pubblico colto, non solo la pena di morte non fu abolita nei paesi civili rispetto ai tempi e ai paesi considerati barbari, se non addirittura selvaggi, ma la causa dell'abolizione non era destinata a prevalere nella filosofia penale del tempo, nonostante questa eco. Si potrebbero fare molte citazioni. Ne scelgo tre, fra i più illustri pensatori del tempo: Rosseau, dal Contratto sociale intitolato Della vita e della morte, Rosseau aveva confutato in anticipo l'argomento contrattualistico. Non è vero, aveva sostenuto, che l'individuo accordandosi con gli altri per costituire lo stato si riservi un diritto alla vita in ogni caso: "E' per non essere vittima di un assassinio che si acconsente a morire se tale si diventa". Dunque l'attribuire allo stato anche il diritto alla propria vita serve non già a distruggerla ma a garantirla dagli attacchi altrui. Pochi anni dopo la pubblicazione Dei delitti e delle pene, un altro scrittore politico italiano, il Filangieri, nella Scienza della legislazione (1783), la maggior opera italiana di filosofia politica della seconda metà del Settecento, taccia di "sofismo" l'argomento contrattualistico di Beccaria, e sostiene che, sì, nello stato di natura l'uomo ha diritto alla vita, ed e' altresì vero che non può rinunciare a quel diritto, ma può perderlo con i suoi delitti. Se può perderlo nello stato di natura non si vede perché non possa perderlo nello stato civile, il quale viene istituito proprio allo scopo non già di creare un nuovo diritto, ma di rendere sicuro l'esercizio dell'antico diritto, del diritto dell'offeso di reagire con la forza alla forza, di respingere con l'offesa alla vita altrui l'offesa alla vita propria. I due maggiori filosofi del tempo, l'uno prima, l'altro dopo la Rivoluzione francese, Kant ed Hegel, sostengono una rigorosa teoria retributiva della pena e giungono alla conclusione che la pena di morte è addirittura doverosa. Kant, partendo dalla concezione retributiva della pena, secondo cui la funzione della pena non è di prevenire i delitti ma puramente di rendere giustizia, cioè di fare in modo che ci sia una corrispondenza perfetta fra il delitto e il castigo (si tratta della giustizia come eguaglianza, di quella specie di uguaglianza che gli antichi chiamavano "uguaglianza correttiva") sostiene che il dovere della pena di morte spetta allo stato ed è un imperativo categorico, non un imperativo ipotetico, fondato sul rapporto mezzo-fine. Cito direttamente il testo, trascegliendo la frase più significativa: "Se egli ha ucciso, egli deve morire. Non vi è nessun surrogato, nessuna commutazione di pena, che possa soddisfare la giustizia. Non c'è nessun paragone possibile fra una vita, per quanto penosa, e la morte, e in conseguenza nessun altro compenso fra il delitto e la punizione, fuorché nella morte, giuridicamente inflitta al criminale, spogliandola però di ogni malizia che potrebbe nel paziente rivoltare l'umanità". Hegel va ancora oltre. Dopo aver confutato l'argomento contrattualistico di Beccaria negando che lo stato possa nascere da un contratto, sostiene che il delinquente non solo deve essere punito con una pena corrispondente al delitto compiuto, ma ha il diritto di essere punito perché solo la punizione lo riscatta ed è solo punendolo che lo si riconosce come essere razionale (anzi lo si "onora", dice Hegel). Nell'aggiunta al paragrafo ha però la lealtà di riconoscere che l'opera di Beccaria ebbe il almeno l'effetto di ridurre il numero delle condanne a morte.

