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La lettera
di
Ettore Masina
1
Nel 1941, un
soldato tedesco che viveva ore terribili nell’assedio di Stalingrado fu
con sua deliziata sorpresa raggiunto dalla concessione di una
licenza-premio. Avrebbe potuto lasciare per una decina di giorni quell’inferno,
riabbracciare per poche ore i suoi cari, insomma tornare a sentirsi
ancora vivo. Riuscì a raggiungere una stazione ferroviaria, a imbarcarsi
su un treno che correva e correva verso Occidente, e subito si
addormentò. Dormì per due giorni, quasi ininterrottamente, la testa
poggiata sul suo elmetto come su un comodo cuscino.
Quel soldato non arrivò mai a casa. Lo trovarono morto e i periti
settori che esaminarono il suo cervello scopersero che era segnato da
un’infinità di micro-emorragie, provocate dai colpi ricevuti
dall’elmetto quando il treno sobbalzava sui traversini e sugli scambi.
Ho sentito parlare della “sindrome di Stalingrado” più di quarant’anni
fa. Il giornale per il quale lavoravo mi mandò a Cremona a seguire un
brutto processo, brutto da tutti i punti di vista: quello penale, quello
culturale, quello ambientale. Per ciascuno di questi aggettivi potrei
scrivere una pagina triste, ma adesso mi limito a dire che ricordo con
grande pena quei giorni in una città bellissima ma gelida, e ostile ai
forestieri. Il processo riguardava quattro ragazzi di Ca’ de Quinzani,
un paesone della Bassa padana. L’anno prima, i quattro e alcuni loro
amici cercavano di sopravvivere alla noia di una domenica, in un circolo
enologico delle Acli (o una Casa del Popolo o un bar “laico”, questo non
lo ricordo). Arrivò una ragazza e disse che poco prima era stata
assaltata dallo Scemo del villaggio, Aveva cercato di metterle le mani
addosso e le aveva sbavato contro una litania di oscenità. No, non era
riuscito a toccarla, era troppo ubriaco, ma lei, naturalmente, si era
molto spaventata.
Adesso i quattro avevano finalmente qualcosa che desse uno scopo alla
domenica. La ragazza aveva spiegato che aveva visto lo Scemo abbattersi
su un mucchio di paglia in una cascina abbandonata. Il piccolo
improvvisato Ku Klux Klan andò a punirlo. Lo trovarono inebetito e gli
diedero un po’ di calci, di schiaffi e di pugni. Forse, ma non è certo,
usarono anche un bastone. Lo lasciarono a lamentarsi che lui non aveva
fatto niente, la ragazza non l’aveva neppure vista. I quattro tornarono
al bar, sentendosi degli eroi. Intanto la notizia dell’aggressione si
era sparsa per il paese e la gente si domandava a che punto si sarebbe
arrivati. Parve ai quattro di essere stati troppo misericordiosi.
Tornarono alla cascina e somministrarono al mostro una nuova “buona
lezione”. Questa volta lui non fece tante storie, non parlò neppure.
Quando più tardi tornarono a vederlo, era morto.
Il solito maresciallo dei carabinieri impiccione, nonostante il
malcontento e l’omertà della popolazione fece delle indagini, poi
informò la magistratura. Fu eseguita l’autopsia. Lo Scemo era stato
ucciso dalla “Sindrome di Stalingrado”: nessuno dei colpi subiti era
stato mortale, mortale era stata la reiterazione delle percosse.
(Se a qualcuno interessa: i quattro furono condannati al minimo della
pena per omicidio preterintenzionale).
