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Dietro il diploma, niente
di Sergio Tardetti
 

L’università del capoluogo della mia regione informa l’utenza – la gentile clientela - che, a partire dal prossimo anno accademico, l’offerta formativa verrà ampliata fino a prevedere 147 (centoquarantasette!) diplomi di laurea di primo livello e ben 88 lauree specialistiche. Ce n’è per tutti i gusti, anche se non sempre per tutte le tasche. Occorrono, infatti, almeno un migliaio di euro all’anno per la sola tassa di iscrizione, oltre, naturalmente, agli annessi e connessi che ogni universitario ha sperimentato sulla propria pelle e nelle proprie tasche.
Un tempo, l’offerta formativa, quella che potremmo chiamare il menu, era composta da pochi piatti per palati e stomach i davvero forti. Se non si masticava tutto accuratamente, se si aveva la digestione lenta, se non si riusciva ad assimilare il contenuto di una disciplina, si correva il rischio di dover tornare a degustare gli stessi testi per diverse volte. Ricordo ancora con quanto timore ci preparassimo ad affrontare esami obbligatori del piano di studi nazionale, previsti per un determinato corso di laurea in tutte le sedi universitarie d’Italia. Oggi la “nouvelle cuisine”, una cucina creativa che va a braccetto con una finanza creativa, sforna piatti per palati e stomachi delicati. Si tratta spesso di mini porzioni appena scottate al vapore, per una maggiore digeribilità e un tempo di assimilazione sempre più ridotto. Il tanto disprezzato bignami, un tempo tanto osteggiato dalla classe docente e tanto amato dagli studenti nelle scuole superiori, ha trovato finalmente una degna, seppure tardiva, riabilitazione negli atenei di tutta Italia. Mandati in soffitta i ponderosi volumi sui quali si è formata la mia generazione, oggi si preferiscono ben più agili manuali, che condensano in poche pagine un sapere praticamente enciclopedico. Ogni insegnamento viene finemente sminuzzato e triturato, fino a ridurlo ad un irriconoscibile ammasso di nozioni, per garantire il lavoro a tutta una categoria di aiutanti chef, al servizio dei più potenti “maestri”.

Una serie quasi infinita di interrogativi viene suscitata dalle tanto agognate (dai politici) e tanto osteggiate (dagli addetti ai lavori) riforme della scuola e dell’università. A sostegno di operazioni, condotte più per incidere - in negativo - sulle già magre finanze del comparto dell’istruzione, che per trovare efficaci soluzioni ai problemi reali del mondo della scuola, si schierano numerosi commentatori ed opinionisti di varia estrazione, sempre pronti ad ossequiare il potente di turno. Si sente sempre più spesso ripetere questa affermazione: si sa - e chi non lo sa è un asino, e peggio per lui! sottintende il commentatore - che nella nostra vita dovremo cambiare lavoro molte volte. Qualche personaggio, attaccato al suo ben remunerato lavoro più che l’ostrica allo scoglio, azzarda anche un pronostico: in media sette volte. Sette, numero mitico. E qui, con un’ellissi logica, si prosegue, affermando che solo quelli che avranno frequentato il liceo saranno in grado di cambiare lavoro. Non se ne capisce il motivo, ma chi l’ha detto ha parlato di maggiore “flessibilità” mentale da parte di questa categoria di diplomati. E le competenze per affrontare un nuovo lavoro – o meglio una nuova professione, visto l’elevato livello culturale degli individui in questione – dove le prendiamo? O forse non occorrono? Se per lavoro si intende, ad esempio, “operatore ecologico” – adsit iniuria verbis – quali competenze occorrono e quali competenze fornisce il liceo allo scopo? Ed è veramente necessario questo liceo? Una volta si faceva questa scelta da parte di chi desiderava intraprendere quelle che venivano definite “professioni liberali”. Oggi anche l’addetto alla catena di montaggio dovrebbe essere laureato? Oppure si pensa a nuove modalità di lavoro, nelle quali coinvolgere questa massa di laureati di primo livello, che personalmente considero “senza arte né parte”. E’ legittima anche la loro aspirazione a mansioni superiori al semplice operaio qualificato, visti i sacrifici economici e personali fatti per arrivare all’agognato pezzo di carta. Ho la sensazione che tutto si riduca proprio ad un pezzo di carta. Carta straccia, appunto. Oltre ad incrementare le microspecializzazioni e i bilanci delle università che, furbescamente, cavalcano l’onda, inventandosi titoli di studio ai limiti del ridicolo e della decenza, oltre a farci fare un bel balzo in avanti nelle classifiche europee e mondiali dei laureati, come si conviene ad un paese incluso nei G8, a che altro servono le microlauree? Non sarebbe il caso di tornare ad un sano “rasoio di Occam”? Perché moltiplicare inutilmente i titoli di studio? La risposta sta nelle casse di ogni ateneo.

