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Le banlieues
francesi: una crisi di ‘rappresentazione’
di
Simone Morgagni
«Vous en avez assez de cette bande de racaille, on va vous en
débarrasser»[1].
Così ad Argenteuil (Ile de France), riferendosi ad un gruppo di giovani
di colore che lo aveva contestato, il ministro dell’interno francese
disse ad un suo sostenitore affacciato alla finestra. Era l’inizio di
tre settimane di scontri e vandalismi; la più grave crisi d’ordine
pubblico che la Francia ricordi da decenni.
Oggi, che la violenza è rientrata nella norma[2],
è possibile tentare una prima spiegazione ragionata dei motivi che hanno
causato la sollevazione, cercando di individuarne cause e peculiarità.
Innanzitutto la situazione francese non può essere disgiunta dal passato
coloniale del paese[3],
ormai edulcorato e rimosso dalla sfera politica e dalla maggioranza
della società, ma pronto a ricomparire appena ci si lascia alle spalle
il périphérique parigino. La Francia ha, come è noto, un passato
d’immigrazione coloniale che data già più di un secolo e oggi le
minoranze etniche e religiose sono una componente fondamentale della
società, rilevante per numero e capacità; non considerate tali –
tuttavia – a livello sociale ed economico. Il profilo dei giovani che
hanno vandalizzato le periferie francesi nel mese di novembre scorso
stupisce per l’effettiva assenza di obiettivi da raggiungere con la
propria azione. Si trattava piuttosto di bande di giovani che avevano
come scopo unico la distruzione, lo smantellamento di ogni simbolo
sociale, dai commissariati di polizia, agli asili infantili, sino agli
autobus notturni della Ratp. Quale chiave di lettura utilizzare quindi
per cercare di comprendere questa violenza fine a sé stessa che tanto
scalpore ha fatto sia in Francia che nel resto del mondo attraverso
reportage a dir poco surreali trasmessi dalle televisioni di tutto
il pianeta?
Credo che il punto principale sia da cercare in una carenza identitaria
propria dei giovani figli di immigrati che vivono in Francia oggi. I
genitori, quando sono venuti a lavorare in questo paese, si trovavano in
una condizione opposta; erano ricercati e ben remunerati per via di una
carenza strutturale di manodopera. Si trovavano dunque rapidamente in
grado di ricongiungersi alle proprie famiglie, assicurando loro un buon
livello di vita in quartieri popolari di certo, ma abitati dalla classe
media, a prescindere dal colore della pelle o dalla fede religiosa. Con
il passare degli anni ed il venir meno di una politica statale dettata
dalla ‘discriminazione positiva’ nell’assegnamento degli alloggi sociali
(politica che manteneva volontariamente una diversità all’interno di
tali quartieri), essi sono lentamente divenuti feudo di questa o quella
etnia, di una religione o dell’altra, perdendo progressivamente il
carattere multiculturale attorno a cui erano nati per assumere
maggiormente le sembianze e le forme del ghetto. Ma questa
ghettizzazione spaziale e urbana rischia di diventare una ghettizzazione
mentale.
Il cambiamento, pubblicamente mai annunciato, deriva dalla constatazione
governativa del fallimento della strategia di assimilazione culturale
che era stata preventivata nei confronti dei migranti. A questa politica
tuttavia, non ne è mai seguita una di integrazione, quanto piuttosto,
l’elaborazione e l’applicazione del concetto che negli Stati Uniti è
definito Color Blindness[4],
ovvero la cecità istituzionale di fronte al colore della pelle così come
delle convinzioni religiose, nel tentativo di equiparare il trattamento
nei confronti di tutti i cittadini. Nella realtà tale nuova politica ha
creato nuovi problemi sociali, che solo oggi hanno saputo guadagnare
visibilità mediatica.
I figli degli immigrati sono per il diritto francese cittadini della
Repubblica a tutti gli effetti. Il diritto di suolo, in vigore in
Francia fino a pochi anni fa, ha fatto perdere loro la nazionalità
d’origine dei genitori, pur senza sostituirne una nuova, se non in
termini esclusivamente ufficiali. I figli degli immigrati nati
all’interno dell’esagono sono cittadini francesi, vivono all’interno di
una cultura ben codificata che non li considera membri a tutti gli
effetti, se non in termini statistici o estremamente aleatori. Il
possedere i documenti francesi non significa a priori che essi verranno
trattati nel medesimo modo di un bianco sul posto di lavoro[5],
in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine e
nell’assegnamento di sussidi e aiuti. Si crea dunque un’ambivalenza di
rapporti tra la società e l’individuo che si sente allo stesso tempo
accolto e respinto, che si ritrova ad essere francese, ma senza origine;
teso quindi tra la rassicurazione di una cittadinanza riconosciuta e
l’effettiva mancanza di un’identità. Non è raro allora sentire giovani
francesi figli di immigrati non sapere come definirsi e vederli
ripiegare su definizioni del tipo “francese di origine algerina”
oppure semplicemente “di origine algerina”, rifiutando a tutto
tondo il proprio status di cittadino della Repubblica. La mancanza di
identità e il trattamento discriminatorio riservato da gran parte della
società nei confronti di questi giovani è il vero problema alla base
degli atti di violenza del passato autunno e spiega come essa si sia
rivolta non soltanto ai simboli governativi, ma più in generale ai
simboli sociali degli stessi quartieri in cui i giovani vivono[6].
