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La pieta’ del
perdono
di
Vincenzo Andraous
La strumentalizzazione
che il caso Sofri alimenta, consente ancora di obiettare che sono stati
impedimenti di ordine tecnico e giuridico a relegare a mezz’aria quella
domanda di grazia?
Se è vero come è vero che gli uomini cambiano, colpevoli e innocenti,
allora può un uomo redimersi? Potrà il crimine essere cancellato
attraverso la pena espiata? E qual è la pena che può rendere giustizia
agli innocenti umiliati?
Sono domande che non consentono risposte certe, ma venti, trent’anni di
carcere demoliscono certezze e ideologie, rendono l’uomo invisibile a
tal punto da risultare difficile dialogare con un’identità scomposta,
che occorre ritrovare e ricostruire, insieme agli altri.
Parlare adesso del caso Sofri e sin troppo facile, ma comunque giusto,
non solo per l’uomo che tutt’ora si dichiara innocente, ma anche e
soprattutto per la ricerca di una Giustizia giusta, una Giustizia equa,
una Giustizia che è anche perdono, come ebbe a sottolineare il Papa, e
che comprenda un granello di pietà, perché la pietà non è un atto di
debolezza.
Penso ai tanti uomini che in un carcere sopravvivono a se stessi,
inchiodati alle loro storie anonime, blindate, dimenticate. Sono
convinto che non esiste amnistia, indulto, sanatoria d’accatto, per il
detenuto, non esistono slanci in avanti utopisti, esistono solamente
uomini sconfitti, perché in un carcere non sopravvivono miti vincenti,
ma esistenze sconfitte dal tempo e dalle miserie che ci portiamo
addosso.
Mi chiedo quindi se è possibile perdonare, nella difficoltà di
affrontare la lettura evangelica del sentimento del perdono, per non
parlare della necessità di salvaguardare la collettività, ormai
improntata alla sola risposta penale, al solo deterrente carcerario.
Forse occorre riconoscere il bisogno di un percorso umano (non solo
cristiano) nella condivisione e nella reciprocità, quindi nella
accettazione di una possibile trasformazione e cambiamento di mentalità.
In conclusione che dire ancora, se non che quando il carcere è allo
stremo fino al punto di uccidere, forse c’è davvero bisogno di
cambiarlo, proprio perché in carcere c’è necessità di vivere, e non di
sopravvivere, per poter cambiare.
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