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Il canto magnanimo: il poeta Umberto Piersanti
di Alessandro Moscè

L’intenzione di canto di Umberto Piersanti è dentro la tradizione. E lo è come prosecuzione di quella poesia naturalistica che viene da Carducci, da Pascoli, da Pavese, da Pasolini, da Bertolucci. Piersanti, oggi, è il maggior poeta di natura che ci sia in Italia, una delle voci più autentiche della lirica italiana del secondo Novecento e di questo primo scorcio di nuovo millennio. La sua è una prospettiva di immersione dell’uomo nella totalità, in un luogo definito, conchiuso: la specola di Urbino e degli altipiani del Montefeltro. Su queste basi due critici affermati come Roberto Galaverni (scrive sui principali periodici di letteratura, fra cui “Nuovi Argomenti” e “Alias”), e Massimo Raffaeli (firma del “manifesto” da quasi trent’anni), hanno dato alle stampe Il canto magnanimo. A colloquio con Umberto Piersanti (peQuod, Ancona, 2005). Una lunga conversazione preceduta da due testi assai mirati, dal titolo “Tempi” e “Luoghi”, parole chiave per addentrarci nella poetica di Piersanti. Dal libro emerge in maniera decisiva che è ancora possibile il canto nella poesia lirica, che decenni di sperimentalismo avanguardista e di poesia scritta in prosa, non hanno inficiato le singolari e marginali vicende in cui la poesia lirica coincide con le occasioni di un uomo e con il percorso di un poeta. Il canto magnanimo dimostra, dalla viva voce del poeta che si racconta, cosa vuol dire buttare la testa tra l’erba, godere di fiori, sapori, odori. La nomenclatura esatta della natura è stata insegnata dal Pascoli, dal D’Annunzio di Alcyone, dal Carducci nei suoi schemi prosodici. Piersanti ha ereditato una notazione di poetica nelle vedute istantanee dei campi, degli orti, dei greppi, dei fossi. E nel libro sfilano il dopoguerra a Urbino, la rinascita della letteratura nelle Marche, i maestri (Carlo Bo, Paolo Volponi e Franco Scataglini tra tutti).
Umberto Piersanti è nato negli anni ’60 come poeta: Il tempo differente (Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1974) era già un libro compiuto. Ma è con I luoghi persi (Einaudi, Torino, 1994) che avviene il salto di qualità. Alla domanda di Massimo Raffaeli su questa prima raccolta einaudiana che cambia quotazione, prospettive, occasioni di incontro e di lavoro, Piersanti risponde affermando: “Nei Luoghi persi c’è qualcosa di diverso, sento che è nato in me un progetto preciso. Sapevo che quella casa e quel mondo dovevano diventare l’oggetto di una nostalgia che non era solo nostalgia, dovevano diventare il nodo centrale di un sentire che oggi, riflettendoci a posteriori, avverto come alternativa. Parlando di un mondo autentico (per carità non in chiave ecologica!) mi contrappongo oggettivamente non tanto alla modernità ma ai suoi aspetti più volgari e facili”.
Con I luoghi persi Umberto Piersanti inventa una vera e propria mitografia che mescola la realtà, le persone, con il mondo magico, con i folletti, con il mito del quotidiano, con i racconti favolosi del nonno Madìo. Esistono uno spazio e un tempo propri che si muovono nell’altopiano dalla linea severa e spoglia (le Cesane), come scrive Raffaeli. E Roberto Galaverni individua una componente anacronistica nella poesia di Piersanti. E’ questa, con ogni probabilità, la parte più originale, fedele alla tradizione e alla misura del proprio sentire, ad una dimensione perfino antropologica, in quella forza del passato, direbbe Pasolini, che ci sembra appartega al poeta di Urbino. In quella campagna remota, i luoghi persi sono diventati il centro motore del canto magnanimo. La poesia italiana del secondo Novecento è stata spesso costretta nello schema duale: da un lato il grande stile, l’orfismo e l’ermetismo, dall’altro l’avanguardia, la cosiddetta “poesia di plastica”. Ma la voce non duale, bensì plurale, contempla un’altra via, quella di chi alimenta i suoi versi dalla postazione dello spazio fisico, da un radicamento che identifica, da una località così universale. Umberto Saba può essere riconosciuto come il primo garante di questa pluralità. Umberto Piersanti ha la consapevolezza di una poesia alta praticabile a partire da un mondo che non c’è più.

 
 

 

 
 

agli incroci dei venti, 9 gennaio 2006

 

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