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Memoria e
memorie
di
Silvia Golfera
“…Quando si andava col
narrarsi molte cose non venivano dette, cioè il non detto era visibile,
lo si coglieva, lo si tagliava a fette…Per capire chi sono dovetti
ascoltarmi come se sognassi…Questo “come se io sognassi” lo so che è la
pratica dell’incontro…perché sai che puoi contare su altri sguardi che
vedono dentro il tuo sogno, che possono dire cosa nascondi, cosa c’è
dietro”, dice Lea Melandri, parlando con le amiche di Ravenna. E subito
si allargano risonanze.
È strano il mio approccio con Lea. Leggo alcune delle cose che ha
scritto, la trascrizione degli incontri, con lo stesso spirito di un
pescatore che scandaglia il fondo del mare. Non credo si tratti di un
modo corretto, non certo da un punto di vista epistemologico. Perché il
pescatore non è un semplice osservatore, o un investigatore. È un uomo
stravagante: non sa cosa cerca, né quale sia il suo scopo, o almeno così
gli pare. Spia il fondo e raccoglie tutto ciò che lo attrae, cose senza
apparenti legami fra loro. Riempie il suo sacco, con la sensazione di
accantonare un tesoro che gli servirà, con cui edificare qualcosa di cui
non ha ancora progettato la forma. Col probabile risultato di deviare
completamente dal pensiero dentro cui naviga, senza sapere a cosa
approderà. Un amico pittore mi racconta di non frequentare mostre e
musei. Le sue ‘immagini’ se le porta dentro. Quelle altrui possono solo
sviarlo. Io invece navigo nelle parole degli altri. Mi lascio possedere.
Per trasformarle poi in un discorso mio. Procedo come in sogno. Il sogno
di cui parla Lea. Un sogno che ripara, riscalda, dà voce e forma a ciò
che di giorno, cioè nella sola luce della coscienza, si fa semplicemente
inesprimibile. Il sogno è qualcosa che nella vita delle donne emerge con
particolare violenza. Una dimensione con la quale ci misuriamo in modo
preferenziale. Sono insegnante di ragazzini fra gli 11 e i 14 anni. Se
chiedo loro di immaginare il proprio futuro, generalmente trovo i maschi
più progettuali: lavoro, automobile, sport. Ma le ragazze sognano veri e
propri idilli, col prato fiorito in un certo modo, la cena in armonia, i
giochi dei figli. Certo né gli uni, né gli altri sfuggono agli
stereotipi pubblicitari, ma si avverte quanto diversamente investono
nelle loro fantasie.
Anche Lea raccoglie parole di altre donne, per esempio dell’Aleramo:
“…Non ho mai ascoltato quello che si muove nel mio organismo, nella mia
psiche, tanto sono stata preoccupata di imparare linguaggi che erano
necessari nella vita pubblica. Le donne a forza d’imparare altri
linguaggi non hanno più orecchio per quello che si muove dentro di
loro”. Annosa questione: la donna che entra nel ‘potere’ perde la
propria lingua, il rapporto col proprio organismo? Certo ci sono donne
che di fatto hanno censurato parte di sé per assumere senza ‘zavorre’ un
ruolo dominante: nella cultura, nell’economia, nella politica. Ma a mio
avviso prima di accedervi, e proprio per accedervi, ha molto sognato.
L’Aleramo è stata una grandissima sognatrice e resta viva in lei la
consapevolezza dei propri processi.
Nastasja Filippovna, protagonista femminile dell’Idiota di Dostojevskij,
ricorda la propria adolescenza trascorsa in campagna, in una solitudine
interrotta solo dalle visite del suo seduttore: “sognavo continuamente
che qualcuno venisse da me e mi dicesse ‘Voi non avete colpa alcuna’.
Sognavo talmente che quasi ne sono impazzita” dice, pressa poco. In
letteratura gli esempi sono infiniti, sarebbe molto interessante fare
uno studio del genere. Le donne sognano e gli uomini che vogliono
sognare spesso lo fanno attraverso le donne.
Anche per me storia vita e sogno sono così strettamente intrecciati e
sovrapposti, che a volte ho quasi l’impressione di non distinguerli a
pieno.