2
Mi capita di ripensare spesso alla “sindrome di Stalingrado”,
sentendomene vittima. Non parlo, naturalmente, di fisicità. Vivo una
vita tranquilla, riparata e protetta, i guai della vecchiaia sono – come
dire? – di bassa intensità, godo di grandi affetti e mi sembrerebbe di
poter dire: di grandi amori. I colpi che mi arrivano sono morali,
culturali, sono quelli della scemenza, e peggio, di certa televisione,
come la volgare banalità dell’Isola dei famosi. O il voyeurismo del
Grande Fratello. Peggio ancora sono quelli della pubblicità, soprattutto
di quella automobilistica. Fateci caso: c’è uno spot di alto livello
formale in cui un bellissimo bambino diventa sempre più grande violando
le leggi del traffico e quando è ormai diventato un bellissimo
adolescente si trasforma in macchina: neppure la più sadica delle favole
dei Fratelli Grimm, che funestarono l’infanzia di quattro o cinque
generazioni, approdò a tanto orrore. C’è un altro spot in cui un bambino
domanda al padre se voglia più bene a lui o all’auto, e il padre lo
rassicura, ma sbagliando il nome del piccino. Che ridere, vero?
3
È strano come per significare una vita noiosa, sonnolenta, in ultima
analisi squallida, si ricorra a immagini ferroviarie: routine o
tran-tran (che è per l’appunto il rumore che il convoglio fa passando su
traversini e su scambi); dunque la metafora della “sindrome di
Stalingrado” sembra appropriata. Sui treni della mediocrità in cui siamo
costretti a viaggiare, ponendo il capo appoggiato all’elmetto di inutili
difese, le nostre idee si piagano di microemorragie culturali e
spirituali.
Ho parlato della televisione, ma non è che la carta stampata funzioni
meglio. Molti anni fa, i direttori dei quotidiani e dei settimanali si
vantavano di avere scatenato i loro giornalisti “d’assalto” su temi
effettivamente di rilievo sociale; e la grande inchiesta era il sogno di
noi giovani cronisti: tampinavamo i superiori perché ci lasciassero
indagare, andavamo a porre domande scomode a personaggi restii a
risponderci – e qualche volta minacciosi, sapendo di poterlo essere; ci
sfiancavamo ricercando e poi esaminando attentamente documenti
“riservati” scritti in tecno-burocratese, in cui il potere ammetteva
fallimenti, pressapochismi e peggio. Rischiavamo querele, odii,
tentativi degli editori di metterci un freno; sparivamo di casa per
settimane, e quarant’anni dopo le nostre mogli ce lo rimproverano
ancora. No, non eravamo migliori dei giornalisti di oggi, i quali, per
molti versi, sono, anzi, poliglotti come noi non ci sognavamo di essere,
tecnologicamente avanzati - e non meno intraprendenti di noi. La cosa
triste è che troppo spesso, più di noi, almeno alcuni, accettano di
essere embedded, cioè di lavorare sotto controllo, non soltanto sui
fronti di guerra ma anche sui fronti politici (ed economici, che sono la
stessa cosa); e invece delle grandi inchieste ripiegano sui pettegolezzi
o sui sondaggi d’opinione: i quali delineano quasi sempre caricature
della realtà su cui i politici si precipitano a rimodellare la loro
attività retorica, contribuendo a far sì che la caricatura diventi
realtà. A questo modo la balla, come la chiamavamo noi vecchi, o la
bufala, come si dice oggi, acquista grande valore, sembra inoppugnabile,
Berlusconi può raccontare quel che gli pare (compresa la cattura di
duecento terroristi. A quando una Guantanamo dalle parti di Pontida?),
lamentandosi poi come un bambino malmenato se qualcuno lo smentisce; chi
protesta per la prevalenza data agli interessi della Gente Che Conta è
considerato (antica accusa) un vetero o (accusa aggiornata) uno Zapatero
anticristo, un manipolatore della brava gente delle vallate alpine, un
nemico del progresso eccetera. Sembrano trionfare il luogo comune al
posto del ragionamento, il revisionismo becero invece che la storia (ne
vedremo delle belle nelle scuole devolutioned!), le violenze sessuali in
primissimo piano nei tiggì, sempre che i bastardi sospettati siano
terzo-mondiali; il quotidiano discorso del nuovo papa riassunto in modo
che si avverta soltanto odore di incenso; la vita di Giovanni Paolo II
ridotta nella fiction RAI ad affanose sequenze di colpi di scena… Non
basta? Ma sì, mettiamoci anche la cultura Cultura: non si trova
un’università che conferisca una laurea honoris causa a Pietro Ingrao,
testimone del Novecento e vivente icona del movimento per la pace, o a
don Ciotti, tanto per fare un altro nome: ma un senato di Imbecilli in
toga, tocco e magari ermellino ne assegna una a Vasco Rossi, quello che
insegna ai giovani a cantare “Voglio una vita che se ne frega”. Nel
campo dell’editoria vanno fortissimi, insufflati da critici “della
Casa”, boiate come “La verità del ghiaccio” o, peggio, “Cento colpi di
spazzola”, mentre nelle classifiche non compare il più bel libro degli
ultimi mesi, “Càpita”, dell’indimenticabile Gina Lagorio.
