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Il giustacuore di Giovanna d’Arco
di Antonio Castronuovo
 

Giovanna d'ArcoIl 24 maggio 1431 i giudici del tribunale ecclesiastico appositamente costituito a Rouen condussero Giovanna d’Arco nel cimitero dell’abbazia cittadina di Saint-Ouen e le mostrarono la catasta di un rogo. Era un atto estremo per indurla a piegarsi all’autorità della Chiesa. Il processo era iniziato tre mesi prima; tre mesi di interrogatori per giungere a svelare che la giovane era prigioniera del diavolo e alterata nel sangue cristiano. Giovanna era tenuta in ceppi e catene nel castello della città. Aveva resistito a ogni cosa: angustie, digiuni e febbri. Quel giorno fu il crollo: alla vista delle cascine accatastate la sua resistenza franò. Aveva 18 anni quando dichiarò di ubbidire alla volontà della Chiesa; erano solo 17 quando nel 1429 aveva tolto Orléans agli Inglesi – e via via molte altre roccaforti nel territorio francese, prima di essere acchiappata dai borgognoni e venduta al nemico. La sentenza fu mitigata e l’accusata condannata «alla prigione perpetua, al pane del dolore e all’acqua della tristezza, affinché possa piangere i suoi peccati senza più commetterne».
Passano pochi giorni e Giovanna la combina grossa: nella sua cella si veste da maschio. Lo aveva fatto fin dall’inizio dell’avventura: aveva indossato abiti da uomo e non se li era più tolti. Il 23 maggio le erano state lette le dodici deliberazioni dei teologi e degli esperti di diritto canonico sugli errori compiuti e sulle deviazioni intraprese. La quinta deliberazione ci svela l’aspetto che Giovanna aveva assunto: tunica corta, giustacuore, calzari alti, capelli tagliati molto corti sulle orecchie. I giudici sottolineano che «non è rimasto nulla sulla tua persona che riveli il sesso al quale appartieni», e in questa guisa Giovanna aveva osato accogliere il sacramento dell’Eucaristia. Negli ultimi giorni aveva accettato di indossare vestiti femminili, ma era poi tornata sui suoi passi. Inutile registrare che la trasformazione dei comuni caratteri fenotipici è sempre un elemento di ribellione: anche nel Novecento erano giudicati ribelli i maschi coi capelli lunghi e le donne coi capelli cortissimi. In parte, lo sono tuttora.
Dallo spioncino della cella, una guardia del castello la vide così vestita. I giudici furono subito avvertiti. Il tribunale si riunì d’urgenza e Giovanna, giudicata recidiva, fu definitivamente condannata come “relapsa” ed eretica. Ancora un giorno e il 30 maggio, sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen, finì nel fuoco. Oggi, una lapide e una statua ricordano il punto in cui esalò l’anima. È sufficiente compiere poche decine di metri, imboccare la Rue de la Pie e scoprire, al numero 4, la casa dove nel 1606 nacque Corneille, che mai nelle sue tragedie prese Giovanna a protagonista, come invece aveva fatto Shakespeare, appena quindici anni prima, nell’Enrico VI. Forse, all’inizio del Seicento, Giovanna non era per la Francia una questione, non certo come lo fu dopo la pubblicazione dei documenti del processo, le minute delle udienze condotte a Rouen tra febbraio e maggio 1431. Documenti di straordinaria bellezza storica, se così si può chiamare il concrescere di un dramma umano che sfocia in un rogo. Ma documenti, anche, che costituiscono la dissimulata cartella clinica di un caso psichiatrico singolarmente intrecciatosi alla storia.
Caso che inizia proprio dall’abito maschile: ragione formale della definitiva condanna di Giovanna, ma ragione – anche – di un progetto inclemente: sembra che alcuni giudici avessero espresso la necessità che bruciasse per primo l’abito e che a quel punto il carnefice spegnesse il fuoco, affinché il corpo della condannata, per quanto già martoriato, rimanesse nudo e contrastasse così i dubbi del popolo, che avrebbe finalmente potuto vedere i segreti che dovevano essere di una donna. Questa ulteriore crudeltà non fu messa in atto, alla condannata fu risparmiata una sofferenza in più, ma l’episodio è importante per svelare come Giovanna avesse completamente ribaltato la sua personalità e fino a che punto ciò che i teologi avevano scritto era vero: «Non è rimasto nulla sulla tua persona che riveli il sesso al quale appartieni».
Ma da dove era giunto l’uzzolo di vestirsi da uomo? Nell’udienza del 27 febbraio un giudice le aveva chiesto se per caso era stato Dio a ordinarle di vestire abiti maschili, e Giovanna aveva ambiguamente risposto: «L’abito non vuol dire niente; è cosa secondaria. Nessuno al mondo mi ha ordinato di vestirmi da uomo. Io non ho preso quest’abito, non ho fatto nulla se non per il consiglio di Dio e degli angeli». Ma se anche il consiglio veniva da Dio, Giovanna non ne aveva fatto una questione di rigore o di ascetismo, dato che nel vestiario non aveva disdegnato l’abbondanza dei particolari e di un certo sfarzo militare.
Poteva forse trattarsi di un modo per nascondere le fattezze femminili con cui magari aveva un rapporto negativo, il che potrebbe far capo a un complesso di inibizione sessuale. Ma non sembra la strada giusta. Tutte le volte che Giovanna, durante il processo, fa riferimento al ruolo della donna nella società, usa un tono spregiativo: le donne sono coloro che fanno i lavori di casa, sono quelle che portano le sottane. Quando risponderà al sedicesimo articolo dei settanta capi di accusa, dirà che, esortata più volte a vestirsi da donna e a dedicarsi a lavori confacenti alle donne, ella aveva sempre rifiutato: «Quanto ai lavori donneschi, mi pare che non manchino le donne che vi si dedichino». Dunque l’abito maschile aveva avuto per lei una funzione di contestazione del ruolo sociale cui all’epoca la donna era costretta, una sorta di precoce “antagonismo”.
E tuttavia il risultato fu quello del travestitismo, che nella donna, dicono gli psichiatri, è sempre simulativo (mentre nel maschio che si traveste da donna le implicazioni sono più radicalmente sessuali). Giovanna simulava il maschio, specificamente il soldato. Voleva essere uno di loro, e anche di più: un condottiero. Come poi fu. In uno degli estremi incontri coi giudici, disse che avrebbe ripreso l’abito femminile solo «quando la mia missione sarà compiuta». Ma se anche la sua missione era stata compiuta (liberare parte della Francia occupata dagli Inglesi e spianare la via all’incoronazione di Carlo VII, monarca legittimo), gli abiti maschili non li tolse più.
 