4 - Robespierre
Sfortuna volle che mentre i maggiori filosofi del tempo continuavano a sostenere la legittimità della pena di morte, uno dei maggiori sostenitori della sua abolizione fu, com'è noto, in un famoso discorso all'Assemblea Costituente del maggio 1791, Robespierre, colui che sarebbe passato alla storia, nell'epoca della Restaurazione (l'epoca in cui Hegel scriveva la sua opera) come il maggior responsabile del terrore rivoluzionario, dell'assassinio indiscriminato (di cui egli stesso fu vittima quasi a dimostrare la inesorabilità della legge che la rivoluzione divora i propri figli, la violenza genera violenza, ecc.). Questo discorso di Robespierre è da ricordare perché contiene una delle condanne più persuasive, dal punto di vista dell'argomentazione, della pena di morte. Confuta prima di tutto l'argomento della deterrenza, sostenendo non è vero che la pena di morte sia più deterrente delle altre pene, e adduce l'esempio quasi rituale, già addotto da Montesquieu, del Giappone: allora si sosteneva che in Giappone le pene fossero atroci e che tuttavia il Giappone fosse un paese di criminali. Poi, oltre a quest'argomento, confuta anche l'argomento fondato sul consenso delle genti e naturalmente quello fondato sulla giustizia. Adduce infine l'argomento, che Beccaria non aveva ricordato, della irreversibilità degli errori giudiziari. Tutti il discorso è ispirato al principio che la mitezza delle pene (e qui la derivazione da Beccaria è evidente) è prova di civiltà, mentre la crudeltà delle pene caratterizza i popoli barbari (ancora una volta, il Giappone). Non si va tanto lontano dal vero affermando che il più celebre e intelligente continuatore (quasi ripetitore) di Beccaria sia stato - malauguratamente - Robespierre.

5 - Dopo Beccaria
Nonostante il persistere e il prevalere delle teorie antiabolizionistiche, non si può dire che il dibattito sulla pena di morte, sollevato da Beccaria, sia stato senza effetto. La contrapposizione tra abolizionisti ed antiabolizionisti è troppo semplicistica e non rappresenta esattamente la realtà. Il dibattito intorno alla pena di morte non ebbe di mira soltanto la sua abolizione, ma prima di tutto la sua limitazione ad alcuni dei suoi reati gravi, specificatamente determinati, poi la eliminazione dei supplizi (o crudeltà inutili) che di solito l'accompagnavano e, in terzo luogo, la sua ostentata pubblicità. Quando si deplora che la pena di morte esista ancora nella maggior parte degli stati si dimentica che il grande passo in avanti compiuto dalle legislazioni di quasi tutti i paesi negli ultimi due secoli è consistito nella diminuzione di reati punibili con la pena di morte. In Inghilterra erano ancora all'inizio dell'800 più di duecento, e tra questi anche reati che oggi vengono puniti con pochi anni di prigione. Anche negli ordinamenti in cui la pena di morte sopravvisse, e sopravvive ancora, essa è inflitta quasi esclusivamente per l'omicidio premeditato. Accanto alla rarefazione dei delitti capitali, si annovera tra le misure attenuatrici la soppressione dell'obbligo di infliggerla nei casi previsti, sostituito dal potere discrezionale del giudice e della giuria di infliggerla o meno. Per quel che riguarda la crudeltà dell'esecuzione, basta la lettura di quell'affascinante libro di Focault che è Sorvegliare e punire, pubblicato da Einaudi in traduzione italiana, il quale descrive, nel capitolo intitolato "Lo splendore dei supplizi" alcuni episodi raccapriccianti di esecuzioni capitali precedute da lunghe ed efferate sevizie. Scrive un autore inglese del secolo XVIII, citato da Focault, "la morte-supplizio è l'arte di trattenere la vita nella sofferenza, suddividendola in mille morti e ottenendo, prima che l'esistenza cessi, le più raffinate agonie". Il supplizio è per così dire la moltiplicazione della pena di morte: come se la pena di morte non bastasse, il supplizio raffinato uccide una persona più volte. Il supplizio risponde a sue esigenze: dev'essere infamante (sia per le cicatrici che lascia sul corpo, sia per la risonanza da