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Gian Ruggero Manzoni. Scritture scelte. per la recitazione e riviste dall’autore.

 

 

Scritture scelte Volume I e II, a cura di Andrea Ponso. Ed. Del Bradipo, Lugo di Romagna, 2006

 



Il Domenicale
n.21 - 27 maggio 2006

Averne di Manzoni così!
Per chi crede che la letteratura sia un placido Occidente e non un torbido affare da Lord Jim con machete sotto il braccio consigliamo l’“antimeridiano” di un irregolare dal muso duro
di Davide Brullo


Nelle aule della letteratura italica d’oggidì c’è spazio solo per alcune categorie di cortigiani: i portaborse e quelli a cui si mette addosso la calzamaglia dei fuorilegge ma che alla fine sono una variante dei primi. Che poi ogni tanto accada un miracolo rientra nelle consuete clausule che confermano la regola.
Di fatto, per i pionieri, per i solitari navigatori transoceanici, per i Lord Jim non c’è posto. Alla meglio verranno detti “marginali” da quelli che credono che la letteratura sia un placido Occidente e non un perpetuo smarginare.
Conclusione aristotelica: ma se questi giocatori d’azzardo della scrittura, che transitano davvero un linguaggio “nuovo” e per sua natura ostico – non “illeggibile”, per carità, quella è un’altra stirpe di parassiti, che fa il verso ai bucanieri – vengono tenuti in gabbia o, alla peggio, sotto medioevali museruole, come facciamo a chiamare “letteratura” ciò che ci viene propinato nella ciotola ogni dì? Quella sarà semmai, per quanto ben condita, palese e papale variazione sul tema “cosa si aspetta il pubblico dalla letteratura”. Che poi non ci s’intenda neppure su quella pappa marcia, e non ci sia un critico che nella propria antologia-Panini da uno, nessuno centomila nomi faccia gli stessi nomi di un altro, dà il termometro dei nostri tempi.
Per noi la letteratura è quella cosa che a ogni passo sconfessa, deturpa, sfascia la “letteratura” come fino all’attimo prima era conosciuta. Ergo: ogni scrittore apre e chiude un sentiero nella boscaglia delle lettere. Ergo: noi siamo cresciuti con in zucca questa idea “avventurosa” della scrittura (Melville, Conrad, Faulkner, Céline, Kafka…) per cui lo scrittore, machete addosso, combatte una battaglia che è solo per lui, conquistando terre su cui non abiterà nessuno e per cause a cui non interessa nulla a nessuno. Per questo falangi di lettori lo adoreranno. Solo a un dio può saltare in testa di fare cose divine senza che nessuno si accorga della sua presenza.
Scova Kurtz e poi muori.

Verso l’assoluto e oltre
Per fortuna qualche apripista esiste ancora, benché bisogna scovarlo nei sottoscala o nelle estreme avanguardie. Per fortuna allora che Gian Ruggero Manzoni (1957), scrittore, poeta, inimitabile performer e anche pittore di fama non comune (la vita di Manzoni è costellata di talmente
tante cose e imprese e glorie da non poter essere sintetizzata in bigino: si consulti allora il sito ottimamente edificato, www.gianruggeromanzoni.it), testa nuda e tesa da monaco-soldato, ha ancora solida voce e petrosa penna per ricordarci ogni volta che la questione della scrittura è compito di una portata e una severità che non ammettono quaquaraqua. Eppure – e forse proprio per questo – non vedrete Manzoni in nessuna aurea antologia di questi tempi, né tantomeno a patteggiare al desco del clownesco duchetto di turno. Per fortuna allora che esistono i miracoli e che qualche anima affettuosa ha radunato in cofanetto quasi per intera l’opera poetica di Manzoni dal 1977 al 2003, con un titolo che parla già da sé, Scritture scelte (Edizioni del Bradipo, Lugo, RA, tel.0545/33493, 2 voll.), in cui cioè l’idea che ogni libro sia anche una “scrittura” – e il rimando è alla “scrittura” per antonomasia, quella biblica – ci dice come una possente caratura estetica non possa fare senza un’altrettanto caratteristica possanza etica.
Fa bene Andrea Ponso, che è il curatore del mastodontico lavoro, ma soprattutto uno dei poeti più recenti maggiormente riconosciuti in Italia, a rivelare la cima di Manzoni in «un’aspirazione all’assoluto senza precedenti, una volontà di vivere/scrivere il tutto davvero e grandiosamente fuori moda, scomoda e quasi irrisa nel nostro tempo». Una forza taurina e percotente – Manzoni è tipo che ama usare le parole come scudisci e che non ha tema di scottarsi con esse – che ulula in un amalgama lirico teatrale, spiccatamente orale (il sottotitolo esplicita «per la recitazione»: sul palco, sì, ma anche come eretica preghiera).
In soldoni, il primo volume è quello di maggior impatto, davvero persuadente.
E in cui emergono le due raccolte migliori: Il dolore (1991) e Le battane di bronzo (1994). Contornati da lavori “preparatori” e commentari esoterici già adamantini come La religione del suono (1985) e Il codice (1991). Dove risiede l’originalità di Manzoni? In una lingua tellurica, gonfia, postatomica. Tutte le sapienze vengono riassunte in una poesia che non rischia mai né le scempiaggini del “mitomodernismo” né l’ansia di un citazionismo illusorio e intellettualoide. Con bagliori eraclitei («Sai che il nome che si porta in questa vita influenza lo scorrere e il gesto, o tramanda le conseguenze in altre dimensioni e in futuri racconti») e pitture icastiche («Straripato dagli argini civili e imposti, da Trento, il ghiacciaio si avventa superbo, ignaro dei manufatti e delle persone. Egli era, ancora prima di noi, algido, rombante, mutevole, indefinito, e in bilico sulla laguna»).
Manzoni suggerisce e suggestiona – il criterio primo di ogni vivida poesia – ma senza piombare in insolubili arditezze, creando opere “prototipo” d’impossibile classificazione, ponendo al lettore il quesito di ogni vero scrittore: “o con me o contro di me”, il tempo dei patti è concluso.
Al di là di Pier Paolo Pasolini, la cui opera, spinosa, contorta, spaventa ancora i chierichetti di un illusorio “bello stilo”, l’unica fratellanza che si può riconoscere in Manzoni, pur con distanze, è quella con Giovanni Testori, altro grande reietto della nostra letteratura.