La politica dell’attuale governo sembra non voler riconoscere tuttavia
la situazione e se, durante i giorni delle violenze, l’unica risposta è
stata la repressione poliziesca[7],
il passare del tempo non sembra evidenziare piani a lungo termine per
riequilibrare la situazione, facendo sì che il non riconoscimento di una
diversità effettiva possa in futuro portare ad ulteriori scoppi
improvvisi di violenza. La politica di “tolérance zero” promossa
dal ministro Sarkozy inoltre, non può che aumentare gli effetti di
questa discriminazione latente[8].
Alla luce di tale analisi, Etienne Balibar ritiene che si tratti di un
tentativo di «etnicizzare» lo scontro e, quindi, di una policy
definibile come «apartheid» il cui principale scopo consiste nella
privazione di sostanziali diritti di cittadinanza. Una mancata
discriminazione positiva che si faccia carico delle differenze esistenti
nella realtà tra i vari cittadini francesi e un effettivo racial
profiling[9],
attuato sia dalle forze dell’ordine che dai semplici cittadini, ha leso
i rapporti tra la società e le minoranze etniche, creando un attrito che
ancora questo paese si ostina a non vedere. Ogni discorso del primo
ministro e del governo più in generale si è infatti soffermato sul
ristabilimento dell’ordine. Il presidente Chirac si è rivolto ai “figli
e alle figlie della Francia”, senza riconoscere il loro effettivo
status di figli di seconda fascia, senza preoccuparsi di creare per loro
quella disparità di trattamento che pare necessaria - almeno
inizialmente - per cancellare le diversità che li segna dalla nascita.
Se la situazione attuale pare più calma, con qualche centinaio di
milioni di euro in fondi di solidarietà stanziati per le periferie e le
automobili in fiamme lontane ormai dai telegiornali internazionali, la
realtà è un effettivo impasse. Non pare fuori luogo pensare che
la rabbia non potrà altro che accumularsi ed esplodere nuovamente se non
avverranno cambiamenti strutturali in campo sociale. Rispetto a questa
prospettiva, è opportuno segnalare la posizione sostenuta durante i
giorni della rivolta dal filosofo francese di origine polacca Alain
Finkielkraut, la cui analisi rovescia l’idea della genesi socio-politica
per sostenere che i moti fossero connotati, intrinsecamente, da un odio
di natura etnico-razziale proprio dei giovani neri o arabi.
Nell’affermare il carattere sostanzialmente vandalico dei tumulti,
Finkielkraut ritiene che si debba abbandonare la «retorica
dell’antirazzismo» per riaffermare il valore dello Stato repubblicano e
dell’educazione laica[10].
Nell’attuale contesto, comunque, lo Stato non può oggi limitarsi
esclusivamente al riconoscimento della parità tra i suoi cittadini, ma
dovrebbe caricarsi sulle spalle anche il costo sociale per la creazione
effettiva di questa parità. Si dovranno quindi aprire i tradizionali
santuari della società quali le scuole d’élite, i partiti politici, o le
istituzioni pubbliche ai migliori tra i nuovi cittadini come suggerisce
Michael Ignatieff[11];
concedere loro un’integrazione non limitata alle fasce più basse della
società, ma dare la possibilità di scalare realmente la piramide
sociale. Cominciare in breve a dichiarare e agire in modo tale da
mostrare come, per paradosso, nei nostri giorni – entro un contesto
inevitabilmente multiculturale – la parità di condizione debba essere
raggiunta dopo una fase di evidente disparità di trattamento. Tutto ciò
perché in fondo, come rimarca con semplicità disarmante il sempre acuto
Marc Augé[12], “I giovani protagonisti della rivolta
delle banlieues sono dei francesi”. Dunque il messaggio ultimo e più
chiaro che la rivolta trasmette è: “riconosceteci come francesi”. Il
problema non è affatto, come è stato affermato da più parti, «quello
dell’integrazione culturale e tanto meno quello del conflitto tra
culture». Quel che chiedono i ‘rivoltosi’ è visibilità e integrazione
sociale, possibilità di riuscire, di avere la loro chance nelle varie
sfere della scuola, del lavoro (del resto in questo consiste l’ideale
repubblicano, nel dare a ciascuno la sua possibilità). Il problema
rimanda ad una crisi di rappresentazione e di integrazione sociale.
