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Uno, nessuno e centomila
di Ghismunda

Le indosso tutte le maschere del mio mestiere.
E in nessuna mi riconosco completamente, nessuna esaurisce le tante varianti e sfaccettature di una professione che non è solo istruzione e tecnicismo, ma soprattutto relazione e scambio.
Dipende dalla giornata, dal momento, dalla classe, ma non si tratta di variazioni umorali. Possiedo, ancora, quel tanto di autocontrollo che mi permette di evitare fuorvianti contaminazioni tra il vissuto personale e la dimensione professionale, tra come mi sento “oggi” e quello che “devo” tutti i giorni. Anche se non è facile, anche se nella relazione con l’altro, giovane o adulto che sia, non puoi non portarti dietro ciò che sei, come sei…
E’ che a volte ritengo sia meglio, come insegnante, comportarmi in un certo modo piuttosto che in un altro, premeditatamente; a volte, invece, certi comportamenti scattano in automatico.
Il risultato è lo stesso: cado nello stereotipo.
E non sono contenta.

L’insegnante missionario: butto alle ortiche i contenuti disciplinari, mi carico sulle spalle i loro problemi, comprendo, giustifico, aiuto, assisto, consolo. Spirito di sacrificio, non di servizio. Quante ore (in più) ad ascoltare, a parlare, fuori dall’aula, in cortile, nei corridoi, tra promesse e speranze. A metà strada tra l’assistente sociale e la psicologa (ma io non sono né l’una né l’altra…), me ne torno a casa soddisfatta… mentre si fa largo un’impressione dolciastra di buonismo e una smarrita consapevolezza di non aver fatto quello che so fare veramente, che mi piace trasmettere: spiegazioni, letture… I miei autori, i miei libri, le cose importanti che ho studiato, dove li ho messi? A che mi servono?
L’insegnante nostalgico: so quello che devo fare. Come una volta. Apro la pagina bella, l’autore classico e una dotta e splendida lezione prende vita, tra riferimenti, confronti, approfondimenti, attualizzazioni… Poi assegno, pagine da studiare, compiti da svolgere… Così si fa, questa è scuola, mi ripeto mentre torno a casa, mentre mi assale la fastidiosa e malinconica consapevolezza di essermi parlata addosso, di essere stata l’unica, o quasi, ad accorgermi di me. “Dio non ha creato niente di inutile, ma con le mosche e gli insegnanti ci è andato vicino”: è una delle ultime incisioni del graffitismo contemporaneo. Cos’altro era, il mio, se non un inutile ronzio per le loro orecchie?
L’insegnante severo: domani cambio registro. Se, mentre spiego, non stanno attenti, se non seguono, se pensano ad altro, se studiano altro, mi sentono, altroché se mi sentono. E’ la volta della predica, risentita e dignitosa, che può anche assumere il carattere della sfuriata, veemente e inflessibile. A metà strada tra il genitore e l’insegnante, me ne torno a casa, ripetendomi ce l’ho fatta, hanno capito come ci si comporta, ma il ricordo del silenzio stupito e dell’espressione perplessa con cui seguivano il mio intervento “educativo”, incrina la mia fiducia, m’insinua un ricordo malizioso, la testimonianza di un collega: “Dunque ce l’avevo fatta: quei ragazzi avevano capito finalmente la mia funzione e quale danno facevano a me e a se stessi trascurando le mie lezioni. Mentre iniziavo a cullare questa conquista, dall’ultimo banco senza dire una parola si alzò un giovanotto. Teneva costantemente gli occhiali scuri, una bandana in testa e curiosi stivali da cow boy molto anni Settanta. Nel silenzio della classe iniziò con calma a muoversi verso la cattedra, mentre nell’aria lo scalpiccio dei suoi poderosi tacchi dava alla scena una venatura da sfida all’O.K. Corral. Una musica a scelta di Ennio Morricone mi ronzava nella testa fino a che il mio allievo fu a pochi centimetri da me. Allora, calmo, senza una sola nota di aggressività, direi persino un po’ dispiaciuto per la mia miserevole condizione, si limitò a suggerirmi: «Prof, lei deve scopare di più»".
Nooo, con me non ci proverebbero mai. A dirmelo.
L’insegnante mito: sono anche questo, senza falsa modestia. Mi apprezzano, mi seguono, si appassionano, a volte approfondiscono. Con me stanno volentieri, ma non per le mia capacità di intrattenimento, no no, proprio per le mie conoscenze, le mie divagazioni, i miei voli pindarici. Per quello che so, che dico. E per come lo dico. Mi vogliono bene, penso commossa mentre torno a casa, mentre s’insinua, anche questa volta, un’inquietudine, una paura... Non è sempre positivo esercitare un’influenza eccessiva sui ragazzi, posso creare dipendenza, aspettative, illusioni, favorire scelte avventate, belle in sé ma perdenti nella vita… Con che diritto? E poi, che responsabilità! I miti possono deludere, cadere o semplicemente sbiadire nel ricordo, allontanarsi per sempre…
Dopo, si resta soli.

Uno, nessuno, centomila. Sono tutto e sono niente. Forse “non esiste un solo modo di essere insegnante, ma esistono tanti insegnanti quanti sono i ragazzi, gli studenti che ci sono capitati o ci capiteranno di fronte”.

Le citazioni sono tratte da “La mia scuola. Chi insegna si racconta”, a cura di Domenico Chiesa e Cristina Trucco Zagrebelsky, Einaudi ed.
 

 

La voce di Ghismunda, 8 febbraio 2006

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 11 febbraio 2006

 

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