Emblematico della situazione attuale dell’Università un fatto accadutomi di recente. Incontro un mio conoscente che mi informa, tutto soddisfatto, che “adesso siamo colleghi”. Entrambi dottori, entrambi laureati. Lì per lì sono un po’ sorpreso: so che lui lavora quasi tutto il giorno, ha abbandonato i libri dal almeno venticinque anni, ha una famiglia a cui pensare. Non ce lo vedo proprio chino a sudare su ponderosi volumi, che trattano argomenti di complessità piuttosto elevata, se paragonata al suo livello di formazione di base. Gli espongo le mie perplessità, ma lui si limita a sorridere. Risponde ai miei dubbi legittimi con un linguaggio da spot. “Non sai che svolgo la mia attività da almeno venticinque anni? Oggi laurearsi non è più difficile come un tempo. Basta trovare un’università che ti riconosca i crediti dell’esperienza professionale”. E mi racconta come, dietro versamento di 1500 euro, il superamento di quattro esami e la discussione di una tesi, abbia potuto ottenere, in pochi mesi, l’agognato pezzo di carta, che adesso pone me e lui sullo stesso piano. Mi viene quasi rabbia a pensare a quanto tempo ho sprecato sui libri e nelle aule universitarie, per superare i miei 29 esami, ai mesi che mi sono occorsi per preparare la mia tesi di laurea e, soprattutto, a come sia caduta in basso questa università, che conferisce titoli di studio con la stessa facilità con la quale Vittorio Emanuele III conferiva titoli da cavaliere. “Un sigaro toscano e un titolo da cavaliere non si nega a nessuno” – era solito ripetere sua maestà.

Il meccanismo dei crediti appare assai simile, per alcuni aspetti, a quello dei bollini premio che si distribuiscono presso certe stazioni di servizio o in certi supermercati. Proviamo a fare qualche esempio. Se hai fatto il militare a Cuneo, nell’anno dell’alluvione del Polesine, hai i capelli biondi e non fumi, hai diritto a 25 crediti nell’università della Valle di Pado, per frequentare il corso di “Tricofilia comparata del micelio Chesterfield” e a 40 crediti per il corso triennale di “Salvaguardia preventiva degli alvei delle Langhe”.
Al danno, per le spese sostenute, il tempo sprecato e le illusioni perdute, si aggiunge anche la beffa quando si vuole passare alla laurea di secondo livello. Se vuoi iscriverti a qualche corso prestigioso o semplicemente qualificante devi sottoporti alle forche caudine del test di ingresso, nonché possedere, di volta in volta, titoli assolutamente discordanti da università a università. Quello che temo è che, sbollita l’euforia del momento, al risveglio dalla grande illusione si proverà la grande delusione. Ci ritroveremo con migliaia di laureati in cerca di lavoro, ai quali si dovrà rispondere negativamente, quando vogliano assumere incarichi attualmente ricoperti dai laureati “d’annata”.

A conclusione di questo breve cahier de doléances, offro, naturalmente previo riconoscimento di un congruo numero di crediti per la laurea in Scienze dell’Alimentazione, una “Ricetta creativa per un nuovo corso di laurea”:

Procuratevi i piani di studio delle facoltà universitarie degli anni ’70. Estraete a caso almeno cinque diversi corsi di laurea. Tra quelli estratti, scegliete almeno due insegnamenti per ciascuno. Disponeteli davanti a voi su un tavolo, suddividete ciascun insegnamento in quante più parti potete e lasciate riposare il tutto per 24 ore. Nel frattempo concentratevi intensamente sull’idea che ogni studente che riuscirete ad attirare verserà nelle casse dell’università almeno mille euro all’anno. Tornate quindi a riguardare l’elenco degli ingredienti ricavato il giorno prima e vedrete che, come per incanto, si comporranno, come le tessere di un puzzle, a formare una nuova pietanza, da aggiungere al menu (leggi: offerta formativa) della vostra università. Inserite il tutto in un piatto di portata, dopo averlo opportunamente guarnito con aggiunte di finalità e obiettivi.

A chi vorrà partecipare alla degustazione verrà offerto un buono sconto di 5 crediti, valido per qualsiasi laurea di primo livello. Buon appetito e, soprattutto, buona fortuna!
 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 24 luglio 2006

 

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