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Anna Achmatova.
Dopo la rivoluzione
di
Silvia Golfera
Il 1921 è il primo anno
veramente terribile per Achmatova, che fino alla morte di Stalin, nel
1953, si troverà comunque al centro della bufera. È l’anno in cui il
governo sovietico decide che è arrivato il momento di mettere in riga la
classe intellettuale del paese e in particolare quella di Pietrogrado,
troppo indipendente e gelosa del proprio prestigio. Naufraga l’illusione
di molti artisti e poeti che avevano creduto in un nuovo potere
dell’arte e che si erano messi spontaneamente al servizio della
Rivoluzione. Per moltissimi è l’esilio forzato, per alcuni la fine o il
silenzio. Gli altri capiscono come vanno ora le cose. E mettono la testa
a posto.
Il 7 agosto muore il poeta A. Blok, caposcuola dei simbolisti, che Anna
venera come artista e come russo. A lungo è circolata la leggenda, mai
smentita dagli interessati che in fondo ne beneficiavano, di una storia
d’amore fra i due. Leggenda che non si esaurirà neanche dopo la
pubblicazione dei Diari di Blok, nel 1930, da cui si evinceva
l’infondatezza di una simile diceria.
Blok muore di endocardite e di inedia, dopo che a lungo aveva chiesto al
governo sovietico di potersi curare all’estero. Poche settimane dopo uno
storico discorso in commemorazione di Puskin, in cui rivendicava
l’assoluta necessità, per il poeta, della libertà. “…La quiete e la
libertà ci vengono tolte” aveva gridato. Durante la cerimonia funebre
Anna mantiene una posizione statuaria, il viso impenetrabile, sulle
spalle uno scialle azzurro dono di Marina Cvetaeva. In occasione
dell’evento scrive “E oggi è la Madona di Smolénsk”:
“…
recammo alla Santa Madre di Dio
sulle braccia in un’argentea bara
il nostro sole spento nel martirio,
Alessandro, il puro cigno”
I pietroburghesi ormai la guardano con la rispettosa soggezione dovuta a
chi è colpito da innominabili sventure. Non hanno dubbi: è lei la vera
vedova di entrambi, Gumilëv e Blok.
A pochi anni dalla Rivoluzione, Pietrogrado è una città devastata:
“Tutte le vecchie insegne pietroburghesi erano ancora al loro posto, ma
dietro, oltre alla polvere, alle tenebre e al vuoto che si spalancava
non c’era nulla”, racconta Anna Achmatova della sua amata città. E
ancora: “Al Gostìnyj dvor (il cuore commerciale sul Névskij Prospékt) si
poteva cogliere un gran mazzo di fiori di campo”. La gente è allo
stremo. Si racconta che nel 1920 le donne non avessero avuto
mestruazioni.
Mentre Marina Cvetaeva sta per avviarsi all’esilio, Anna resta nella sua
Pietrogrado “da primordi di una civiltà…Gli oggetti si suddividevano in
due categorie: combustibili e non combustibili…Le ferite non si
rimarginavano a causa della carenza di grassi, bastava graffiarsi una
mano perché marcisse” scrive Sklovskij in “Viaggio sentimentale”.
Anna assume una figura spettrale, sottolineata dall’alta statura e dal
viso fortemente espressivo. I grandi occhi chiari, “il celebre profilo
con la testa alta e fiera”. Era stata soprannominata ‘la mummia che
porta sventura’.
Come molti intellettuali senza incarico, Anna non ha diritto
all’assegnazione di un alloggio, né alle magre razioni alimentari, che
venivano distribuite sul posto di lavoro. Diversamente si potevano
ottenere solo 220 grammi di pane al giorno, che non consentivano la
sopravvivenza. Peregrinerà da una stanza all’altra, ospite di amici e
conoscenti.
Anna Achmatova era sostanzialmente una persona ‘senza casa’. L’ultima
veramente sua era stata quella di Carskoe Selo, in cui aveva vissuto col
primo marito. Dopo solo sistemazioni provvisorie. Ma in quei tempi molti
condividevano la sua sorte. È un’epoca in cui il concetto stesso di casa
inizia a sfumare: “E l’allegra parola a casa/ oggi non è nota a nessuno”
scrive in una poesia.
Fra il 1918 e il 1920 vive in un locale del palazzo Šeremietev, che dà
sul canale della Fontanka, assieme al secondo marito, l’orientalista
Šilejko, assiriologo e poeta, che ha fama di originale. Šilejko era
stato, prima della Rivoluzione, l’istitutore dei figli del Conte
Šeremietev, e aveva iniziato la moglie alla storia e ai segreti del
Palazzo. Ma il matrimonio, definito dalla poetessa un ‘cupo equivoco’,
dura poco. Lui è così insopportabilmente geloso da costringerla a
bruciare la posta prima di aprirla. Fra l’ottobre del 1920 e l’autunno
dell’anno successivo, Anna trova un occupazione presso la biblioteca
della facoltà di agraria. Può lasciare la casa del marito e aspirare ad
un alloggio proprio. È l’occasione per lasciarlo, anche se un vero e
proprio divorzio ci fu solo nel 1926, quando Šilejko stesso decise di
formalizzare il legame con una nuova compagna a Mosca. Un amico racconta
che non potendo mai uscire sola, la prima volta che riuscì a sfuggire al
controllo del marito, Anna ne approfittò per lasciarlo definitivamente.