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Il caso assume contorni interessanti. Soprattutto se volgiamo di nuovo l’attenzione alla dichiarazione su chi le aveva consigliato di vestire abiti maschili, cioè Dio e gli angeli. Non è la prima volta che, durante il processo, Giovanna parla di queste sue chiacchierate con entità divine. Si tratta delle famose Voci che, con inquietante insistenza, l’attorniano: «Non passa giorno che io non senta la mia Voce e ne ho ben bisogno. Mai che io le ho chiesto altra ricompensa che non fosse la salute della mia anima».
Durante le udienze il fenomeno salta in primo piano. Apprendiamo che le Voci sono apparse molto presto: «All’epoca dei miei tredici anni sentii una Voce mandatami da Dio per guidare le mie azioni. La prima volta ho avuto molta paura. La Voce si fece sentire a mezzogiorno, eravamo d’estate. Nel giardino di mio padre». La Voce è sempre accompagnata da una luce, un forte bagliore, che proviene dalla stessa parte del suono. E non è possibile sbagliare: se anche voce e luce provengono di lato sono ben udibili e visibili. Cosa diceva la Voce? «mi diceva che io, Giovanna, dovevo partire e andare in Francia. La Voce mi diceva di venire in Francia e io non potevo più rimanere dov’ero. La Voce mi diceva di liberare Orléans assediata. Le risposi che ero una ragazza, che non sapevo né andare a cavallo né fare la guerra».
La terza udienza, del 24 febbraio 1431, aggiunge dettagli. I giudici chiedono quando e come Giovanna ha sentito la Voce il giorno prima, ed ella risponde di averla sentita tre volte: mattina, pomeriggio e sera, all’ora dell’Avemaria, «ma la sento molto più spesso di quanto non dica». Segue una descrizione perfetta del sintomo: quando la Voce era giunta Giovanna dormiva e ne fu svegliata; non era chiaro se la Voce era nella cella, ma certo nel castello; le aveva reso grazie inginocchiandosi e implorando aiuto. La Voce le aveva suggerito di rispondere ai giudici con ardimento.
La questione si fa ancor più schietta alla quarta udienza, il 27 febbraio, quando le viene chiesto di chi fosse quella Voce: di un angelo? di un santo? di Dio senza intermediari? Giovanna non esita: «Erano le voci di santa Caterina e di santa Margherita, che hanno il capo cinto di belle corone, ornate e preziose». I giudici chiedono come fa a essere sicura che si tratti proprio di quelle due sante, come fa a distinguerle bene l’una dall’altra, e Giovanna non ha dubbi: «Certo che le distinguo bene! dal modo in cui mi salutano: sono sette anni che mi seguono e mi governano. Le riconosco anche perché loro stesse si presentano a me».
Ma quando le domande insistono su particolari realistici, Giovanna vacilla. Le sante sono vestite con abiti uguali? «non vi dirò nient’altro per adesso, non ne ho il permesso». Le Voci dimostrano la stessa età? «non posso dirlo». Le sante parlano tutt’e due insieme o una dopo l’altra? «non posso dirvelo». Quale delle due è apparsa per prima? «non le ho certo riconosciute subito!». La storia delle Voci si fa ancor più ambigua quando le viene chiesto qual è stata la prima apparizione, e Giovanna, pur avendo parlato fino a quel momento delle due sante, modifica il tiro e risponde che il primo ad apparire, quando aveva tredici anni, era stato San Michele, che non era solo ma circondato da angeli del cielo: «Li ho visti con i miei occhi, visti come vedo voi tutti. Quando mi lasciavano, piangevo e avrei voluto che mi portassero via con loro». Che aspetto aveva san Michele? «non mi è permesso di rispondere».
La quinta udienza arreca altre notizie, altri barcollamenti e – per noi – altre perplessità. Le viene chiesto se vede le sante sempre con lo stesso vestito: «Le vedo sempre nello stesso modo, hanno il capo cinto di ricche corone. Quanto ai vestiti non ne so niente». Come fa allora a distinguere se quel che vede è uomo o donna? «Li riconosco dalle voci e dalle rivelazioni che mi fanno. So solo una cosa: che tutto questo accade per volere di Dio». Quale è la figura che appare? «Il viso». I capelli sono lunghi? «Non ne so proprio niente. Non so se ci sono anche braccia o altre membra. Parlano molto bene, con gentilezza, e io le capisco benissimo». Le domande che seguono fanno traballare l’intera impalcatura mentale di Giovanna. Il giudice chiede come fanno le sante a parlare se non hanno né braccia né gambe e Giovanna, in un attimo d’incertezza, si cautela dicendo «mi rimetto a Dio», ma poi procura un particolare che la fa scivolare: «La voce è bella, dolce e semplice, parla la lingua di Francia...». Dunque santa Margherita non parla l’inglese? sbotta un giudice, e Giovanna ribatte con un argomento scialbo e inefficace: «Perchè dovrebbe parlare inglese se non parteggia per gli inglesi?». Noi ci chiediamo: forse che i santi che appaiono devono parlare la lingua della mente cui appaiono? e soprattutto: devono necessariamente abdicare dalla lingua del nemico? Non c’è bisogno di essere illuministi per capire che in questo punto il castello di Giovanna subisce un cedimento.
Infatti, le Voci diventano alla fine il suo disperato appiglio: «Mi sono consultata con le mie Voci per sapere se dovevo sottomettermi alla Chiesa, visto che voi uomini di Chiesa me lo chiedevate con tanta insistenza e loro mi hanno risposto che, se volevo che Nostro Signore continuasse a sostenermi, dovevo rimettermi sempre e in tutto a Lui».
 

