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Itten, occulto
e moderno
di
Antonio Castronuovo
In
una cartella dei maestri del Bauhaus, che risale al 1921, si conserva
una singolare litografia a colori. Su un cartoncino grigio chiaro sono
tracciati a penna, con segno limpido, il contorno di un cuore che poggia
su un biglietto rettangolare. Dentro queste superfici si dipana, con
caratteri e colori di forte contrasto, una scritta. A tutta prima sembra
anch’essa far parte del disegno, un esperimento per fare di vocali e
consonanti meri elementi di un arabesco cromatico. Se però l’attenzione
s’affila, ne emerge una frase in cui primeggiano le parole Herzen e
Liebe: cuore, amore. Dalla frase affiora un senso compiuto: «Salve ai
cuori che illuminati dalla luce dell’amore non vengono tratti in inganno
né dalla speranza del paradiso né dalla paura dell’inferno». Anche nel
Bauhaus, cuore eccellente del Moderno, circolavano dunque messaggi
religiosi. La cartella appartiene al professor Johannes Itten: era lui
che invitava a superare l’inganno alimentato dal Cristianesimo dei premi
o delle condanne postume, e farlo mediante una luce che, se non altro,
sembra gettare tra le geometrie esatte un’ombra di esoterismo.
Il secondo dopoguerra ha avuto non poche difficoltà con questi
personaggi. Si poneva infatti un problema di convenienza: come
reintegrare le avanguardie della prima metà del secolo se non
sfrondandone ogni occultismo? Non era possibile riabilitare agli occhi
dell’Europa le vittime della repressione nazista o stalinista e svelarne
al contempo un lato oscuro; non sembrava conforme alla rinascita civile
manifestare anche la propria radice esoterica. Quel lato oscuro fu
messo, se possibile, ancor più in ombra, e sparì. Senza però far sparire
la verità: che il movimento del Moderno si era sviluppato anche da linfe
irrazionali. Toccò a Itten – e a quel che la sua figura aveva
rappresentato – dileguarsi nell’anonimato di una funzione impiegatizia.
Svizzero, nato nell’Oberland bernese nel 1888, scappa a vent’anni a
Ginevra perché ha deciso di fare il pittore a tempo pieno. Erano ancora
tempi in cui si prendevano decisioni appassionate senza pensare alle
conseguenze. Giunge a Vienna che è appena scoppiata la Grande Guerra, si
trova attratto nel vortice della teosofia e prende a frequentare il
salotto di Alma Mahler, dove si compie il suo destino: Alma – donna
fatale che ha consumato più di un matrimonio – è infatti in quegli anni
moglie di Walter Gropius. È lui a misurare il genio del giovane e,
quando nel 1919 è chiamato a dirigere il Bauhaus di Weimar, a invitarlo
in qualità d’insegnante. Itten vi si trasferisce l’anno dopo, quando gli
viene affidata la direzione del corso propedeutico.
Assume l’incarico con l’idea di dover formare l’allievo, non di dover
semplicemente impartire nozioni per fargli conseguire una preparazione
tecnica adeguata a praticare le diverse officine dell’istituto.
L’obiettivo di Itten fu quello di configurare personalità complete,
sviluppare le capacità creative senza pensare ai fini pratici. Alla base
di questo programma di formazione stava un amalgama di pedagogia,
estetica e teosofia. Da tempo Itten s’era avvicinato alla singolare
branca teosofica del Mazdaznan. Nell’estate del 1921 ne introdusse le
idee al Bauhaus: vi aderì una piccola comunità di studenti, per i quali
la mensa cominciò a sfornare cibi vegetariani.
La dottrina di Mazdaznan, termine che sta per “pensiero giusto che
domina nel modo migliore”, era stata concepita dal polacco Otoman
Zar-Adusht Hanish a fine Ottocento; dottrina eclettica in cui
confluivano mitologie orientali e che mirava a uno stile di vita
salutista fondato su vegetarianesimo e movimento controllato. Veniva
così predisposto un regno terreno su cui l’anima – che aspira per sua
natura alla salvezza – poteva tentare di affrancarsi da desideri e
passioni mediante una disciplina svincolata da ogni fede. Vi giocava un
ruolo anche la teoria dei contrasti e delle polarità: secondo il
Mazdaznan l’intera universo si basa sulla dualità, l’opposizione, la
differenza; ovvio che si dia una religione originaria dell’uomo che
contrappone due creature, quella del bene e quella del male.
