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L'amore in
carcere è un privilegio indifendibile
di
Antonio Landino
Amore e distanza è un
connubio che, di solito, ben si adatta allo spirito romantico, e la
letteratura italiana fornisce grandi spunti in merito: da Dante e
Beatrice, da Leopardi e Silvia, fino all'emigrante degli inizi del '900,
con i rattoppi al sedere e la valigia di cartone pressato chiusa con lo
spago, che sogna la sua bella (e lei sogna lui) da quando sono distanti.
Ma nel mondo che si trova da questa parte delle sbarre, non c'è spazio
per i sentimentalismi che, secondo alcuni, rendono debole la mente e
istupidiscono il pensiero... perché questo è un posto duro per gente
dura, che mastica il nulla e assapora utopie, e per cui gli affetti e
l'amore sono debolezze per poeti e sognatori, per molluschi senza spina
dorsale, per rammolliti e cocchi di mamma, gente che ha persino paura di
avventurarsi sotto la doccia se l'acqua non è calda anche d'estate. Ma
ogni giorno c'è una perfetta miscela di panico e adrenalina, e così
tutti quanti ci proponiamo agli altri assecondando la prassi corrente,
che impone un certo stoicismo; la barba incolta, la t-shirt esibita
sfacciatamente anche in inverno, a volte persino mangiare spaghetti
crudi e addirittura giocare a rimpiattino con lo specchio... ma,
nell'angolo più nascosto del nostro intimo, quello che si apre soltanto
quando siamo soli con noi stessi (spesso la compagnia peggiore che si
possa desiderare), alberga un tenero ometto affettuoso e ben disposto al
feeling emozionale, che però raramente trova l'occasione per osare una
capatina nel mondo coatto dei duri ad oltranza.
Di conseguenza, ognuno compie le sue scelte, che non sono comunque mai
facili.
Di quanti hanno ancora una famiglia o una donna, sia essa moglie,
convivente o fidanzata, pochissimi sono i fortunati che la mantengono
ben consolidata, corroborata da colloqui frequenti o permessi premio,
perché in questo modo è enormemente più facile perseverare e riguardare
quanto di buono si è lasciato fuori; alcuni, beh, una famiglia ce
l'avevano, da qualche parte, ma la distanza impone delle scelte. La
carne è debole, si sa, e se un uomo regolarmente abituato ad una sana
vita sessuale, nel suo attuale stato di astinenza forzata non riesce a
fare a meno di mortificare il suo corpo con esaustivi sfoghi solitari,
forse che una donna, che però può scegliere, non dovendo subire
restrizioni fisiche, può mantenerglisi fedele e casta oltre ogni
necessità umanamente condivisibile?
Il tarlo del dubbio, anche se a volte pienamente ingiustificato, spesso
può rodere fino alla soglia dell'alienazione mentale, e così, purtroppo
non di rado, accade che proprio per questo, alcuni detenuti più coerenti
con quel minimo di dignità che ancora gli rimane, decidono di troncare
ogni rapporto con chi è fuori, così almeno si soffre una volta sola, e
non ogni volta che una lettera non arriva, che al telefono non risponde
nessuno... ed in più, ci si mette automaticamente al riparo da corna più
o meno virtuali, perché da queste parti l'onore conta ancora qualcosa,
ed un uomo ha pur sempre una scelta, persino in galera.
Ci sono alcuni che si rassegnano ad essere emarginati part-time, cioè
che si accontentano di illudersi che fuori tutto fili come "per dovere",
e così accade anche che qualche detenuto, solitamente ed apparentemente
più coriaceo degli altri, declami ai quattro venti di aver lasciato
fuori una incorruttibile vedova bianca, la sua Penelope... ma questi
sono episodi fuori cronaca, a cui non credono più neanche gli stessi che
li raccontano ogni giorno, e basta guardarli in faccia per capirne il
perché. Non molto rimane a chi non vuol spingersi a questi compromessi
con sé stesso; per lo più, si esagera con estemporanei e spesso
esilaranti racconti quotidiani, illustrando con dovizia di particolari
delle improbabili performance virili che farebbero imbestialire di
invidia un divo di film hard, ma comunque il risultato non cambia:
fisica o mentale che sia, la masturbazione è sempre quella, ognuno ha la
sua e ci accomuna un po' tutti, che lo si ammetta o no.