Con le parole di Balibar, si tratta di una «richiesta di cittadinanza»,
non di un movimento organizzato e rappresentativo. I giovani delle
banlieues non possono essere considerati un’avanguardia, quanto il
sintomo di una situazione di disagio che attiene direttamente alla crisi
dei diritti di cittadinanza. Quindi, a differenza di quanto sostenuto da
Finkielkraut, Balibar ritiene che i moti siano espressione non dell’odio
verso la repubblica francese e della separazione dalla comunità, ma del
desiderio di appropriarsi del linguaggio e dell’ideologia della
repubblica per chiedere eguaglianza.
[1]
“Ne avete abbastanza di tutta questa plebaglia,
verremo a liberarvene”.
[2]
Non bisogna infatti dimenticare come la violenza nelle
periferie francesi sia norma comune e come ogni notte si svolgano
numerosi scontri e vadano a fuoco circa 100 automobili (Dati: Ministère
de l’Intérieur).
[3]
Questa tesi che, per comprendere la rivolta parigina
rinvia ad un colonialismo mai risolto, è stata recentemente rilanciata –
e assai discussa – dopo la pubblicazione del volume Fracture coloniale,
edito da La Découverte, sotto la direzione di un gruppo di storici:
Pascal Blanchard, Nicolas Bancel, Sandrine Lemaire e Oliver Barlet.
[4]
Vedi al riguardo Neil Gotanda, «La nostra costituzione
è cieca rispetto al colore»: una critica, in Kendall Thomas e
Gianfrancesco Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical
Race Theory negli Stati Uniti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 27-69.
[5]
Illuminanti sono in questo caso le statistiche
riportate, in un recente contributo, da Rino Genovese, che ci mostrano
le enormi differenze che esistono ad esempio tra figli di immigrati di
origine caucasica e gruppi etnici differenti: R. Genovese, Il grido
delle banlieus, «Aprile», novembre 2005, pp. 1-2.
[6]
Per una disamina delle forme di attacco ai simboli,
incentrata su un’attenta interpretazione dei ‘segni’ si veda M. Augè,
L’incendio di Parigi, «Micromega», n. 7, 2005, pp. 187-195, p. 189-190.
[7]
Tramite anche la dichiarazione dello stato d’assedio
ed il coprifuoco per i minori all’interno di certi comuni, riproposto
grazie ad una vecchia legge del 1955 risalente alla guerra d’Algeria che
permette perquisizioni senza mandato giudiziario e sanzioni giudiziarie
sbrigative. La legge è stata poi prorogata per i tre mesi successivi,
tra ampie proteste. Lo stato d’assedio è terminato solamente il 4
gennaio.
[8]
E. Balibar, Alle frontiere dell'apartheid. Intervista
a Etienne Balibar, Cittadini negati, da «il Manifesto» del 22 novembre
2005, reperibile su
http://www.meltingpot.org/articolo6340.html
[9]
Molti giovani delle banlieues,
intervistati durante i giorni della rivolta e non solo, si
lamentavano delle attenzioni che la polizia riservava loro in virtù
probabilmente più del loro status razziale che di altro.
[10]
La presa di posizione di Finkielkraut ha suscitato non
poche polemiche. Dopo aver rilasciato un’intervista al quotidiano
israeliano «Haaretz» il 18 novembre scorso, egli ha in seguito tentato
una parziale rettifica su «Le Monde» del 24 novembre. Si riporta qui la
citazione originale ripresa da «Le Monde»: «on voudrait réduire les
émeutes des banlieues à leur dimension sociale, y voir une révolte de
jeunes contre la discrimination et le chômage. Le problème est que la
plupart sont noirs ou arabes, avec une identité musulmane. En France, il
y a d'autres émigrants en situation difficile. Ils ne participent pas
aux émeutes. Il est clair que nous avons affaire à une révolte à
caractère ethnico-religieux» (trad. «si vorrebbero ridurre le sommosse
delle banlieues alla loro dimensione sociale, vedervi quindi una rivolta
dei giovani contro la discriminazione e la disoccupazione. Il problema è
che la maggior parte di questi sono neri od arabi, con un’identità
mussulmana. In Francia ci sono altri immigrati in situazione difficile.
Non partecipano alle sommosse. È chiaro che abbiamo a che fare con una
rivolta di carattere etnico-religioso»).
Per completezza, segnaliamo come queste interviste abbiano provocato un
forte movimento di opinione in Francia e come Finkielkraut abbia dovuto
porgere pubbliche scuse già ai primi dello scorso dicembre, incolpando
il traduttore del quotidiano israeliano, che avrebbe travisato le sue
parole e ritrattando parzialmente quanto detto a «Le Monde».
[11]
Michael Ignatieff, Città invisibili
dell’emarginazione, reperibile su:
http://eddyburg.it/article/archive/98/
[12]
Marc Augè, L’incendio di Parigi, «Micromega», cit., p.
187.
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soggetto a una licenza
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Rivista elettronica della
Società Italiana di Filosofia Politica, 2 marzo 2006
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