Fin da bambina lunghe ore a fantasticare, nascosta in qualche angolo del
cortile, d’estate, o stesa sul letto, d’inverno. Nella prefazione alle
poesie di Bellosi riferendosi a un mondo originario da cui si è agognata
la fuga, Lea scrive del ‘ritorno imprevisto di una memoria che credevo
perduta’. Continua poi, sempre in relazione al periodo delle sue
origini: “Senza l’alimento della nostalgia, anche il raccontare di
quegli anni ha preso sempre più le forme di una pantomima divertente per
chi ascolta, e, per me, di un esorcismo”. La memoria priva di nostalgia
si congela in qualcosa che si deposita al fondo dell’esistenza. Riesce a
resuscitarla in modo autentico solo chi ha conservato con essa un legame
fecondo. Quando io vado a scavare in quel fondo, più che la mia vita
reale degli inizi, che si è come sgretolata, rinsecchita,
cristallizzata, trovo le fantasie che vi erano connesse. Che erano poi
rivincita verso una condizione di frustrazione. Il bambino che soffre
non riesce a concepire una soluzione al proprio dolore, perché la sua
vita non dipende da lui, ma spesso proprio da coloro che lo fanno
soffrire. Il sogno garantisce la sopravvivenza psichica. Sognare a occhi
aperti non è semplice corollario, ma certo è strettamente legato al
sentimento dell’impotenza. Certo, non solo. Ma a un limite oggettivo si
contrappongono gratificazioni fantastiche, specialmente nella prima età.
Quando Lea Melandri parla della modalità con cui selezionava le lettere,
o parte di esse, nella rubrica ‘Inquietudini’ sul settimanale ‘Ragazza
in’, spiega che pubblicava la “parte…che dava centralità al
sogno-fantasie, costruzioni a occhi aperti-o alle condizioni che lo
producono (solitudine, delusione, svalutazione di sé)”.
Man mano che si è consolidata la mia autonomia, insomma più mi facevo
carico della mia vita, e meno fantasticavo. Il sogno vero e proprio,
quello notturno continua ad avere per me un’enorme importanza. Alimenta,
precede, porta a compimento tutto ciò che nella vita quotidiana resta
inespresso. Non solo: carica di significatività quegli elementi che
solitamente consideriamo ‘banalità’ dell’esistenza. Insieme fuga e
approdo, riflessione ed enigma. Il sogno e la scrittura hanno occupato
tutto quell’enorme spazio che un tempo era dedicato alla fantasticheria
e all’affabulazione. Si tratta di storie comuni, che appartengono a
tante. Ho sempre saputo che il bisogno di fantasticare prima e di
scrivere poi nascevano e nascono, almeno in parte, dal sentimento di una
solitudine irriducibile (quella cui mi condanna una storia che resta
sempre e comunque inesprimibile), la delusione di ‘un sogno d’amore’ che
può essere solo narrato, non rigenerato, e la autosvalutazione cui mi
condanna l’incapacità di riconoscermi in una qualche accettabile figura
di ‘femminilità’. Guardo molto le donne, con la forte sensazione di
osservarle con occhi maschili: grazia, vitalità e solidità costituiscono
per me elementi di fascino. Il confronto con esse scatta immediato, così
come l’acuta sensazione di non essere mai all’altezza dei modelli che mi
porto dentro. Ripenso a mia madre da giovane, così rassegnata all’altrui
sopruso, da essere quasi incapace di riconoscerlo. L’immagine di lei che
passeggia sul lungomare con al braccio il gilet di mio padre, continua a
infangare anche me. Più penso a mia madre e più mi appare indefinibile,
tanto è grande la scollatura fra ciò che esprimeva col corpo e ciò che
di sé ‘raccontava’. Ancora oggi, in un’età che dovrebbe renderla più
libera e sincera con se stessa, racconta un passato che non combacia per
niente con i fastidiosi ricordi che mi accompagnano, e che forse
l’accompagnano. Quell’incapacità di affermarsi al di fuori di un destino
ovvio, l’idea dell’amore come idillio che prevede l’annullamento di sé,
la sessualità vissuta come duro dovere coniugale, l’hanno portata a
pagare un prezzo durissimo. Eppure descrive la sua vita come armonica e
priva di conflitti (erano tutte sciocchezze, ci volevamo un gran bene),
un marito che l’adorava (e il mio ricordo di liti feroci e umilianti?),
un’incontrastata felicità materna a cui non sa come legare i difficili
rapporti coi figli. Cosa che le fa spesso esclamare: -Non siete mica
figli miei!- E allora di chi sono figlia, io che ho aborrito la
prepotente fisicità di mio padre, (la stessa che mia madre avvertiva
come minaccia sessuale), e l’inconsistente, ‘innaturale’ remissività di
mia madre, che per contrasto mi ha costretta sempre alla scelta più
difficile, per riaffermare un senso di autonomia in realtà precario?
