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I conflitti,
tra legalità e legittimità internazionale
di
Silvana Barbirotti*
Più alti sono i muri più
netti sono i confini. il paradosso dell’epoca attuale: non abbiamo più
cortine di ferro ma siamo molto più vulnerabili. E la vulnerabilità
diventa la carta da giocare nella definizione dei nuovi assetti mondiali
nei quali cresce la domanda di sicurezza. quando la sicurezza è
minacciata, l’asse della bilancia del sistema politico-giuridico si
sposta dalla legalità, su cui si cerca di fondare i suoi equilibri, alla
legittimità politica dell’uso della forza per salvaguardare l’ordine.
Nel rapporto tra legalità, legittimità e sicurezza, è rinchiuso gran
parte del dibattito attuale della politica internazionale.
L’evoluzione
del concetto di “uso della forza”
Dopo l’11
settembre la nozione di guerra preventiva coniata nell’ambito della
nuova strategia di sicurezza americana, indica un riorientamento a
favore dell’azione coercitiva, e a detrimento delle regole di soluzione
pacifica delle controversie che hanno rappresentato il fondamento del
diritto internazionale contemporaneo. Questo mentre nel corso degli anni
’90, aveva invece preso corpo la prassi dell’ingerenza umanitaria, tesa
a far valere, con la forza, il rispetto della legalità.
Per quanto possano sembrare divergenti, entrambi gli orientamenti
sottendono a un incremento del numero delle situazioni in cui si fa
ricorso all’intervento armato. Il ricorso delle Nazioni Unite a misure
coercitive nelle crisi internazionali degli anni ’90, appare quasi una
sorta di iperattivismo, a confronto con il periodo di congelamento del
Consiglio di sicurezza (CdS) del periodo bipolare. Il quesito che molti
analisti pongono su quale pericolosa prassi può instaurarsi in una
situazione in cui la legalità diventa il parametro solo “in alcuni casi”
e non ha validità erga omnes, pone in evidenza molti più problemi. Nel
quadro delle relazioni internazionali, questo non fa che confermare come
siano gli Stati o i gruppi di Stati che hanno maggior influenza sulla
scena mondiale a decretare le scelte d’intervento militare per il
ripristino della legalità violata in funzione delle proprie priorità
strategiche. Le condotte dei governi hanno però sempre bisogno di una
legittimazione politica, ma è evidente che “legittimazione”
internazionale all’uso della forza e legalità internazionale come quadro
di norme che ne autorizza l’esercizio, non sono termini equivalenti.
Il primo campo da sgombrare riguarda quindi il termine “uso della
forza”. Non è un caso che nel linguaggio dell’Onu si faccia ricorso a
tale termine e mai alla parola “guerra”. Per essa, le regole del gioco
internazionale devono essere sufficientemente chiare al raggiungimento
di due obiettivi: il primo, delimitare il campo di azione degli Stati
sovrani alla legittima difesa in caso di aggressione. Il secondo,
evitare che nel diritto internazionale si possa creare una zona grigia
in cui l’adozione di misure militari che non possono essere definite
“guerra”, possa non costituire illecito.
Dalla gestione
Nato al Pentagono
Quel “niente
sarà più come prima” che è rimbalzato dopo l’11 settembre, poteva essere
interpretato in molteplici modi e non mancarono segnali in cui vi si
poteva scorgere una promessa.
Ma le opzioni dell’intervento afgano sembravano il segnale che la curva
dell’unilateralismo era in ascesa. Washington “rinunciava” all’offerta
alleata di attivare l’art. 5 del Patto atlantico e decideva per una
gestione autonoma delle operazioni, nella quale il baricentro delle
forze era rappresentato dal Pentagono e non più dalla Nato. Persino
l’Alleanza, su cui si erano profusi gli sforzi di un intero decennio,
diventava un fardello troppo pesante, se in pericolo non era più una
proiezione esterna degli interessi strategici degli Stati Uniti, ma il
suo territorio, la vita dei suoi cittadini, l’intero sistema di valori
della nazione americana.
Un sondaggio condotto tra gli statunitensi all’indomani dell’attacco in
Iraq del 2003 esprimeva il quadro delle percezioni confuse del rapporto
tra legalità e legittimità, quanto dell’empasse in cui si trova il
meccanismo decisionale multilaterale delle Nazioni Unite. Tra i
cittadini statunitensi intervistati, circa il 70% aveva espresso
opinione favorevole a un intervento militare condotto nel quadro delle
regole sull’uso della forza sancite dall’Onu. La percentuale
risultava essere quasi identica per quanti avevano considerato tuttavia
legittima la scelta della Casa Bianca di agire, come è avvenuto, in
assenza di una autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Si riteneva
sufficiente l’approvazione ottenuta in sede nazionale dal Congresso
americano a fronte delle difficoltà manifestatesi nel processo
decisionale dell’Onu.
Così la transizione degli anni ‘90 si è presentata come un periodo di
gestazione ancora incerta di strategie e dottrine egemoniche, più che
una grande occasione della comunità internazionale per la maturazione di
nuovi equilibri condivisi sui principi di governance.