cui è accompagnato) e clamoroso, cioè deve essere constatato da tutti. Questo elemento ci richiama all'elemento della pubblicità, e quindi alla necessità, che l'esecuzione fosse pubblica (pubblicità che scompare, si badi, con la soppressione delle pubbliche esecuzioni, perché si estende alla sfilata in mezzo alla folla dei deportati in catene verso i lavori forzati). Oggi la maggior parte degli stati che hanno conservato la pena di morte la eseguono con la discrezione e il riserbo con cui si esegue un doloroso dovere. Molti stati non abolizionisti hanno cercato non soltanto di eliminare i supplizi, ma di rendere la pena di morte quanto più possibile indolore (o meno crudele). Naturalmente, non è detto che ci siano riusciti: basta leggere resoconti sulle tre forme di esecuzione più comuni: la ghigliottina francese, l'impiccagione inglese e la sedia elettrica negli Stati Uniti, per rendersi conto che non è del tutto vero che sia stato eliminato anche il supplizio, perché la morte non è sempre così istantanea come si lascia credere o si cerca di far credere da parte di coloro che sostengono la pena capitale. Ad ogni modo essa è sottratta agli sguardi pubblici (anche se l'eco di un'esecuzione capitale sulla stampa - e non bisogna dimenticare che in un regime di libertà di stampa ha ampio spazio e diffusione la stampa scandalistica - fa le veci della presenza d'un tempo del pubblico sulla piazza davanti al patibolo). Sulla vergogna della pubblicità, come argomento contro la pena di morte, vorrei limitarmi a ricordare le invettive di Victor Hugo che la combatté per tuta la vita strenuamente, con tutta la potenza del suo stile eloquente (anche se oggi ci può apparire magniloquente). Recentemente è stato pubblicato in Francia un libro che raccoglie gli scritti di Victor Hugo sulla pena di morte: una miniera di citazioni. Dalla lettura di queste pagine risulta che egli si batté dalla giovinezza fino alla vecchiaia contro la pena di morte, in ogni occasione, anche come uomo politico e poi attraverso gli scritti, le poesie ed i romanzi. Le invettive prendono quasi sempre lo spunto dalla vista o dalla descrizione di un'esecuzione. Scrive nei Miserabili: "Il patibolo, quando è la, drizzato in alto, ha qualcosa di allucinante. Si può essere indifferenti verso la pena di morte e non pronunciarsi, non dire né sì né no, sino a che non si è visto una ghigliottina. Ma se se ne incontra una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prendere partito pro o contro". Ricorda che a sedici anni vide una ladra che un boia marchiava col ferro rovente: "...ho ancora nell'orecchio dopo più di quarant'anni, e avrò sempre nell'anima, lo spaventoso grido della donna. Era una ladra, ma da quel momento divenne per me una martire". Ho voluto richiamare la vostra attenzione su questa evoluzione all'interno dell'istituto della pena di morte per mostrarvi che sebbene la pena di morte non sia stata abolita, la polemica illuministica non è rimasta senza effetto. Vorrei ancora aggiungere che spesso, anche quando la pena di morte è stata pronunciata da un tribunale, non sempre viene eseguita: o viene sospesa o tramutata o il condannato viene graziato. Negli Stati Uniti il caso di Gary Gilmore, che fu giustiziato nel gennaio del 1977 nello stato di Utah, fece grande scalpore perché dal 1967 (da dieci anni) non era più stato giustiziato nessuno. Nel 1972 una famosa sentenza della Corte suprema aveva stabilito che molte delle circostanze in cui la pena capitale era applicata erano anticostituzionali, sulla base dell'VIII emendamento che proibisce di imporre pene crudeli e inusitate ("unusual"). Però nel 1976 un'altra decisione aveva mutato l'interpretazione affermando che la pena di morte non sempre viola la costituzione e aveva aperto la strada ad una nuova esecuzione, appunto quella di Gilmore. Il fatto che una condanna a morte e abbia rianimato le associazioni abolizionistiche mostra che anche nei paesi dove esiste ancora la pena di morte c'è una vigile e sensibile opinione pubblica che ostacola la sua applicazione.