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Cosa sono insomma queste Voci? Evidentemente ciò che in psichiatria si chiamano allucinazioni, vale a dire percezioni di ciò che non esiste e tuttavia è ritenuto reale: Giovanna ha delle tipiche allucinazioni visive ed acustiche. L’allucinazione sconvolge i limiti di appartenenza e separazione, dà vita a una rappresentazione staccata dal soggetto che la rappresenta, conduce infine a una situazione di scissione, di perdita cioè dei normali nessi associativi. E scrivendo questo termine (scissione) sappiamo di trovarci già nell’area delle psicosi. Giovanna, in altre parole, soffriva di un disturbo psicotico, probabilmente schizofrenico. Non è dato sapere quanto grave.
Ma non basta, perché i dati che abbiamo narrato sono soltanto una piccola parte di quelli che emergono dal processo: c’è la questione dell’alimentazione (che vira verso l’anoressia), la questione dell’attenzione feticistica a certi oggetti (stendardi, una spada magica, le lance benedette, un elmo speciale con “una cosa tonda” sulla nuca), la questione della caparbietà (per cui, ad ogni apertura di udienza, Giovanna si fa aggressiva e nega di giurare), la questione infine della tendenza a tardare le risposte (spesso si salva dichiarando che risponderà «entro otto giorni», senza che si capisca il perché di tale dilazione). È tale la corona di sintomi, che gli stessi giudici ne sono sopraffatti, e alla terza udienza le chiedono se è sicura di trovarsi in stato di grazia. Giovanna risponde: «Se non lo sono, che Dio mi ci metta; se lo sono, che Dio mi ci mantenga!». Probabilmente non lo era, e Dio non l’aiuto a mettercisi: pagò il prezzo altissimo che chi ha disturbi della personalità è chiamato a pagare. E non fu solo il prezzo della vita.
Se la Chiesa la mandò al rogo in quanto prigioniera del diavolo (e con tutte quelle Voci il giudizio – dal punto di vista di chi al diavolo ci crede – non era sbagliato), presto rivide la sua posizione e la Pulzella fu rivalutata già vent’anni dopo la morte, fino alla canonizzazione nei primi decenni del Novecento, per non parlare dell’onore in Francia di una festività annuale tutta per lei. Ma le ossessioni e allucinazioni di Giovanna sono anche alla base dell’altro giudizio, ben più inappellabile: quello degli Illuministi. Nel 1738 Voltaire scrisse La Pulzella, poema eroicomico oggi caduto in oblio, ma molto ammirato all’epoca. La figura di Giovanna vi viene ridicolizzata: ella vi appare come una contadinotta gonfia di uzzoli e di umori, punta da desideri erotici cui costantemente rinuncia dovendo fanaticamente portare a termine la sua santa impresa, attorniata da un’armata di ubriaconi. La grande Enciclopedia di Diderot e D’Alambert chiude pochi anni dopo il cerchio: Giovanna vi è descritta come una mente condizionabile, “un’idiota” manovrata abilmente dai sostenitori di Carlo VII, il monarca che ella aveva rimesso sul trono di Francia quando la nazione rischiava la conquista – militare e dinastica – da parte degli Inglesi. Tale immagine di Giovanna regge, non a caso, nelle interpretazioni positivistiche, come quella di Anatole France, che in Vita di Giovanna d’Arco del 1908, ridimensiona la Pulzella a strumento in mano ai partigiani di Carlo VII e a una fazione di ecclesiastici.
Ancor più ostile quel che ebbe a pensare di lei Simone Weil, acuta intelligenza gnostica. In uno dei suoi cahiers del 1941 troviamo questa nota: «Differenza dello spirito della Bhagavad Gita e quello della leggenda di Giovanna d’Arco, differenza capitale: egli fa la guerra sebbene ispirato da Dio, ella fa la guerra perché ispirata da Dio». La Weil era anima radicalmente pacifista, e mai avrebbe potuto comprendere le ragioni di una persona che si mette in guerra in quanto spronata da Dio. Se gli Illuministi avevano considerato la Pulzella una giovane alterata, la Weil fa di più e la colloca tra i soggetti più pericolosi che ci siano: quelli che fanno la guerra in nome di Dio. Anche se poi Giovanna non aveva ammazzato nessuno, particolare che la Weil dimentica, forse perché non conosceva i documenti processuali. Nella quarta udienza Giovanna dichiara infatti che portava sempre lei lo stendardo della compagnia in armi «perché non volevo uccidere gente: non ho mai ucciso nessuno». Come a dire: una combattente pacifica. E ciò aumenta l’oscurità della sua follia ispirata.