In effetti, il ritornello “non siete mica figli miei”, anzi per la
precisione “non siete figlie mie”, perché il maschio non ha mai subito
un così radicale misconoscimento, mi ha spinto ad inventarmi una vita e
una storia che si contrapponessero il più possibile a quella che
comunque mi portavo dentro, un dentro sempre più angusto e contratto. E
le mie forze spese a tenerlo a bada, in una fatica che solo io
intravedevo nel tremolio impercettibile delle mani, nel pulsare di un
nervo sotto l’occhio sinistro.
E poi l’attrazione per la cultura, dimensione salvifica della vita,
insieme sublimazione e stimolo ad una forma più alta di quella fisicità
che io, al pari, in parte, di mia madre, ho avvertito come inquinante e
magmatica. Regno del caos e dell’indistinto. Nelle parole di Lea
Melandri, pur nella diversità dei percorsi e degli approdi, ritrovo
molte tracce della mia storia più intima. Scrive ne “Lo strabismo della
memoria’:
“…se dovessi sintetizzare…la mia storia culturale , direi: che ho letto
essenzialmente libri di uomini…che ho guardato, amato, detestato il
“femminile” attraverso di essi, che ho visto una quantità enorme di film
dove…trionfa la rappresentazione più tradizionale dei generi; e
soprattutto che non ho mai potuto staccare il pensiero dal mondo
interno, con grande dispendio di energie…”.
Ma gli echi e le sollecitazioni sono infiniti, a cominciare dal fatto
che, se è vero che aldilà delle mie intenzioni ‘la memoria’ è diventata
per me una sorta di argomento elettivo, tant’è che da anni ormai mi
occupo di storie e memorie, senza l’incontro con Lea e gli squarci che
le sue parole hanno prodotto nei tessuti più profondi, non avrei mai
avviato questa meditazione sulla mia personale memoria e sull’uso che
nel tempo ne ho fatto. Eppure ho la sensazione che essa fosse lì da
sempre ad incalzarmi, in attesa di trovare le parole per emergere.
Io non voglio raccontare la mia storia. Voglio semplicemente riflettere
su come la nostra storia sottenda e guidi tutta la nostra esistenza, su
come nessuna storia sia meramente individuale, ma si intrecci e
riecheggi nella storia degli altri. Su come essa agisca potentemente in
noi in misura inversamente proporzionale alla consapevolezza che ne
abbiamo. “…Avere presente la storia personale-racconta Lea-non vuole
dire necessariamente fare dell’autobiografia. Io, per conto mio, ho
lavorato sempre, ho scavato sempre nello stesso sogno, che è la mia
esperienza, la mia vita, ma cercando lì le tracce, più che di
focalizzare il particolare della mia vita, forse perché i particolari
della mia vita si sono dissolti quando sono scappata, quando sono andata
a Milano. Dietro solo macerie. Quindi anche se volessi non potrei farmi
l’autobiografia, quello che le scrittrici fanno, due anni due volumi…Ma
non è solo perché io ho una storia particolarmente sinistrata, insomma,
una storia senza storia, ma è perché io, scavando dentro di me, dentro
il mio sentire, i miei sogni, ho creduto di trovare tanta storia della
specie, degli umani…Io credo davvero che scavando più a fondo dentro di
noi, non è che troviamo delle fisionomie precise della nostra storia
particolaristica, troviamo dei personaggi, troviamo degli stereotipi
universali”. Io credo che sia vero, forse complementare, anche il
processo inverso: ‘viaggiando’ nelle storie degli altri, ritroviamo gli
stessi motivi, le stesse sonorità della nostra ‘particolaristica’
storia. Particolaristica, minore, trascurabile, comunque negletta. Paul
de Man, in un saggio molto citato, parla dell’autobiografia come ‘de-facement’,
sfiguramento. L’autobiografia utilizza l’espediente retorico della
prosopopea per dare identità e parola a un’entità che è priva di volto e
di nome. Della nostra storia spesso abbiamo vergogna, la rinneghiamo con
uno scatto sbrigativo delle spalle, quelle su cui essa si ostina a
pesare. E più siamo sbrigativi più essa torna a riassalirci, in forme a
volte irriconoscibili e minacciose. Dostojevskij dice che col passare
degli anni tutti i nostri sogni si realizzano, ma in una forma così
snaturata da risultare irriconoscibili. La storia privata, paradigma
quasi del femminile e di ogni sottocultura, resta la ‘scoria’ di ogni