Rastremando, tutti hanno bisogno d'affetto ma nessuno lo chiede, c'è
sempre la solita "posa" da macho tutto d'un pezzo... ma succede anche
che qualche esponente del gentil sesso si appropinqui nei meandri
carcerari, e così avviene l'inopportuna metamorfosi: eccoci quindi tutti
in ghingheri, in tiro come una Ferrari F 50, gonfi d'apnea e lucidi di
riporto. In verità, tali eventualità sono scarse ed ovviamente procurate
da eventi professionali: infermiere, insegnanti, visitatrici
occasionali, assistenti più o meno volontarie, educatrici ed altre
operatrici del settore, che sono tutte estremamente gentili, cordiali,
compìte e di aspetto normalmente gradevole, ma che, anche se fossero
delle megere zoppe, con un occhio di vetro, le verruche sulle labbra e
reduci da un match con Mike Tyson, noi le abbiamo già configurate a
priori come il non plus ultra della sensualità fatta donna.
In questo, c'è una specie di quieta acquisizione generale, fatta di
piccoli scambi di sguardi complici tra detenuti, di cortesia esagerata,
di toni addolciti, di occhi bassi e rasatura contropelo, di
inconfessabili desideri per un qualcosa che forse si vede soltanto
adesso.
E le donne del carcere lo sanno, lo capiscono; capiscono tutto, loro...
e per tutti hanno un sorriso discreto, un battito di ciglia desiderato
ma inesigibile, l'afrore di un profumo lontano, tenue, che ricorda una
vita vera, una casa, una donna alla finestra, che sa di buono, di
libertà, che il detenuto cattura prima che svanisca ed inspira dentro
sé, perché sa già che dovrà bastargli per un pezzo e così lo porta via,
per espirarlo al chiuso della sua cella, per centellinarlo e rincorrerlo
a lungo, magari fino alla prossima volta, che non sarà mai troppo
presto. È un affetto quasi doloroso, platonico, improponibile, che
nessuno ammette di aver rubato, nemmeno per puro caso; no, nessuno
ammette mai neanche questo, ci si schernisce alla semplice ipotesi di
poterne avere necessariamente bisogno, e d'amore non si parla.
L'amore è un privilegio indifendibile, è proibito; se non ce lo avessero
negato, avremmo finito per affermare che se ne può volentieri fare a
meno, e lo avremmo ripudiato noi stessi.
Le emozioni da esternare tra compagni non fanno parte del dialogo
spicciolo di tutti i giorni, sono vergognose quasi al pari di chi ci
crede; non c'è alcun spazio per loro in un universo che divora il corpo
e la mente, ma che pur può costringere, chissà poi perché, a sfogarsi in
sterili dichiarazioni con detenute altrettanto disincantate, magari
sperando che una persona nelle nostre identiche condizioni possa avere
anche lei un po' d'affetto da voler dare e nessuno che gliene offra mai
occasione... perché il carcere è anche questo: estrapolare un indirizzo
di una compagna di sventura, crearsi una Chimera personale ed inviarle
due gocce di profumo dentro una busta, dirle che la si ama alla follia
anche senza averla mai vista prima, ed aspettare con spasmodica attesa
la nostra stessa uguale bugia di rimando.
L'amore, o lo si ha o ci si illude di averlo... ma non si può
sopravvivere senza.