Non vale la pena qui ripercorrere gli eventi che hanno condotto alla
scelta anglo-americana di agire nel quadro di una “coalizione di
volenterosi”, piuttosto che del diritto internazionale. Resta il fatto
che la “guerra preventiva” ha monopolizzato il dibattito internazionale
almeno da quando, nel 2003, il Presidente della Casa Bianca ha esposto
la sua strategia di sicurezza nello storico documento trasmesso al
Congresso Usa, ormai noto come dottrina Bush (vedi MO, 1/2003).
Per una
politica del dialogo
Nell’epoca
della globalizzazione vi è un gran bisogno di una visione globale dei
problemi e di fondare una reale politica del dialogo. Per certi versi si
potrebbe dire che il problema sia l’Europa più che gli Usa. Se
Washington trova così irresistibile la prospettiva della sicurezza e la
confina essenzialmente nel quadro della sua dimensione militare, quale è
l’alternativa che offre l’Europa?
Per limitarci al problema della guerra al terrorismo, la critica europea
non ha forse il merito di essere giusta, ma il grosso demerito di non
offrire alcuna alternativa immediata?
L’esperienza europea può proporre una riflessione al tema della
governance mondiale proprio a partire dalle sue criticità. I successi
economici e gli insuccessi politici dell’Unione dimostrano quanto sia
estremamente più complesso nelle istituzioni internazionali trovare una
base minima di consenso e una convergenza d’interessi sul piano delle
scelte di politica estera e di difesa, di quanto sia per converso
possibile fare passi avanti sul piano dell’economia. In breve, l’Europa
può continuare a insistere sui mezzi politici e diplomatici che il
dialogo comporta, e candidarsi a giocare un ruolo incisivo per rinnovare
la fiducia verso il multilateralismo, se talune esperienze concrete
potranno assumere la funzione di punto di riferimento strategico per
interpretare il cambiamento. Mentre Washington manifesta scarsa
inclinazione a far uso delle politiche di lungo periodo, l’Europa ha
sviluppato negli anni recenti la sua attitudine ad approcci di lungo
termine, a privilegiare i metodi piuttosto che i risultati. In breve, a
fare meglio quello che meglio sa fare: la gestione dei processi, visto
che l’Europa stessa, come si usa dire, è un processo.
Oggi più di prima, la tanto discussa implementazione della pace dimostra
l’obbligo di assumere all’interno delle strategie il lato della
ricostruzione della vita civile: quanto più le infrastrutture di
governo, le istituzioni, la stessa società civile sono state distrutte
dal conflitto, tanto più questo compito è irrinunciabile e faticoso,
poiché intriso di forza, visione, pazienza, e vera tolleranza.
*Silvana
Barbirotti è manager didattico della Facoltà di Scienze politiche
dell’Università di Salerno. Collabora a Rivista internazionale dei
diritti dell’uomo e Politica internazionale.
Tra le due
sponde
Nella storia statunitense il tema dell’azione militare come fondamento
della garanzia di sopravvivenza dello stesso sistema internazionale -
non solo degli interessi vitali della nazione - non è affatto nuovo.
Basti ricordare il Presidente Truman quando nel 1948 affermò che “ci
sono momenti nella storia mondiale in cui è molto più saggio agire che
esitare. C’è sempre qualche rischio insito nell’agire, ma è più
rischioso non agire”.
La dimensione valoriale resta però per gli Usa estremamente rilevante
anche quando parlano di strategie di sicurezza e militari. Essi sono
convinti che la fonte della loro potenza siano sempre gli ideali
democratici e liberali incarnati dall’Occidente, ma è il modello offerto
per perseguire tali ideali che è differente tra le due rive
dell’Atlantico. L’avvicinamento franco-tedesco dopo due conflitti
mondiali, che ha fondato l’intero percorso europeo, resta ancora oggi la
più importante azione di politica internazionale mai realizzata. È
questo il capitale geopolitico che l’Europa ritiene di poter mettere a
disposizione del mondo. La straordinaria esperienza maturata dall’Europa
in termini di sovranazionalità, quella sua attitudine al negoziato, al
dialogo, alle virtù diplomatiche, si è sviluppata nell’ambito del
difficile quanto originale processo che dalla cooperazione ha portato
all’integrazione. Quella stessa sovranazionalità di cui non hanno
esperienza gli statunitensi.
Quel che emerge è che ciò che separa le due sponde dell’Atlantico, non è
forse solo il differenziale di potere, ma piuttosto un diverso approccio
alla nozione di sovranità. L’Europa difende gli stessi valori che stanno
a cuore agli statunitensi con percorsi differenti, basandosi sulla
strada dell’integrazione e della soluzione pacifica delle controversie,
come metodo delle
relazioni internazionali. Abdicando al conflitto gli europei hanno
rinunciato a fette sempre più consistenti della sovranità statuale.
Come difendere allora i famosi interessi e valori e quali sono oggi gli
obiettivi prioritari? Non è un caso che, mentre gli statunitensi parlano
di “minacce” e intendono terrorismo, armi di distruzione di massa,
“Stati canaglia”, gli europei parlino di “sfide” e pensino all’ambiente,
all’immigrazione, alla povertà, ai conflitti etnici, all’occupazione.
Dal problema del disarmo, al Protocollo di Kyoto fino al Tribunale
penale internazionale, la comunità internazionale ha altri scogli, oltre
quelli del Golfo Persico, da cui disincagliare le pulsioni
unilateraliste degli Usa.
Missione Oggi, dicembre 2005
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