vera produzione culturale. Lo è in modo ancora più eclatante anche
quando viene gridata ed esibita con compiacimento, in un totale
schiacciamento fra io e realtà, anzi, come ricorda Starobinski, “la
ripetizione ossessiva della prima persona può equivalere
all’ostentazione di una ‘non persona’”. Ed è con queste ‘scorie’ che
l’analisi e la riflessione di Lea si misura: “…Io posso dire di essere
stata invasa da…tutto l’apparato emotivo e fantastico che la storia, o
la cultura, si lasciano alle spalle come zavorra, peso fastidioso,
oscurità ( o che rendono, riprendendolo in forme “elevate”,
irriconoscibile) e che considerano dotazione femminile”.(Lo strabismo
della memoria) Calarsi nel mondo interno significa comunque sporcarsi,
essere intaccati da quelle immagini che popolano l’inespresso e che
faticano a trovare un linguaggio che sia in grado di restituirle alla
coscienza, senza distorcerle. Difficilissimo dare ad essi una dignità
senza stravolgerne o negarne l’essenza. Sempre riferendosi alle lettere
di cui si occupava per la rubrica Inquietudini, annota Lea: “Ogni frase
di quelle lettere aveva una risonanza immediata, fantastica ed emotiva,
dentro di me; il loro parlare per grandi metafore, per altro molto
comuni, svegliava in me un’attitudine analoga del pensiero, rimasta
ingiustamente a margine delle mie occupazioni culturali, dato che aveva
invece un posto rilevante nella mia vita ‘privata’. Mi si offriva un
ponte, un’occasione, per risollevare una materia oscura, fastidiosa,
impregnata di sentimentalità e di luoghi comuni, darle
cittadinanza-quindi fornirla di una lingua-e trovarle magari parentele
insospettate”.(Lo strabismo della memoria). Dare dignità, lingua e
ascolto a quella materia oscura che resta per lo più inespressa,
significa penetrare quella “…stanza ‘senza aria e senza luce’, dove si
producono ombre più consistenti delle persone reali, …disposta ad
aprirsi solo se si incontra una lingua che conservi le tracce, gli
umori, le figure di quella sua notte abitata dall’illusione, ma anche da
un’esistenza inespressa”.
Sono questi gli spunti che mi hanno condotto a riflettere sul difficile
e doloroso rapporto fra fuori e dentro, fra identità e interiorità, e a
cercare, in un certo senso, di ‘recuperare’ quelle ‘frattaglie’ del
vivere, quegli “…‘oggetti seppelliti’ (dalla definizione di Virginia
Woolf) (che) non sono solo le traversie di una storia minore…ma tutto
ciò che dal profondo di noi stesse (quindi anche inconsciamente o
attraverso segnali corporei) urta, fa resistenza, si sottrae, alla
rappresentazione che del nostro essere è stata data, e le cui radici
affondano in una storia originaria…che sta fra natura e storia.”
Elementi che, se muti e inespressi, possono riemergere sotto forma di
fantasmi dall’aspetto allucinatorio e distorto. Elementi che comunque
orientano, al di là delle nostre intenzioni, e a volte delle nostre
intuizioni, la direzione della nostra vita.
Ed ecco un’altra parola che subito mi mette in allerta, su cui
costantemente mi interrogo, anche quando credo di pensare ad altro. Ha
una direzione la vita? È un andare verso qualcosa o un vagare, più o
meno gradevole. O si tratta addirittura di moto apparente? Qual è la
direzione della mia vita?
Ed eccomi ad elucubrare, con quella fitta di dolore che già mi condanna.
Perché ogni percorso porta con sé un giudizio morale: avanti è
progresso, indietro è sconfitta, ma la sconfitta peggiore è la
stagnazione, l’immobilità che condanna l’esistenza a un opaco silenzio.
La cinematografia, e quella hollywoodiana in particolare, ci propone
costantemente modelli di esistenze che corrono sempre avanti, vite
eccezionali, con rivolgimenti, colpi di scena, successi folgoranti,
trionfi. Ricordo un vecchio film di Woody Allen in cui la figura del
padre veniva dipinta come quella di un fallito, non perché era un
semplice tassista, ma perché lo era stato per tutta la vita. Solo in
alcuni film orientali (penso ad esempio a Estate autunno inverno…) il
tempo non si svolge, ma si riavvolge in sé stesso. Strana sensazione,
desueta e pacificatrice. Su di me un effetto di profondo turbamento, che
rasenta la commozione.