6 - Due teorie in contrasto
Da quello che ho detto sin qui risulta già abbastanza chiaramente che gli argomenti pro e contro dipendono quasi sempre dalla concezione che i due contendenti hanno della funzione della pena. Le concezioni tradizionali sono soprattutto due: quella retributiva che riposa sulla regola della giustizia come eguaglianza (l'abbiamo già visto in Kant e in Hegel) o corrispondenza tra eguali, secondo la massima che è giusto che chi ha compiuto un'azione malvagia venga colpito dallo stesso male che ha causato ad altri (la legge del taglione, del contraccambio, del contrappasso di cui è esempio notissimo l'inferno di Dante) e dunque è giusto (giustizia vuole) che chi uccide sia ucciso (non ha diritto alla vita chi non la rispetta, perde il diritto alla vita chi l'ha tolta ad altri ecc.); e quella preventiva, secondo cui la funzione della pena è di scoraggiare le azioni che un determinato ordinamento considera dannose con la minaccia di un male, la funzione cosiddetta deterrente o dissuasiva. in base a questa concezione della pena va da sé che la pena di morte è giustificata soltanto se si può dimostrare che il suo effetto deterrente è grande ed è superiore a quello di ogni altra pena (ivi compreso l'ergastolo). Le due concezioni della pena si contrappongono anche come concezione etica e concezione utilitaristica, e si fondano su due concezioni diverse dell'etica, la prima su un'etica dei principi o della giustizia, la seconda su un'etica utilitaristica, che ha prevalso negli ultimi secoli ed anche oggi prevale nel mondo anglosassone. Si può dire in generale che gli anti-abolizionisti si appellano alla prima (per esempio, Kant e Hegel), gli abolizionisti alla seconda (per esempio, Beccaria). Permettetemi di esporvi un episodio storico che risale nientemeno che al 428 a.C., tratto dalle Storie di Tucidide. Gli Ateniesi debbono decidere della sorte degli abitanti di Mitilene che si sono ribellati. Parlano due oratori: Cleone sostiene che i ribelli debbono essere condannati a morte perché dev'essere reso loro il contraccambio e debbono essere puniti come meritano; inoltre aggiunge che gli altri alleati sapranno che chi si ribella sarà punito con la morte; Diodoto al contrario, sostiene che la pena di morte non serve a nulla perché "è impossibile - e dà prova di grande ingenuità chi lo pensa - che la natura umana, quando è bramosamente lanciata a realizzare qualche progetto, possa avere un freno nella forza delle leggi o in qualche altra minaccia, onde bisogna evitare di avere troppa fiducia che si abbia nella pena di morte una garanzia sicura ad impedire il male". Continua suggerendo di attenersi a un criterio di utilità e, anziché uccidere gli abitanti di Mitilene, farseli alleati. Facendo un brusco salto di secoli, il dibattito che si è svolto poco più di un mese fa sulla "Stampa" fra due miei vecchi amici di parere contrario, Alessandro Galante Garrone e Massimo Mila, era della stessa natura, in quanto fondato sugli stessi argomenti. Il primo scrisse un articolo contro la pena di morte traendo il massimo argomento dal fatto che non era affatto dimostrato che ottenesse l'effetto che i fautori della pena di morte (si riferiva nel caso specifico alla campagna del MSI) si ripromettevano. Mila rispose che non gli importava nulla del maggiore o minore effetto di questa o quella pena, perché la pena di morte doveva essere inflitta a chi aveva commesso delitti orrendi, come la strage di Bologna, per una elementare considerazione di giustizia.

7 - Altre teorie
In realtà il dibattito è un po' più complicato dal fatto che le concezioni della pena non sono soltanto queste due (anche se queste due sono di gran lunga le prevalenti). Ne ricordo almeno altre tre: la pena come espiazione, come emenda e come difesa sociale. Di queste la prima sembra la più favorevole alla abolizione della pena di morte che non alla sua conservazione: per espiare bisogna continuare a vivere. Ma si può anche sostenere che la vera espiazione sia la morte, la morte intesa come purificazione della colpa, la cancellazione della macchia: il sangue si lava col sangue. A rigore questa concezione della pena è compatibile tanto con la tesi del mantenimento quanto con la tesi dell'abolizione della pena di morte. La seconda - quella dell'emenda - è la sola che escluda totalmente la pena di morte. Anche il più perverso dei criminali può redimersi: se lo uccidete, gli sbarrate la via del perfezionamento morale che non può essere rifiutato ad alcuno. Quando gli illuministi ritennero di dover sostituire la pena di morte con i lavori forzati essi giustificarono spesso la loro tesi sostenendo che il lavoro redime. Nel commento al libro di Beccaria, Voltaire scrisse, a proposito della politica penalistica di Caterina II, favorevole all'abolizione: "I delitti non si sono moltiplicati in seguito a questa umanità, e accade quasi sempre che i colpevoli, relegati in Siberia, vi diventano persone per bene", e poco oltre aggiunse: "Costringete gli uomini al lavoro, voi li renderete persone oneste" (Ci sarebbe da fare un lungo discorso su questa ideologia del lavoro, vera e propria ideologia borghese la sui estrema, abominevole, macabra, demoniaca conseguenza sarà nella scritta che campeggerà all'ingresso dei lager nazisti: "Arbeit macht frei", "Il lavoro rende liberi"). La terza concezione, quella della difesa sociale, è anch'essa ambigua: generalmente i sostenitori della pena come difesa sociale sono stati e sono abolizionisti, ma lo sono per ragioni umanitarie (anche perché rifiutano il concetto di colpa che sta alla base della concezione retributiva, la quale trova la propria giustificazione soltanto ammettendo la libertà del volere e quindi la colpa). Però a rigore la difesa sociale non esclude la pena di morte: si potrebbe sostenere che il miglior modo per difendersi dai criminali più pericolosi è quello di eliminarli.

