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Per un marine,
la tortura ritorna in casa
di
Ann Louise Bardach
(libera traduzione di Emanuela Oddi)
12 Febbraio 2006
CALIFORNIA – Circa un anno e mezzo fa, un ex sergente dei Marines di 40
anni, di nome Jeffrey Lehner, tornato di recente dall’Afghanistan, mi
telefonò e mi chiese di incontrarlo. Da quando era tornato aveva vissuto
con suo padre, un farmacista in pensione, nella casa di Santa Barbara
dove era cresciuto. Avevo sentito parlare di lui da una conoscenza in
comune, con cui lui era uscito e che mi aveva raccontato di quanto fosse
stressato per tutto quello che aveva visto durante i suoi giri in
Afghanistan, Pakistan e Medio Oriente.
Ci incontrammo per pranzo in un ristorante del Canon Perdido nei
sobborghi di Santa Barbara. Jeff era concentrato, si esprimeva molto
bene ed era bello come una star del cinema. Era piuttosto provato, ma
totalmente lucido.
Non c’era modo in cui avessi potuto conoscere quel giorno la profondità
dell’infelicità di Jeff, né modo di sapere la tragedia che sarebbe
seguita. Ascoltai attentamente la sua storia e, mentre mi stupivo di ciò
che stavo sentendo, non avevo ragioni particolari per non credergli.
Si era arruolato nei Marines in modo entusiastico, mi aveva detto, e per
otto anni era stato un meccanico di volo. Non molto tempo dopo l’11
Settembre, iniziò ad aiutare a portare materiali in Afghanistan con la
prima ondata di truppe che partì dagli Stati Uniti.
All’inizio, Jeff appoggiava la politica amministrativa nella regione.
Col passare del tempo però, iniziò a cambiare. Mentre parlavamo tirò
fuori un album fotografico dell’Afghanistan. Mi indicò una serie di foto
di rimorchi e diversi magazzini dietro ad un recinto di filo spinato; le
foto erano state scattate, disse, fuori da una base militare americana
non lontano dall’aeroporto di Kandahar. Mi disse che i giovani afgani –
alcuni visibili nelle foto – erano stati reclutati e portati nella base
da una squadra speciale della CIA. Gli ufficiali della CIA non facevano
grande mistero di quello che stavano facendo, disse, ma non
consideravano più di tanto i Marines, e, se sfidati, facevano valere la
propria superiorità di grado.
Jeff disse che alcuni soldati che avevano assistito, gli avevano
rivelato che i detenuti venivano interrogati e torturati, e che a volte
gli venivano anche somministrate droghe psicotrope. Jeff riteneva che
qualcuno fosse anche morto. Quello che lo disturbava maggiormente, mi
disse, era che i detenuti non erano guerrieri Talebani, né associati di
Osama Bin Laden. “Quando arrivammo laggiù” mi disse Jeff, “i guerrieri
veri se ne erano andati da tempo.”
Jeff aveva anche altre storie da raccontare. Disse che la squadra della
CIA aveva messo i detenuti nei container di un aereo e li interrogavano
in volo. Lui era stato a bordo di alcuni di questi voli, e quello che
aveva visto lo aveva turbato profondamente.
Jeff mi stava dicendo la verità? Come giornalista che scrive articoli
investigativi, ero spesso contattata da gente che raccontava strane
storie – a volte accuratamente dettagliate, altre per vendette
personali, certe volte paranoiche, o pazze. Jeff sembrava sincero, ed
aveva raccontato queste storie anche ad alcuni amici e familiari. Ma io
ero preoccupata perché in quel periodo, non avevo sentito niente su
questi abusi in Afghanistan e le sue storie erano difficili da
verificare.
Preoccupato, Jeff stava seguendo dei trattamenti per disordini da stress
post-traumatico, e mi chiedevo se fosse stato in grado di sostenere la
bufera che le sue affermazioni avrebbe generato.