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La lettura dei documenti richiama subito alla memoria un altro famoso processo: quello a Giordano Bruno, sfociato nel rogo romano di Campo de’ Fiori nel febbraio 1600. Centosettant’anni di tempo tra l’uno e l’altro, ma anche due storie completamente diverse: Bruno va al rogo convinto che sia la ragione e non la fede a poter svelare il senso dell’universo, Giovanna ci va convinta che sia corretto ascoltare le Voci che la visitano. Come a dire: il rogo di un filosofo e quello di un’allucinata. L’effetto è lo stesso, cambiano i modi: Bruno viene affidato dopo la condanna al braccio secolare, per Giovanna ciò nemmeno accade: dopo la lettura della sentenza del tribunale ecclesiastico, il 30 maggio 1431, è direttamente consegnata al boia e condotta al rogo, senza alcuna sentenza di tribunale laico. Ma non basta: per evitare che il boia la graziasse con un colpo di pugnale evitandole le fiamme, era stata innalzata nella piazza di Rouen una pira altissima, in modo che il fuoco dovesse essere appiccato alle fascine più basse, senza che nessuno potesse avvicinarsi alla condannata. Centosettanta anni che, in questi minuscoli particolari, pesano tutti.
I documenti processuali di Giovanna d’Arco gettano in grande turbamento: non se ne esce come prima, ma angosciati dal concrescere rapidissimo degli eventi, segnati dalla personalità ossessiva di Giovanna, dal suo andare incontro alla morte come a un destino incontrastabile, guidata dalle Voci che di continuo emergono dagli interrogatori e che sembrano fare di tutto per non aiutarla. Se Voltaire avesse letto questi documenti non avrebbe certo cambiato idea sulla Pulzella ma sarebbe stato forse colto da un senso di pietà, che invece gli difettò nella piccante ironia del suo poema. Come difettò a chi la mandò al rogo. Ma qui era questione diversa: si trattava dell’eterna paura che i monoteismi nutrono per la donna, specialmente se portatrice di visioni, estasi e fantasmi.

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 15 maggio 2006

 

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