Così, consapevolmente e con strano piacere, ci si distrugge
emozionalmente, ci si reinventa, molto spesso ci si propone per via
epistolare come le persone che non siamo riuscite ad essere, ma che però
ci piacerebbe diventare: ci descriviamo in ottima forma fisica, senza
nessun sovrappeso ma con tutti i capelli, chiediamo continuamente loro
fotografie ma le nostre non le mandiamo mai, ci raccontiamo piloti di
elicotteri, capitani d'industria, cavalieri erranti o novelli yuppies,
guasconi ma integerrimi, singles o separati (ma soltanto per nostra
libera scelta), eruditi o studenti, a volte colpevoli ma mai mediocri,
pazienti ma non domi, filosofi o pragmatici a seconda del nostro tasso
di solitudine esistenziale, raccontando loro sogni mai sognati, erotici
o teneramente sentimentali, che probabilmente non siamo più neanche
capaci di immaginare coerentemente... e le donne del carcere lo sanno, e
ci accettano così; compagne, amiche, sorelle, amanti di penna,
confidenzialmente materne, con pazienza certosina e gratificandoci,
malgrado l'evidente realtà, di una assurda ma confortante speranza che
non porterà mai da nessuna parte né noi né loro, ma di cui comunque,
bisognerebbe finalmente ammetterlo, in fondo non siamo abbastanza
temerari da trovare il coraggio sufficiente per riuscire a farne a meno.
Così, il falso mito dell'uomo rude e silenzioso, dal cuore duro,
insensibile ed immune alle carenze affettive e alle umane necessità,
continua ad essere una pietra miliare nei rapporti di tutti i giorni, e
si continua ad accigliarsi in pubblico, a mostrarsi freddi e
indifferenti; dopotutto, nei riguardi dell'opinione comune, i detenuti
godono di una certa reputazione e qualcuno si ostina a mantenerla, a
torto o a ragione... ma c'è sempre quel fastidioso ometto dentro di noi,
prigioniero due volte (perché non esiste prigione peggiore di quella che
ci costruiamo noi stessi), che può metterci in imbarazzo all'improvviso;
lui ronza, pensa, vive in simbiosi, scalcia, vuole uscire, vuole
parlare, vuole correre lontano, ha tanto da offrire e chiede davvero
poco, non vuole rassegnarsi... e noi lo imbavagliamo, lo soffochiamo, lo
teniamo chiuso, nascosto, al sicuro, al riparo da un mondo che temiamo
possa ucciderlo definitivamente... e forse è questa, la nostra paura più
grande, che ci costringe muti e che fa confondere la propria
rassegnazione con l'apparente aridità di cui spesso si viene tacciati.
Ma nella Casa del Silenzio ci si accontenta di poco; per illuminare la
giornata, per scaldare l'anima, per non sentirsi del tutto da rottamare,
può bastare uno sguardo pulito, il fingere di non accorgersi che
l'occhio avido ha indugiato un secondo di troppo su una curva muliebre
(peraltro ovviamente ben dissimulata), una leggera esitazione nel
congedarsi da un colloquio professionale o da una visita in infermeria,
una lettera da una perfetta sconosciuta; tutto può aiutare a sperare,
persino un sogno ad occhi aperti... ed ecco che quell'ometto si rianima,
tradisce la nostra ipocrisia di tutti i giorni, ci strappa via la
maschera che ci siamo costruiti per difendere la scintilla che ancora
arde in noi, che alimentiamo di nascosto, che nessuno vede mai. È la
brezza che smuove i ricordi, che fa chiudere gli occhi, che avvolge in
un dolore sordo, senza voce, che scende lieve e impalpabile,
idealizzando i nostri fantasmi ricorrenti nello struggente desiderio di
un qualcosa che poteva essere e non è stato, nel rimpianto nostalgico di
ciò che forse non si è mai avuto veramente... perché se è vero che tutti
gli uomini sono soli, quelli che non vogliono piangere sono più soli
degli altri, ed ognuno di noi nasconde dentro sé un amore che non c'è,
quello che non abbiamo e che forse è rimasto ad attenderci al bivio
della vita, perso di vista per un attimo e poi mai più ritrovato, che ci
è stato irrimediabilmente negato, che ci è precluso, a cui non sappiamo
dare un nome, anche se lo vorremmo... perché lo abbiamo smarrito, per
sempre, sulla cattiva strada.
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