8 - Concezione etica e concezione utilitaristica
Per quanto molte siano le teorie della pena, le due prevalenti sono quelle che ho chiamato etica e utilitaristica. Si tratta del resto di un contrasto che va al di là del contrasto fra due modi diversi di concepire la pena, perché rinvia a un contrasto più profondo fra due etiche (o morali), tra due criteri diversi di giudicare del bene e del male: in base ai principi buoni accolti come assolutamente validi, o in base ai risultati buoni, intendendosi per risultati buoni quelli che portano alla maggior utilità del maggior numero, come sostenevano gli utilitaristi, Beccaria, Bentham ecc. Altro infatti è dire che non si deve fare il male perché esiste una norma che lo vieta (p.e. i dieci comandamenti), altro è dire che non bisogna fare il male perché ha funeste conseguenze per l'umana convivenza. Due criteri diversi e che non coincidono, perché può darsi benissimo che un'azione giudicata cattiva in base ai principi abbia delle conseguenze utilitaristicamente buone, e viceversa. A giudicare dalla disputa pro e contro la pena di morte, come si è visto, si direbbe che i fautori della pena di morte seguano una concezione etica della giustizia mentre gli abolizionisti sono seguaci di una teoria utilitaristica. Ridotti all'osso i due ragionamenti opposti potrebbero essere riassunti in queste due affermazioni. Per gli uni "La pena di morte è giusta", per gli altri "La pena di morte non è utile". Giusta, per i primi, indipendentemente dalla sua utilità (il ragionamento kantiano da questo punto di vista è ineccepibile: considerare il condannato a morte come uno spauracchio, significherebbe ridurre la persona a mezzo, oggi si direbbe che la si strumentalizza); non utile per i secondi, indipendentemente da ogni considerazione di giustizia. Detto altrimenti: per i primi, la pena di morte potrebbe essere anche utile, ma non è giusta; per i secondi, potrebbe anche essere giusta, ma non è utile. E non è utile perché non è tanto deterrente, come si crede, essendovi altre pene più deterrenti. E quindi, mentre per coloro che partono dalla teoria della retribuzione, la pena di morte è un male necessario (e forse anche un bene, come abbiamo visto in Hegel, perché ricostituisce l'ordine violato), per coloro che partono dalla teoria intimidatrice la pena di morte è un male non necessario, e quindi non può essere in alcun modo considerata come un bene.

9 - Pro e contro la teoria utilitaristica
Non c'è dubbio che, da Beccaria in poi, l'argomento fondamentale degli abolizionisti è stato quello del potere deterrente. Però che la pena di morte avesse minor potere deterrente della pena ai lavori forzati era un'affermazione fondata, allora, sopra opinioni personali, a loro volta derivate da una valutazione psicologica dello stato d'animo del criminale, non suffragata da alcuna prova di fatto. Da quando si è applicato allo studio della criminalità il metodo della ricerca positiva, sono state fatte ricerche empiriche sulla maggiore o minore deterrenza delle pene, confrontando i dati della criminalità in periodi o in luoghi con o senza pena di morte. Queste indagini sono state naturalmente facilitate negli Stati Uniti dal fatto che ci sono stati in cui vige la pena di morte e altri in cui è stata abolita. Nel Canada un moratorium act del 1967, che sospese la pena di morte per cinque anni, ha permesso di studiare l'incidenza sulla criminalità paragonando il presente con il passato. Un esame molto accurato di questi studi (pubblicato a Toronto nel 1977, C.H.S. Jayewardene, The Penality of Death) mostra in realtà che nessuna di queste ricerche ha dato risultati del tutto persuasivi. Basta pensare a tutte le variabili concomitanti di cui bisogna tener conto, oltre a quella del rapporto semplice tra diminuzione delle pene e aumento o diminuzione dei delitti. Per esempio, la certezza della pena, problema già posto dal Beccaria: è più deterrente la gravità della pena o la sua certezza? Solo se la certezza rimane stabile nei due momenti, il paragone è possibile. E' il caso del terrorismo in Italia: che cosa contribuisce