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Il
canto
magnanimo: il poeta Umberto Piersanti
L’intenzione di canto di
Umberto Piersanti è dentro la tradizione. E lo è come prosecuzione di
quella poesia naturalistica che viene da Carducci, da Pascoli, da
Pavese, da Pasolini, da Bertolucci. Piersanti, oggi, è il maggior poeta
di natura che ci sia in Italia, una delle voci più autentiche della
lirica italiana del secondo Novecento e di questo primo scorcio di nuovo
millennio. La sua è una prospettiva di immersione dell’uomo nella
totalità, in un luogo definito, conchiuso: la specola di Urbino e degli
altipiani del Montefeltro. Su queste basi due critici affermati come
Roberto Galaverni (scrive sui principali periodici di letteratura, fra
cui “Nuovi Argomenti” e “Alias”), e Massimo Raffaeli (firma del
“manifesto” da quasi trent’anni), hanno dato alle stampe Il canto
magnanimo. A colloquio con Umberto Piersanti (peQuod, Ancona, 2005).
Una lunga conversazione preceduta da due testi assai mirati, dal titolo
“Tempi” e “Luoghi”, parole chiave per addentrarci nella poetica di
Piersanti. Dal libro emerge in maniera decisiva che è ancora possibile
il canto nella poesia lirica, che decenni di sperimentalismo
avanguardista e di poesia scritta in prosa, non hanno inficiato le
singolari e marginali vicende in cui la poesia lirica coincide con le
occasioni di un uomo e con il percorso di un poeta. Il canto
magnanimo dimostra, dalla viva voce del poeta che si racconta, cosa
vuol dire buttare la testa tra l’erba, godere di fiori, sapori, odori.
La nomenclatura esatta della natura è stata insegnata dal Pascoli, dal
D’Annunzio di Alcyone, dal Carducci nei suoi schemi prosodici.
Piersanti ha ereditato una notazione di poetica nelle vedute istantanee
dei campi, degli orti, dei greppi, dei fossi. E nel libro sfilano il
dopoguerra a Urbino, la rinascita della letteratura nelle Marche, i
maestri (Carlo Bo, Paolo Volponi e Franco Scataglini tra tutti). |
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agli incroci dei venti, 9 gennaio 2006 |