Più tardi vissero insieme ancora un anno, in via Serghiebskij 7, dove
lui si era rifugiato perché senza alloggio. Il rapporto fra i due rimase
comunque molto affettuoso fino al 1930, alla morte di Šilejko, consumato
dalla tubercolosi.
Anna continua ad occuparsi amorevolmente di Tapa, il San Bernardo dei
due, nonostante le infinite difficoltà materiali: “Caro Volodja, Tapa è
molto malato e domattina lo porto alla clinica veterinaria…Da quando sei
partito è diventato triste e ha una specie di rogna sulla schiena. Non
rattristarti troppo, forse tutto andrà per il meglio…Grazie per le
lettere…Non ho ancora ricevuto lo stipendio…Un bacio. Tua sorella Akuma”
gli scrive il 20 dicembre del 1924.
Seguire i domicili della Achmatova in questi anni è impresa disperata.
Prima le sono assegnate due stanze al numero 7 di via Chajkovskij, poi
otterrà ospitalità nella ‘Casa delle arti’, un ricovero per artisti e
scrittori voluto da Gorkij, che in questi anni si adopera molto, assieme
al ministro della cultura Lunaciarskij, per garantire l’esistenza di
intellettuali che diversamente sarebbero periti. La “Casa delle arti”
ebbe vita breve: dal 1920 all’autunno del 1922, chiusa per ordine di
Zinov’ev. Si trovava sulla prospettiva Nevskij, all’angolo sul fiume
Moika, in un edificio che era stato sede della Banca Centrale e, al
piano superiore, dimora del grande mercante Eliseev, il miglior
gastronomo di Pietrogrado. Gli ospiti, per riscaldarsi, bruciano, in
stufe arrangiate, gli incartamenti della banca. La stanza di Anna
Achmatova ha un caminetto di marmo.
“Non c’è casa lungo la Fontanka dove non abbia abitato” dirà più tardi,
riferendosi a quel periodo.
Il potere sovietico la emargina: “non ha spirito di classe” “costituisce
un anacronismo” “è un’emigrante interna”, si dice di lei sulla stampa
ufficiale.
Ma nel 1922 ad attaccarla sulla Pravda è Trotskij in persona: lei e
Cvetaeva sono accusate di essere rimaste ancorate ad una piccola cerchia
di retrivi nostalgici del passato, che non trova posto nel nuovo mondo
della rivoluzione. Anna, spaventata, si rivolge a Nikolaj Punin, che
abita anche lui al palazzo della Fontanka, ma in un’ala diversa rispetto
a quella in cui aveva vissuto con Šilejko. Gli chiede di intervenire in
suo favore.
In questo momento Punin è un uomo potente, guida e animatore
dell’avanguardia artistica cittadina, e non si tira indietro. Con abile
argomentazione ribadisce la posizione di Trotskij, ma ne rovescia la
prospettiva. Sosterrà che proprio l’isolamento in cui vive la poetessa
ne ha fatto una vittima ed una proscritta. Non sarebbe successo se
Achmatova avesse potuto contare sull’appoggio di influenti personaggi
come Lunaciarskij.
Anna, da parte sua, vuole capire la società in cui vive e vede in Punin
colui che può aiutarla. Lui conosce ed apprezza il passato di lei,
vengono dalla stessa storia, animatori entrambi, un tempo, della rivista
Apollon. Fra i due, che pure si conoscevano dall’adolescenza, quando
frequentavano il Liceo a Carskoe Selo, si accende un’intensa relazione,
che culmina nel 1926 quando Anna si trasferisce a casa di lui, che
continua tuttavia, per la crisi degli alloggi, a convivere con la prima
moglie, Anna Arens e la figlia Ira.
Nel diario di Punin, in questi anni, sono molte le annotazioni su
Achmatova, di cui ammira il sentimento forte e integro dell’esistenza,
il viso fiero e maestoso in cui ritrova quello di sua madre e di una
rediviva Giunone. “Sotto tutti i lampioni della città che hai cantato
respira per me il tuo viso” scrive. Separarsi è per loro sempre più
difficile, ma altrettanto doloroso è per Punin il distacco che si
consuma con la moglie.
Quando Anna va a vivere definitivamente alla Fontanka l’appartamento dei
Punin è già molto affollato e per lei non c’è una stanza vera e propria.
È costretta a dormire nello studio di lui. Con loro abitano oltre alla
moglie e alla figlia, diversi altri parenti. Nel 1929 li raggiunge anche
Lev Gumilëv, che fino a quel momento ha vissuto con i nonni e la zia
paterni. Saranno proprio le tensioni domestiche, i difficili equilibri
che si intrecciano, i continui dissapori per le ristrettezze
finanziarie, a minare il delicato rapporto fra due personalità così
complesse e dirompenti.
Non so se questa storia abbia qualche lettore in rete. E se così fosse
mi piacerebbe conversare con lui. Certo raccontare una biografia tanto
complessa risulta assai impegnativo.
Achmatova e Punin resteranno insieme sedici anni. La vita comune, la
separazione, saranno materia della prossima “puntata”.
golferasi@yahoo.it
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