I sintomi dei disordini da stress post-traumatico (PTSD), possono
includere ansia, pensieri profondamente paurosi, un senso di incapacità
o flashback. Il caso di Jeff derivava, secondo Jim Nolan, un compagno
veterano ed amico di Jeff del gruppo di sostegno, dal fatto di aver
testimoniato l’”irraccontabile”, e dalla sua incapacità di fermare ciò
che riteneva moralmente sbagliato.
Il caso di Jeff fu peggiorato, disse il suo amico, anche dal forte senso
di colpa per essere sopravvissuto, tra le altre cose, all’incidente
aereo del KC – 130 che si schiantò contro una montagna nel gennaio 2002
– uccidendo 8 uomini della sua unità. Lui era stato messo in quel volo
salvo poi essere riassegnato all’ultimo minuto. Come parte della squadra
che si occupava della manutenzione di quell’aereo, Jeff incolpava se
stesso per quell’incidente. In seguito, si recò sul luogo dell’incidente
per recuperare i resti. Trovò i corpi dei suoi compagni irriconoscibili.
Mi disse anche che rimase profondamente scosso dai danni collaterali
provocati alle popolazioni civili dagli attacchi aerei statunitensi –
specialmente dalle ferite inferte dalle granate a tempo ai bambini
afgani.
Jeff mi disse che spesso di notte non riusciva a dormire, ripensando a
ciò che aveva visto e sentito. Era partito per l’Afghanistan come un
bevitore normale, ma era tornato a casa, come molti veterani, come un
alcolizzato. Ammise anche di essersi curato da solo con delle droghe.
Stava cercando aiuto – e solo pochi giorni prima del nostro incontro,
aveva guidato 100 miglia per partecipare ad un programma di trattamento
per veterani a Los Angeles. Ma l’ospedale per la cura dei disordini da
stress post-traumatico dei veterani era pieno, mi disse, e fu messo in
un reparto per schizofrenici, che aggravò solamente la sua situazione di
isolamento e disperazione.
Lasciò l’ospedale dopo un solo giorno. Entrò in contatto con la Dr.ssa
Sharon Rapp, la sola psicologa specializzata nel trattamento di questi
disturbi per i veterani residenti tra L.A e San Francisco, secondo
l’Ufficio VA di Santa Barbara. Rapp, che è nonostante tutto una
terapista appassionata e dotata, lo fece unire ad un gruppo con altri 10
veterani del Vietnam che presero Jeff sotto la loro ala. Ma presto
divenne estremamente chiaro che Jeff, come tanti veterani, aveva bisogno
di molto di più di questo.
Quando Jeff mi raccontò la storia, non sapevo bene che farci. Questo
tipo di dichiarazioni non erano ancora venute fuori – e molti americani
l’avrebbero probabilmente trovate poco credibili. Per diverse ragioni,
misi la sua storia da parte. Continuai a stare in contatto con lui – ed
occasionalmente a parlare con il padre, Ed, che invariabilmente
rispondeva al telefono – mentre meditavo sulla sua storia.
Comunque, alla fine dell’anno scorso, i dettagli sulle prigioni segrete
cominciarono a venir fuori. La Human Rights Watch, per esempio, dichiarò
che un numero di uomini tenuti prigionieri nella prigione americana di
Guantanamo, a Cuba, avevano dato ai loro avvocati, “descrizioni
dettagliate” sulle torture subite in una prigione segreta americana in
Afghanistan. Decisi che era ora di chiamare Jeff ed incontrarsi di
nuovo.
