agli incroci dei venti

 


 

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L’insegnante e l’automobile
di Ghismunda
 

Incredibile: non conosco la loro lingua, eppure parliamo la stessa lingua.
M’ intendo di più con i genitori degli alunni stranieri, che con quelli degli alunni italiani. Il fatto è che condividiamo un presupposto di fondo, un valore a cui la “nostra” società ha smesso di credere, al punto da trasformarlo in “disvalore”. E’ la cultura, lo studio, visto come fattore di emancipazione, come un mezzo, anzi, come “il” mezzo, per migliorare se stessi e il proprio ruolo nel mondo. Come un’ irripetibile opportunità di riscatto sociale. E ci credono, ci tengono. A vederli, ad ascoltarli, mi viene in mente Don Milani: “ Perché è solo la lingua che ci fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui”. Trepidanti ed orgogliosi, ripongono fiducia nella scuola a cui, con veri sacrifici, mandano i figli ad imparare.
Non si tratta di retorica.
Siamo noi che siamo cambiati, che non sappiamo più a cosa serva farsi una cultura. O meglio, lo sappiamo in negativo: non serve a ciò che più conta oggi, ossia a procurarsi denaro e successo. A dir la verità, non sappiamo più nemmeno cosa sia “cultura”. Pensiamo a qualcosa di astratto ed inutile, buono a suscitare un po’ di derisione o d’insofferenza, quando non di vera commiserazione, in chi se ne mostra in possesso. A meno che non partecipi ad un quiz televisivo. In quel caso, il suo affastellamento di dati e notizie suscita un’ammirazione incondizionata.
Testimonianza di una collega, reduce dal tentativo fallimentare di convincere un alunno a proseguire gli studi: “Professoré, a che le serve sapere tutte queste cose? Intanto lei gira con una Clio; mio zio che fa il macellaio gira in Mercedes. Per ora io vado a lavorare da lui e poi ci rivediamo tra qualche anno”.
Commento di Marco Lodoli, collega e scrittore: “Se sei un poveraccio con i polsini sfilacciati e la Ritmo ammaccata, oggi non puoi insegnare niente a nessuno, perché tu per primo non hai saputo tradurre quelle conoscenze nelle uniche cose che valgono davvero: il denaro e il successo”.
Torno a casa distrutta dal ricevimento famiglie: no, non ho i polsini sfilacciati – penso – però ho una Clio. Blu. E anche un po’ ammaccata.

Il problema è che c’è una guerra in corso. Gli eserciti schierati già da diversi anni su fronti opposti sono la società mediatica e la scuola. I genitori sempre più spesso stanno dalla parte della società mediatica. Sono essi stessi, anzi, trasformati in bancomat domestici, società mediatica, quel mondo di fuori contro cui la scuola combatte ad armi impari. Quelle dei nuovi media, infatti, sono più accattivanti: istintive, colorate, divertenti, non impegnano la mente, fanno tutto loro, bombardando di parole come “facilità”, “tutto”, “subito”, “tu”, “volere”, “potere”, “immagine” e trasformando ognuno in un vincente a fronte di un impegno minimo. Che poi si tratti di inganni, che la vita sia il più delle volte un percorso in salita, che facilità in realtà non rimi con felicità e che il successo, quello vero, preceda il sudore solo nel dizionario, questo non si dice, non lo racconta nessuno, solo quei noiosi dei prof. E qualche genitore-dinosauro. O straniero.
Come si fa a vincere questa guerra? Scrive Tullio De Mauro: “Nel momento in cui fa una lezione frontale o dà una spiegazione, il docente di storia o di fisica si trova a dir poco in difficoltà a competere con un servizio di Arté o di Piero Angela sugli Etruschi […]. Nel confronto la parola dell’insegnante rischia di suonare sbiadita, povera, assai poco up to date”.
Va messa a punto una strategia. L’avversario va sconfitto sul suo stesso terreno. Mi spiego: non bisogna combattere il cambiamento, ma governarlo, esserci. Il mondo non è fuori. Chiudersi, separarsi e costruire argini contro la straordinaria (e inevitabile) progressione delle innovazioni tecnologiche e delle trasformazioni sociali rende la scuola vecchia e superata. Ma non possiamo nemmeno permettere che la contaminazione con la realtà esterna svilisca la scuola, che ne abbassi il livello. Si perderebbe in ogni caso. E non possiamo permettercelo: la posta in gioco sono le menti delle nuove generazioni. Il futuro, in una parola.
I ragazzi oggi arrivano a scuola come tanti contenitori pieni di informazioni disordinate, messe in sequenza o accavallate senza scelta e senza valutazione. “Solo dopo – continua De Mauro – nel seguire e sollecitare la comprensione critica e la profonda assimilazione di un contenuto, l’insegnante trova l’occasione di una sua rivincita anche nella più scalcinata e malmessa delle aule”.
L’obiettivo è far nascere coscienze critiche, in grado di controllare il flusso fantasmagorico delle informazioni.
L’obiettivo è il passaggio dall’informazione diffusa alla cultura diffusa.

Da parte delle famiglie, ci vorrebbe più collaborazione.
Da parte delle istituzioni, ci vorrebbe più scuola “pubblica”.

“… mai come in questo momento è necessaria una scuola pubblica, ovviamente seria, laica e non laicista, che non forma - come è stato detto infelicemente dall'Osservatore romano - figli dello Stato e della Lupa, perché non inculca fedi o ideologie, bensì insegna nozioni e discipline, sul fondamento di quei valori comuni che sono la base e la premessa della vita democratica e ai quali si richiamano, in democrazia, tutti i cittadini, credenti e non credenti.
Inoltre solo la scuola pubblica permette il pluralismo, che non consiste in un coacervo di ghetti reciprocamente isolati - in cui si ascolta una sola campana - bensì nel dialogo e nel confronto di opinioni, fedi e valori diversi. Ho avuto la fortuna di frequentare una scuola pubblica pluralistica e non faziosa, né anticlericale né clericale, in cui insegnanti e compagni professavano ed esprimevano idee diverse, senza che ciò diventasse l'alibi per trascurare il latino o la geografia; l'esperienza di quel confronto è stata essenziale per la mia maturazione e mi ha insegnato pure a rispettare la fermezza di chi testimonia la sua fede senza «rispetti umani», come dice la Chiesa, senza quei pusillanimi riguardi sociali che spesso ci rendono titubanti, quando siamo nella buona società, a dichiarare liberamente i nostri dèi”.
Claudio Magris, Corriere della Sera, 13 dicembre 2005


E’ uscito in questi giorni “La mia scuola. Chi insegna si racconta”, a cura di Domenico Chiesa e Cristina Trucco Zagrebelsky. Un libro non per soli addetti ai lavori.


La voce di Ghismunda, 14/12/05
 

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 23 dicembre 2005