Tra Gengis Khan e Anna Comnena
Manzoni, in un gioco che sarebbe piaciuto a Borges, è stato il dattilografo di Marco Aurelio a Carnunto e il redattore della Storia segreta dei Mongoli, che narra di Temüjin, il futuro Gengis Khan; ha concesso il suo aiuto ad Anna Comnena per scrivere nell’Alessiade la storia del padre, ed è stato uno dei sopravvissuti al naufragio del São Tomé, le cui imprese raccontò al cronista di Goa Diego do Couto, alla fine del Cinquecento; esplorò la Malesia assieme al ligure Giovanni Battista Cerruti e convinse Pirrone dell’oscenità delle sue tesi, che lo avrebbero condotto dritto dritto contro una carrozza in marcia. Se esistessero come nell’antichità i maestri, a cui t’indirizzavi per sapere quella sapienza lì e non un’altra, e non certo quattro nozioni condivise in croce e tutti a ripetere la stessa filastrocca senza capirci nulla, vi consiglieremmo di suonare in massa al citofono di Manzoni.
Poeta singolarmente “lucreziano”, Manzoni ci manda in mente la figura eccentrica di certi decadenti francesi. Come Victor Segalen (1878-1919), ad esempio, poeta e archeologo che tra un’escursione in Polinesia e una in Cina, ebbe modo di scrivere quell’affatto bizzarro libro alla maniera orientale – e all’epoca sfortunatissimo – Stele (1912), fitto di una terminologia arcaica e colta, densa eppure immediata.
«Segalen esalta il momento insolito, il Misterioso che diventa luce all’incontro fra Reale ed Immaginario, ma lo sottopone al vaglio lucido ed ostinato della coscienza», scrisse Lucia Sollazzo nell’edizione italiana del libro (Guanda, Parma 1987): le stesse parole, a panorama mutato, si calchino su Manzoni.
D’altro stampo i rapporti, che pure ci sono, con l’ultraterreno Saint-John Perse (1887-1975), Nobel nel 1960 e uomo dalla vita assai avventurosa. Zoologo e geologo per passione – attraversò il deserto del Gobi e la Manciuria, fece diverse escursioni nelle zone più selvagge dell’Arizona, del Canada e dei Caraibi – scrisse una serie di memorabili poemi, da Anabase (1924) a Exil (1942) e Chronique (1960, che se come “fiato” e sapienza linguistica possono avvicinarsi ai lavori maggiori di Manzoni, per resa assolutamente icastica e astratta, quasi priva di contorni spaziotemporali, se ne distaccano.
Insomma, ci si augura che voi incrociate in qualche luogo da briganti Manzoni – i poeti, quando sono in vita, val la pena vederli, ci si renderà conto quanto raramente dietro un pessimo uomo alberghi una grande opera – vi convincerà lui meglio di noi sulla bontà del suo lavoro. Per ora vi basti la sua anima.

 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 5 luglio 2006

 

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