maggiormente alla sconfitta del terrorismo, l'aggravamento delle pene oppure il miglioramento dei mezzi per scoprire i terroristi? Di fronte ai risultati sinora accertati, non sempre probanti, di quest'analisi, ci si rifugia spesso nei sondaggi d'opinione (l'opinione dei giudici, dei condannati a morte o del pubblico). Ma tanto per cominciare in materia di bene e di male il principio di maggioranza non vale; e lo sapeva del resto il Beccaria che aveva scritto: "Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutti i secoli, e di quasi tutte le nazioni che hanno dato pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò ch'egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l'idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannotano". In secondo luogo i sondaggi d'opinione provano poco, perché sono soggetti al mutare degli umori della gente che reagisce emotivamente di fronte ai fatti di cui è spettatrice. E' noto che l'atteggiamento del pubblico di fronte alla pena di morte varia a seconda della situazione di minore o maggiore tranquillità sociale. Se non ci fosse stato il terrorismo e l'aumento di criminalità in questi anni, probabilmente il problema della pena di morte non sarebbe stato neppure posto. Com'è noto, l'Italia fu uno dei primi stati che abolì la pena di morte (1889, codice penale Zanardelli): quando Croce scrisse la "Storia d'Italia" nel 1928 affermò che l'abolizione della pena di morte era diventata un fatto di costume e che l'idea stessa della restaurazione della pena di morte era inconciliabile col sentimento nazionale. Eppure dopo pochi anni il fascismo l'avrebbe restaurata senza grande turbamento nell'opinione pubblica salvo la sterile protesta di qualche antifascista. Tra i quali ricordo il libro del 1932 di Paolo Rossi che è diventato ministro della repubblica e anche presidente della Corte Costituzionale, "La pena di morte e la sua critica", dove contro il progetto che si stava allora elaborando del nuovo codice penale, pronunciò una netta condanna della pena di morte, ricorrendo principalmente all'argomento dell'emenda. Il lato debole dell'argomento che fonda la richiesta di abolire la pena di morte sulla sua minor forza deterrente dipende dal fatto che se si potesse dimostrare in modo inconfutabile che la pena di morte ha, per lo meno in determinate situazioni, un potere deterrente maggiore di altre pene, dovrebbe essere mantenuta o ripristinata. Non ci si può nascondere la gravità dell'obiezione. Perciò ritengo che sia non dico un errore, ma un grande limite, fondare la tesi dell'abolizione solo sull'argomento utilitaristico. E' vero che ci sono altri argomenti secondari, ma non sono a mio parere decisivi. C'è l'argomento dell'irreversibilità della pena di morte e quindi dell'irrimediabilità dell'errore giudiziario. Ma gli abolizionisti possono sempre ribattere che la pena capitale appunto per la sua gravità e irrimediabilità deve essere inflitta solo in caso di certezza assoluta di colpa. In questo caso si tratterebbe di introdurre una ulteriore limitazione nell'applicazione. Però, se la pena di morte è giusta e deterrente, non importa che sia poco applicata, importa che esista. C'è poi un argomento contrario che ha il suo peso ed è quello dei recidivi. In un'operetta recentissima (1980) sulla pena di morte, l'ultima che ho avuto occasione di leggere, pubblicata nella popolare collana "Que sais-je?" l'autore, Marcel Normand, sostiene a spada tratta la pena di morte e insiste sull'argomento della recidiva: cita alcuni casi - devo dire impressionanti - di assassini condannati a morte, poi graziati, che, ritornati in libertà, nonostante i molti anni di prigione, hanno commesso altri omicidi. Donde la domanda inquietante: se la condanna a morte fosse stata eseguita, si sarebbe risparmiata una o più vite umane? E la conclusione: per risparmiare la vita a un delinquente, la società ha sacrificato la vita di un innocente. Il leit-motiv dell'autore è il seguente: gli abolizionisti si pongono dal punto di vista del criminale, gli anti-abolizionisti da quello delle vittime. Chi ha più ragione?