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Clericalismo e anticlericalismo tengono ormai le nostre cronache e anche
questo è una spettacolo penoso. Gli atei devoti (i Ferrara, i Pera…)
cercano di arruolare i vescovi per le loro battaglie di Lepanto; i
politici della destra chiedono al Vaticano e alla CEI pubbliche
elargizioni di paternità, di ortodossia, di benevolenza elettorale per i
privilegi accordati dal loro governo alle istituzioni ecclesiastiche; il
Vaticano e la CEI si lasciano apparentemente sedurre. Vedremo cosa
offriranno le celebrazioni del quarantesimo anniversario del Concilio.
Per il momento, dopo un passo notevole a riconoscimento della legge 194
(scambiato dalle femministe e da pressapochisti delle sinistre, per
l’automaticità dei pregiudizi, attacco alla libertà delle donne), Ruini
offre a Berlusconi l’intensificazione del tentativo di mettere la
mordacchia al movimento cattolico della pace: prima pone sotto tutela i
francescani di Assisi, poi censura le scelte di Pax Cristi, ordinando:
niente Arturo Paoli come predicatore della veglia liturgica di San
Silvestro, niente Francesco Comina, giornalista che doveva
intervistarlo. Arturo ha 93 anni, ma risulta ancora pericoloso al
benemerito vicepapa italiano: il porporato, del resto, è lo stesso che
ha sempre sbiadito le radicali condanne della guerra di papa Wojtyla, ha
impedito la partecipazione delle organizzazioni cattoliche al Forum di
Firenze, ha scavalcato quell’orrore evangelico che è il vescovo
castrense per porsi lui stesso come cappellano di Stato ai funerali per
i poveri morti di Nassirya,
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L’elenco delle pubbliche mediocrità potrebbe continuare, come ben
sapete, molto a lungo ed è bene ogni tanto aggiornarlo. Assai più
importante, tuttavia, è sapere a quali rischi siamo soggetti. Sui treni
della banalità, dove i telefonini squillano in continuazione per
messaggi inevitabilmente melensi, è raccomandabile tenersi eretti e
vigili, avere fra le mani un buon libro, scoprire la gioia di cercare di
rispondere a domande che noi stessi ci poniamo per non cadere nelle
trappole del conformismo; ascoltare i bambini; inventare feste; parlare,
sottovoce, con chi ci sta accanto per sapere se, per caso, non siamo
meno soli di quanto crediamo; avere il coraggio di innamorarci; guardare
dai finestrini e domandarci se non c’è proprio niente che possiamo fare
per frenare gli assalti al Creato; e nelle grigie stazioni di questo
inverno ascoltare i poveri: quelli che gridano e quelli che mormorano,
essendo gli uni e gli altri i più esatti definitori della civiltà in cui
noi e loro viviamo.
Forse può anche essere un programma per il Natale.
www.ettoremasina.it - novembre 2005
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