Allora la mia vita come direzione: ‘andata e ritorno’ emerge come
percorso consueto. Andata nella prima giovinezza, ritorno poi. Non ho
amato la casa dei genitori ed essa non ha mai rappresentato il luogo
della sicurezza, del riposo e dell’integrità come, almeno
simbolicamente, dovrebbe essere. Finché vi ho vissuto, l’unica direzione
pensabile e agognata, è stata quella di sola ‘andata’. Sempre avanti
senza guardarsi indietro, intrappolata in una fuga obbligata. Ho vissuto
anch’io quell’esperienza di Lea della fuga “verso una città lontana dal
paese di nascita”.
Il sapore di un treno preso all’alba: la stanchezza della levataccia, la
malinconia della notte che sfuma nella prima luce, l’euforia
dell’evasione. Partenza è rimasta per me indissolubilmente legata
all’intensità di quei momenti, a un sentimento di irreparabile. E ancora
oggi, in una vita del tutto diversa, quando devo prendere un aereo per
una meta lontana, un groppo annidato nell’anima si mescola al piacere di
volare via. Avanti verso un altro luogo fisico (l’università a Firenze,
i primi lavori a Milano e Pavia), avanti verso altri valori e ideologie
(il rifiuto di ogni pratica religiosa, l’adesione a modelli di vita
sociale alternativi), avanti verso altri stili di vita.
Solo quando i nodi col passato si sono un poco allentati, ecco allora ho
potuto permettermi prima saltuarie rivisitazioni, poi il rientro
nell’ambiente d’origine. Anche se in realtà un vero rientro non c’è mai
stato. Ma mentre succedeva mi sembrava che tutto ciò avvenisse
casualmente.
Un sogno d’amore, il consueto e banale motore della vita di tantissime
donne, a scatenare un processo comunque già avviato. Un sogno d’amore
tuttavia, molto diverso da quello ancora confuso, idilliaco, ingenuo
della prima giovinezza, in cui si esprimeva pienamente l’esuberanza
affettiva e sessuale tipica dell’età, oltre l’esempio mortificante del
rapporto genitoriale. Nell’illusione che la relazione con gli altri
fosse gioiosa e semplice e il rapporto sessuale il veicolo privilegiato
di ogni comunicazione autentica.
Il successivo misurarsi con l’estraneità, col ‘deserto interiore’, con
la difficoltà a mettere insieme le proprie emozioni con quelle
dell’altro, ha invece suscitato più tardi un sogno di amore-fusione,
veicolato da chi potesse rappresentare insieme la radice e l’alterità.
Fusione-illusione, naufragata sul nascere. Dal lacerante vuoto che ne è
seguito, dalla nostalgia irrimediabile che ha scatenato, è come se fossi
rinata una seconda volta. Anzi una terza. Insomma questa ‘tortura
arcaica’ come definisce Lea, con una calzante espressione, il ‘sogno
d’amore’ è stato partorito dall’esperienza della solitudine, per
riconsegnarmi ad una nuova solitudine, più radicale, in un certo senso,
ma anche ricca di una volontà positiva. Ora, non so se è quel maledetto
impianto storicistico che ci portiamo dietro e dentro, tuttavia vedo
riemergere il senso di una continuità della mia esperienza, che prima mi
sfuggiva. Ecco lì è nata la scrittura. Ho sentito da poco la filosofa
Rosy Braidotti parlare della scrittura come “luogo delle assenze e delle
distanze”. Il mio bisogno di scrittura è nata in questo lutto, in questo
vuoto che andava non riempito, ma esplorato, accarezzato, ma soprattutto
narrato. A poco a poco la solitudine, avvertita inizialmente come una
condanna che aveva in sé i segni della colpa e della vergogna, si è
trasformata in una condizione elettiva e feconda, nel sentimento forte
di bastare a me stessa, nell’inesauribile felicità di godere del mondo.
In un forte senso di intangibilità. Pur nella fragilità sempre connessa
all’esistere. Condizione da cui è scaturita una nuova capacità di
accogliere senza essere ‘risucchiata’. È come se avessi ritrovato in una
forma più matura e consapevole quell’antica capacità di affabulare.