Era all’inizio di dicembre. Jeff viveva ancora nella casa di suo padre
fuori dalla Old San Marcos Road. Aveva rotto con la mia amica, con
un’altra donna con cui aveva avuto una breve relazione e combatteva per
rimanere sobrio. Ma quando chiamai era troppo tardi. Quel giorno Jeff
aveva litigato con il padre. Nel pomeriggio avevano partecipato ad una
seduta non programmata con la Dr.ssa Rapp. Secondo il Dipartimento dello
sceriffo della Contea di Santa Barbara, la Dr.ssa Rapp si era
preoccupato così tanto dopo il loro incontro che aveva chiamato casa
Lehner alle 6 del pomeriggio. Aveva risposto Ed, che aveva parlato con
lei e poi aveva chiamato suo figlio al telefono. A questo punto, la
linea improvvisamente si era interrotta. Temendo il peggio, la Rapp
aveva chiamato la polizia.
Il caso si dimostrò essere dei peggiori. La polizia trovò due cadaveri,
e concluse rapidamente che si fosse trattato di un omicidio-suicidio. Ed
Lehner era morto a seguito di ripetute ferite da arma da fuoco, e Jeff
da un singolo proiettile, inflitto da solo alla testa.
L’ironia era che dopo 8 anni nei Marines, la prima ed unica persona che
Jeff aveva ucciso era suo padre.
Nolan, che aveva dichiarato di essere tornato dal Vietnam emotivamente a
pezzi, non fu completamente sorpreso degli eventi. Secondo la sua
opinione, il rapporto di Jeff con il padre, un uomo pacato e malato di
diabete, era già teso prima dei suoi anni nei Marines, e si era
deteriorato ulteriormente quando la dipendenza di Jeff dal padre era
divenuta più profonda. “Aveva parlato di suicidio un paio di volte
durante le sedute,” disse Nolan, “come avevamo fatto tutti una volta o
due. E’ una questione che riguarda la perdita del rispetto. Quando perdi
il rispetto per i membri della tua famiglia, non rimane che rabbia, e
questo è ciò che la rabbia produce.”
Ci sono diversi modi di gestire la rabbia, ma i trattamenti riservati ai
veterani che tornano dalle guerre sono disgraziatamente inadeguati, a
causa di mancanza di fondi. Anche se il VA è a conoscenza che il PTSD è
un problema serio per queste persone, gli ospedali che se ne occupano
nel paese hanno diminuito i posti riservati ai degenti con problemi
psichiatrici, secondo il Los Angeles Times.
Il suicidio, nel frattempo, è diventato un problema enorme ed in
continua crescita. Le statistiche sono dure da stilare, ma qualcuna di
esse ha stimato che anche se 58.000 veterani sono morti in combattimento
durante la guerra in Vietnam, una cifra maggiore ha ripreso la propria
vita dopo il ritorno a casa. In uno studio della CDC del 1987, il tasso
di suicidio tra i veterani del Vietnam risultò essere del 65% più alto
di quello tra civili. L’Esercito ha stimato che il tasso di suicidio tra
i veterani dell’Iraq è di 1/3 più alto della media storica. […] Ciò
significa che in futuro avremo una bufera di suicidi senza un adeguato
programma per i veterani capace di fermare la crisi.
Senza Jeff e gli ulteriori dettagli che avrebbe potuto fornire, dubito
che saprò mai con certezza se tutte le storie raccontate
sull’Afghanistan siano vere. Ma non importa ciò che crederete quando
leggerete questo, la storia della vita e la morte di Jeff sollevano una
questione che dovremmo considerare se continueremo a mandare truppe in
zone di guerriglia e insurrezioni. Trent’anni dopo la guerra in Vietnam,
sembra che abbiamo imparato veramente poco.
Ovviamente mi sento malissimo ora per non aver passato più tempo con
Jeff e per non aver provato a far pubblicare la sua storia quando era
ancora vivo.
Aveva questo sorriso così abbagliante – di quel tipo che sai destinato a
grandi cose.
Fonte: Los Angeles
Times (ANN LOUISE BARDACH scrive per la rubrica “Interrogation” ed è
l’autrice di “Cuba Confidential, love and Vengeance in Miami and Havan.”)
Los Angeles Times
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