Le giornate del piccolo gruppo sono scandite da momenti d’incontro,
meditazione ed esercizi di respirazione ritmica. Gli affiliati sono ben
riconoscibili perché indossano un grembiule che lo stesso Itten ha
disegnato: color rosso vino, con un collettone nero, polsini stretti e
cintura in vita. Portano capelli molto corti, se non proprio rasati a
zero. Itten si aggira tra gli spazi del Bauhaus con aura fiabesca; parla
sottovoce, e a lui bisogna accostarsi bisbigliando; si rivolge agli
studenti in modo lieve e naturale. Apre le lezioni con esercizi di
ginnastica, utili a rilassare il corpo e a condurre l’allievo a una
condizione di armonia che lo dispone agli studi sul ritmo. Per
migliorare l’armonia sono necessari esercizi d’integrazione delle due
mani, come per i pianisti. Itten sosta davanti a un cavalletto che
sorregge un ampio foglio di carta da disegno, stringe nelle mani dei
carboncini, si carica di energia arcuando il corpo e poi scatta a
tracciare sul foglio, con entrambe le mani, linee arabescate. Gli
allievi devono poi ripetere il gesto, con un identico slancio: nulla
della tradizionale formula pedagogica delle accademie d’arte, dove
dominavano le discipline del ritratto, del nudo, dell’anatomia.
Tutto è movimento, secondo Itten, e la storia dell’arte è un eterno
fluire. Ad un certo punto appare nei suoi disegni la spirale, simbolo
del movimento perpetuo, e dalla spirale, come elemento preparatorio,
prende forma la sua Torre di fuoco, una delle sue più singolari
realizzazioni artistiche del Novecento, oggi scomparsa.
L’ossatura della torre, altra tre metri e mezzo, era costituita da
dodici cubi sovrapposti, di dimensione progressivamente minore e ruotati
secondo un angolo costante. Sulle facce libere dei cubi erano applicati
obliqui ventagli di vetro colorato: l’insieme acquisiva un senso di
slancio a spirale verso l’alto, come se una scomposizione prismatica dei
colori fosse raccolta in un fuso verticale.
Un sapere sacro sorreggeva la propedeutica del Bauhaus, vivaio di scabra
laicità. Non poteva durare. Nel 1922 Itten chiese a Gropius di prendere
una posizione netta tra la sua formula pedagogica, basata sul rifiuto
della società e una lotta condotta mediante i mezzi dell’arte, e quell’intesa
con la sfera dell’industria che cominciava a circolare nelle aule
dell’istituto. L’indirizzo di Gropius fu chiaro: accogliere il design
industriale, l’arte applicata, la nuova oggettività: la rottura tra i
due fu inevitabile. Con Itten, erano recise dal Bauhaus le radici
occulte del moderno, la tensione implicita nel Novecento a perseguire
tragitti di autosalvezza, a interpretare il mondo secondo una formula
d’arte. Nessuno, come lui, era riuscito a compendiare nella propria
persona avanguardia formale, passione universalista, impulso teosofico.
E per donare la sintesi di questi elementi perseguì una trasformazione
del pensare e sentire che rischiò di trasformare il Bauhaus in un
cenobio vegetariano. Nel 1923 abbandonò l’istituto e il suo posto fu
affidato a Moholy-Nagy. Si chiudeva la fase romantica e utopistica del
Bauhaus.
Se ne andò a Berlino, dove fondò una propria scuola d’arte. Nel 1934
finì nel calderone degli eccentrici, quelli che i nazisti,
possibilmente, intesero cancellare dalla faccia della terra: gli
chiusero la scuola berlinese e pochi anni dopo, nel 1937, alcuni suoi
quadri finirono esposti, a Monaco, nella mostra dell’Arte Degenerata,
aggettivo ben adatto a indicare oggi quel che ruminava nelle viscere di
chi l’aveva inventato. Emigrò in Olanda e passò poi in Svizzera, dove a
Zurigo diresse la Scuola di Arti Applicate. Nel 1967 s’è compiuta per
lui l’armonia del Mazdaznan.
Antonio
Castronuovo - Parola all’artista - EnnErre. Milano, 2005. pp.
11–16
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