10 - Non uccidere
Ma ancora più imbarazzante è la domanda che mi sono posto poco prima, a proposito della tesi utilitaristica: il limite della tesi sta in una pura e semplice presunzione che la pena di morte non serva a diminuire i delitti di sangue. Ma se si riuscisse a dimostrare che li previene? Ecco allora che l'abolizionista deve fare ricorso ad un'altra istanza, a un argomento di carattere morale, a un principio posto come assolutamente indiscutibile (un vero e proprio postulato etico).E questo argomento non può esser desunto che dall'imperativo morale: Non Uccidere, da accogliersi come un principio che ha valore assoluto. Ma come? Si potrebbe ribattere, l'individuo singolo ha diritto di uccidere per legittima difesa, e la collettività no? Rispondo: la collettività non ha questo diritto perché la legittima difesa nasce e si giustifica soltanto come risposta immediata in istato di impossibilità di fare altrimenti; la risposta della collettività è mediata attraverso un procedimento, talora anche lungo, in cui si dibattono argomenti pro e contro; in altre parole, la condanna a morte in seguito a un procedimento non è più un omicidio per legittima difesa, ma un omicidio legale, legalizzato, perpetrato a freddo, premeditato. Un omicidio che richiede degli esecutori, cioè persone autorizzate ad uccidere. Non per nulla l'esecutore della pena di morte, per quanto autorizzato ad uccidere, è sempre stato considerato un personaggio infame: si legga il libro di Charles Duff, "Manuale del boia", recentemente tradotto, dove il boia è presentato in modo grottesco come il cane, l'amico fedele della società. Vi si adduce, fra l'altro, per negare l'efficacia deterrente della pena di morte, il caso di un boia che diventa a sua volta assassino e deve essere giustiziato. E' una autorizzazione che non giustifica l'atto autorizzato e non lo giustifica perché l'atto è ingiustificabile ed è ingiustificabile perché è degradante per chi lo compie e per chi lo subisce (come si vede, usando "degradante", uso un giudizio morale). Lo stato non può porsi sullo stesso piano del singolo individuo. L'individuo singolo agisce per rabbia, per passione, per interesse, per difesa. Lo stato risponde meditatamente, riflessivamente, razionalmente. Anch'esso ha il dovere di difendersi. Ma è troppo più forte del singolo individuo per aver bisogno di spegnerne la vita a propria difesa. Lo stato ha il privilegio e il beneficio del monopolio della forza. Deve sentire tutta la responsabilità di questo privilegio e di questo beneficio. Capisco benissimo che è un ragionamento arduo, astratto, che può essere tacciato di moralismo ingenuo, di predica inutile. Ma cerchiamo di dare una ragione alla nostra ripugnanza alla pena di morte. La ragione è una sola: il comandamento di non uccidere. Io non ne vedo altra. Al di fuori di questa ragione ultima, tutti gli argomenti valgono poco o nulla, possono essere ritorti con argomenti che hanno, più o meno, la stessa forza persuasiva. Lo ha detto magnificamente Dostoevskij, mettendo in bocca al principe Mirskij le parole: "E' detto: 'Non uccidere '. E allora perché se uno ha ucciso s’ha da uccidere anche lui? Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L'assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell'assassinio brigantesco." Del resto proprio perché la ragione ultima della condanna della pena di morte è così alta e ardua, la grande maggioranza degli stati continua a praticarla, e continuerà a praticarla nonostante le dichiarazioni internazionali, gli appelli, le associazioni abolizionistiche, l'azione nobilissima di Amnesty International, che io condivido. Ciononostante crediamo fermamente che la scomparsa totale della pena di morte dal teatro della storia sia destinata a rappresentare un segno indiscutibile di progresso civile. Espresse molto bene questo concetto John Stuart Mill (un autore che amo):"L'intera storia del progresso umano è stata una serie di transizioni attraverso cui un costume o un'istituzione dopo l'altra sono passate dall'essere presunte necessarie all'esistenza sociale, nel rango di ingiustizie universalmente condannate". Sono convinto che anche questo sia il destino della pena di morte. Se mi chiedete quando si compirà questo destino, vi rispondo che non lo so. So soltanto che il compimento di questo destino sarà un segno indiscutibile di progresso morale.

 

Mobiglia Flavio in GARGONZA@Perlulivo.it
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agli incroci dei venti, 15 agosto 2006

 

 

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