Rintraccio nelle parole di Lea qualcosa che esprime chiaramente questo
sentire e il processo che lo ha generato: “Quando io parlo di memoria
del corpo intendo proprio qualcosa che sfugge al controllo, alla
consapevolezza che ne abbiamo. È questa preistoria che lavora dentro di
noi, che muove le nostre passioni, i nostri pensieri futuri, che muove
purtroppo anche quello che sarà il destino della nostra vita, il nostro
percorso…Io non ho avuto difficoltà a riconoscere che lì (nella mia
solitudine) c’era un destino anche segnato da alcune fasi iniziali della
mia vita dove la solitudine, l’essere fra me e me, dentro i miei
pensieri, è stato un riparo enorme”.
Quando provo a ridiscendere nei desideri di allora, provo ormai un senso
di gravoso impaccio. Ogni pulsione fusionale si è esaurita
nell’esperienza della maternità. La gioia per qualcosa che era insieme
me e mondo. Aver rivisssuto, assieme a mio figlio piccolo, tanti momenti
della mia propria infanzia e averli, in qualche modo, rabberciati. La
riconquistata mia libertà di adesso che si rispecchia nella sua sempre
più larga autonomia, ha sedato completamente ogni altro desiderio di
intimità assoluta.
Piccole tracce disseminate nella nostra memoria, che si intrecciano con
memorie lontane, di altri, in altri luoghi.
Un immagine. Inverno 1985. Vacanze di Natale a Venezia, fino ai primi
giorni di un gennaio spento e opaco. La nebbia che ci accompagna dal
mattino alla sera, me e Javier, l’amico francese con cui vivo a Firenze.
Forse in quegli stessi giorni si aggirava per Venezia anche Josif
Brodskij. Ma allora non sapevo neppure della sua esistenza. San
Pietroburgo, la targa commemorativa su un palazzo in stile moresco sulla
Litejnij Prospect. Penetro un androne scalcinato e sporco, come solo in
Russia si trovano. Salgo una scala disseminata di immondizie da cui
discende una ragazza con un Terranova al guinzaglio. Le chiedo se sa
indicarmi quale sia stato l’appartamento di Brodskji. Non ne ha idea.
Eppure mi sembra di vederla e sentirla quella ‘stanza e mezza’ di cui
parla in ‘Fuga da Bisanzio’. Scoprirò quella sua meravigliosa capacità
di raccontarsi molti anni dopo quel mio soggiorno veneziano, in cui
potevo passarmi accanto. Sono tornata a Venezia per visitare la sua
tomba all’isola di San Michele. Semplice lastra di marmo col nome
inciso, due date a segnare i confini di un’esistenza tanto singolare. I
foglietti e le matite degli amici che continuano a visitarlo. Lascio
anche il mio.
Allora, in quei giorni leggevo “Donne innamorate” di Lawrence. Come dice
Lea ‘gli incontri con i libri non si fanno mai a caso’. Cosa spinge la
nostra esistenza? Io sono convinta che siano le forze che la vita ha
impresso in noi nei primi momenti, più devastanti quanto meno le
riconosciamo. Ancora la parola a Lea:
“Può capitare…che proprio quando si è convinti di approssimarsi al
centro della propria ricerca e di poterla afferrare, si scopra di aver
sempre avuto quel traguardo alle spalle, dislocato tanto da non poterlo
vedere, ma non abbastanza da allontanare il dubbio che ci abbia condotto
lì a nostra insaputa, e, forse, nostro malgrado”.
Quella volta finì prima il soggiorno a Venezia del libro, che non fu più
concluso. Come mai? Difficile che io lasci a metà un libro che mi piace,
e quello mi piaceva. Forse proprio perché lo avvertivo come ‘libro
aperto’. Soprattutto mi aveva colpito la risposta di Gudrun alla sorella
Ursula, che le chiede perché sia tornata a casa, una casa che
presumibilmente non ama:-“Reculer pour mieux sauter” E guardò Ursula con
uno sguardo lungo, lento e consapevole-.
Queste parole hanno continuato ad accompagnarmi per molto tempo, allora
scandalosamente, poi come premonizione. E ancora mi tormentano: ‘sono
tornata indietro, ma poi dove sono saltata?’
Che sia arrivato il momento di terminare il libro?
golferasi@yahoo.it
Le passioni di Lea -
Silvia Golfera, Memoria e memorie. pp.115-123. Longo Editore, 2006.
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